Bibliografia della tesina Le tenebre dell’odio e della paura: l’Europa…
27 Gennaio 2019La follia
27 Gennaio 2019L’estetismo : il culto della bellezza
Tesina Esame di Stato di Roberto Garavaglia – Maturità 2002
In Italia Gabriele D’Annunzio è il portavoce principale della cultura estetizzante.
Personaggio di indiscutibile fama, patriota, scrittore, uomo di società, egli mirò a realizzare uno stile di vita del tutto eccezionale libero da costrizioni e vincoli, fastoso, raffinato, sensuale, ricco di- tensioni erotiche, forte di ideali eroici.
Sul personaggio D’Annunzio è stata scritta una mole innumerevole di biografie, saggi, critiche, ed è stato detto tutto ed il contrario di tutto- Ciò fai comprendere quale importanza abbia avuta il poeta all’interno del panorama letterario, della società e dell’immaginario popolare nazionale.
La sua influenza si esercita appunto, oltre che in ambito propriamente letterario, sul costume e sulla società italiana per parecchi anni, almeno sino al primo conflitto mondiale. Egli era per milioni di persone un modello di comportamento e di gusti, oltre che un fervido creatore di mode e atteggiamenti e un ispiratore dì ideali.
La vita
La vita di D’Annunzio può essere considerata una delle sue opere più interessanti. Secondo i principi dell’estetismo, bisognava fare della vita un’opera d’arte, e D’Annunzio fu costantemente teso alla ricerca di questo obbiettivo. Per questo i dati biografici nel suo caso meritano una particolare attenzione.
Nato nel 1863 a Pescara da agiata famiglia borghese, studiò in una delle scuole più aristocratiche dell’Italia del tempo, il collegio Cicognini di Prato. Precocissimo, esordì nel 1879, sedicenne, con un
libretto in versi, Primo vere, che suscitò, una certa risonanza ed ottenne benevola attenzione anche da parte dei letterati di fama. Raggiunta la licenza liceale, a diciotto anni, si trasferì a Roma per frequentare l’università. In realtà abbandonò presto gli studi, preferendo vivere tra salotti mondani e redazioni dei giornali.
Acquistò subito notorietà, sia attraverso una copiosa produzione di versi, di opere narrative, di articoli giornalisti,
che spesso suscitavano scandalo per i loro contenuti erotici, sia attraversa una vita altrettanto scandalosa, per i principi morali dell’epoca, fatta di continue avventure galanti, lusso e duelli. Sono gli anni in cui D’Annunzio sì crea la maschera dell’esteta, dell’individuo superiore, dalla squisita sensibilità, che rifugge inorridito dalla mediocrità borghese, rifugiandosi in un mondo di pura arte, e che disprezza la morale corrente, accettando come regola di vita solo il bello.
Questa fase estetizzante della vita di D’Annunzio attraversò una crisi alla svolta degli anni Novanta, riflettendo
si anche nella tematica della produzione letteraria; lo scrittore cercò così nuove soluzioni, e le trovò, in un nuovo mito, quello del superuomo, ispirato approssimativamente alle teorie del filosofo tedesco Nietzsche, un mito non solo più di bellezza, ma dì energia eroica, attivistica. Comunque, per il momento, all’azione si accontentava di sostituire la letteratura, ed il superuomo restava un vagheggiamento, fantastico, di cui si nutriva la sua produzione poetica e narrativa. Nella realtà, D’Annunzio puntav
a a creare l’immagine di una vita eccezionale (il “vivere inimitabile”), sottratta alle norme del viverci comune. Colpiva soprattutto la fantasia del pubblico borghese la villa della Capponcina, sui colli di Fiesole, dove D’Annunzio conduceva una vita da
principe rinascimentale, tra oggetti d’arte, stoffe preziose, cavalli e levrieri di razza. A creargli intorno un alone di mito contribuivano anche i suoi amori, specie quello, lungo e tormentato, che lo legò alla grandissima attrice Eleonora Duse. In realtà, in questo disprezzo per la vita comune ed in questa ricerca di una vita eccezionale, D’Annunzio era strettamente legato alle esigenze del sistema economico del suo tempo. Con le sue esibizioni clamorose ed ì suoi scandali lo scrittore voleva mettere in primo piano nell’attenzione pubblica, per vendere meglio la sua immagine e i suoi prodotti letterari. Gli editori gli pagavano somme favolose, ma quel fiume di denaro non era mai sufficiente alla sua vita lussuosa. Quindi, paradossalmente, ìl c
ulto della bellezza ed il “vivere inimitabile”, superoministico, risultavano essere finalizzati al loro contrario, a ciò che D’Annunzio ostentava di disprezzare: il denaro e le esigenze del mercato: proprio lo scrittore più ostile al mondo borghese era in realtà il più legato alle sue leggi; lo lo scrittore che più spregiava la massa, era costretto a sollecitarla e a lusingarla. E’ una contraddizione che D’Annunzio non riuscì mai a superare.
Ma, in obbedienza alla nuova immagine mitica che voleva creare di sé, D’Annunzio non si accontentava più dell’eccezionalità di un vivere puramente estetico, – vagheggiava anche sogni di attivismo politico. Per questo, nel 1897, tentò l’avventura parlamentare, come deputata dell’estrema destra, in coerenza con le idee affidate ai libri, in cui esponeva con veemenza il suo disprezzo per i principi democratici ed egualitari, il suo sogno di una restaurazione della grandezza di Roma e di una missione imperiale dell’Italia, del dominio di una nuova aristocrazia che ripristinasse il valore della bellezza contaminato dal dominio borghese. Ciò non gli impedì, nel 1900, di passare allo schieramento di sinistra ( “Vado verso la vita”): ma non deve meravigliare , perché questa ambigua disponibilità è propria delle posizioni irrazionalistiche, estetizzanti e vitalistiche, che sono sempre attratte dalle manifestazioni di forza ed energia vitale, qualunque orientamento ideologico esse seguano.
Cercando uno strumento con cui agire più direttamente sulle folle per imporre il suo verbo di “vate”, D’Annunzio a partire dal 1899 si rivolse anche al teatro, che poteva raggiungere un più vasto pubblico che non i libri. Ma i sogni attivistici ed eroici erano destinati a restare confinati nella letteratura ancora a lungo, nel clima pacifico dell’età giolittiana. Anzi, nonostante che la sua fama nel primo decennio del Novecento stesse toccando punte “divistiche”, sebbene il dannunzianesimo, limitazione del vate nelle idee, nel parlare, negli atteggiamenti, stesse improntando di sé il costume dell’Italia borghese, D’Annunzio, a causa dei creditori inferociti, nel 1910 fu costretto a fuggire dall’Italia e a rifugiarsi in
Francia. Nell esilio” si adattò al nuovo ambiente letterario, scrivendo persino opere teatrali in francese, pur senza interrompere i legami con la patria ingrata” che aveva respinto il suo figlio di eccezione.
L’occasione tanto attesa per l’azione eroica gli fu offerta dalla prima guerra mondiale. Allo scoppio del conflitto D’Annunzio tornò in Italia ed iniziò un’intensa campagna interventista, che ebbe un peso notevole nello spingere l’Italia in guerra, galvanizzando l’opinione pubblica. Arruolatosi volontario nonostante l’età non più giovanile (52 anni), attirò nuovamente su di sé l’attenzione con imprese clamorose, la “beffa dì Buccali” (un’incursione nel Carnaro con una flotta di motosiluranti) e il volo su Vienna. Anche la guerra di D’Annunzio fu una guerra eccezionale, non combattuta nel fango e nella sporcizia delle trincee, ma nei cieli, attraverso la nuovissima arma, l’aereo. Nel dopoguerra D’Annunzio si fece interprete dei rancori per la ” vittoria mutilata” che fermentava tra i reduci, capeggiando una marcia di volontari su Fiume, deve instaurò un dominio personale sfidando lo Stato italiano.
L’impresa dì Fiume
Mio caro compagno, il dado è tratto! Parto ora. Domattina prenderò Fiume con le armi. Il Dio d’Italia ci assista. MI levo dal letto, febbricitante. Ma non è possibile differire. Ancora una volta lo spirito domerà la carne miserabile. Sostenete la causa vigorosamente, durante il conflitto”
Gabriele D Annunzio 11 settembre 1919
Così Gabriele D’Annunzio scriveva a Benito Mussolini: iniziava l’impresa di Fiume.
D’Annunzio, che non ha mai rinunciato a rivendicare i diritti
dell’Italia su Fiume, organizza un corpo di spedizione. A Venezia egli raggruppa gli ufficiali che fanno parte di un nucleo d’agitazione che ha per motto “O Fiume o morte!”.
Questi ufficiali assicurano a D’Annunzio un contingente armato di circa mille uomini, ai quali altri se ne aggiungono poi durante la marcia sulla città irredenta.
Gabriele D’Annunzio si autonomia capo del corpo di spedizione e il giorno 12 settembre 1919 entra in Fiume alla testa delle truppe. La popolazione acclama i granatieri italiani ed il “poeta soldato”.
L’impresa di D’Annunzio riesce anche grazie alla compiacente collaborazione del generale Pittaluga, comandante delle truppe italiane schierate davanti a Fiume, il quale concede via libera al piccolo esercito. Le truppe alleate di stanza nella città non oppongono resistenza e sgomberano il territorio chiedendo l’onore delle armi. Di fronte al colpo di mano il presidente Nitti, nel duplice intento di salvare la nazione da un pronunciamento militare e di non provocare incidenti internazionali, pronuncia un violento discorso.
L’Italia del mezzo milione di morti non deve perdersi per follie o per sport romantici e letterari dei vanesi”.
Mussolini fronteggiando l’attacco contro il suo amico D’Annunzio, scrive -sulle colonne del Popolo d’Italia:
“Il suo discorso è spaventosamente vile. La collera acre e bestiale di Nitti è provocata dalla paura che egli ha degli alleati. Quest’uomo presenta continuamente una Italia vile e tremebonda dinanzi al sinedrio dei lupi, delle volpi, degli sciacalli di Parigi. E crede con questo di ottenere pietà . E crede che facendosi piccolo, che diminuendosi, prosternandosi, si ottenga qualche cosa. E più facile il contrario. D’Annunzio non reagisce agli attacchi del Presidente dei Consiglio come Mussolini, ma conia per Nitti un soprannome, niente di più, ma un soprannome nel quale c’è tutto il suo disprezzo per il moderato che disapprova “le gesta sportive”. Lo battezza Cagoja”.
20 settembre 1919. Gabriele D’Annunzio ottiene i pieni poteri e comincia a firmare decreti qualificandosi Comandante della città di Fiume”. Il 16 ottobre le truppe regolari dell’esercito continuano a bloccare la città e D’Annunzio dichiara Fiume “piazzaforte in tempo di guerra”. Questo gli consente di applicare tutte le leggi del codice militare che in tal caso prevede anche la pena di morte con immediata esecuzione per chiunque si opponga alla causa Fiumana. Il plebiscito del 26 ottobre segna il trionfo di D’Annunzio che ottiene 6999 voti favorevoli all’annessione su 7155 cittadini fiumani votanti.
Sull’onda dei successo, D’Annunzio esprime a Mussolini un proprio progetto: marciare su Roma alla testa dei suoi uomini e impadronirsi del potere.
Mussolini lo dissuade e lo convince che la cosa finirebbe in un fallimento. In realtà la marcia su Roma è il suo grande sogno ma egli vuole ancora aspettare perché intende essere il solo condottiero di quella marcia, e non certo l’articolista di D’Annunzio, in questo momento più popolare di lui. Nel frattempo le potenze alleate ammoniscono il governo italiano sulle complicazioni che l’impresa fiumana può portare nelle trattative ma la loro presa di posizione è abbastanza moderata, tale da indurre Nitti a non intervenire con la forza contro D’Annunzio ma a intavolare con lui pacifici negoziati. Arriviamo così alla vigilia delle elezioni. D’Annunzio riprende la sua attività espansionistica ed il 14 novembre sbarca a Zara, debolmente contrastato dal governatore militare. Occupata Zara, D’Annunzio riparte pochi giorni dopo lasciando una guarnigione a presidiare la città, mentre corre voce che egli stia per tentare altre imprese del genere a Sebenico ed a Spalato. Gli italiani vanno alle urne ignorando le ultime imprese di D’Annunzio, perché il governo blocca la notizia attraverso la censura, temendo che il nuovo fatto d’armi possa mutare il corso della consultazione. Le elezioni del 1919 vedono la sconfitta dei fascisti e nel giugno del 1920 Giolittì subentra come Presidente del Consiglio a Nitti. Il 1920 vede la conclusione definitiva dell’avventura fiumana di Gabriele D’Annunzio. I rappresentanti delle potenze alleate si riuniscono a Rapallo. Il 12 novembre viene firmato un trattato che dichiara Fiume stato indipendente e assegna la Dalmazia alla jugoslava tranne la città dì Zara che passa all’Italia. Il ‘soldato’ viene invitato ad andarsene da Fiume. Questa volta l’esercito e la marina italiana non potranno più mostrarsi compiacenti con D’Annunzio. Il generale Enrico Caviglia viene inviato a Fiume per far sgomberare la città dagli occupanti. E Natale. D’Annunzio dichiara che quello sarà un Natale dì sangue e promette che verserà anche il suo, ma il generale Caviglia ordina ad una nave da guerra di aprire il fuoco contro il palazzo dei governo. Le prime bordate segnarono la fine dell’avventura di D’Annunzio che se ne va. I suoi legionari lo seguono. Portano una divisa che diverrà famosa: camicia nera sotto il grigioverde e fez nero.
Foto: il parlamento di Fiume (al centro D’Annunzio)
Non resta che concludere ricordando il motto latino che D’Annunzio coniò durante la guerra:
“Memento audere sempre” (Ricordati di osare sempre)
D’annunzio si preoccupò di far stampare subito i francobolli del nuovo governo fiumano da lui presieduto.
Dopo che fu scacciato con le armi nel 1920, sperò di proporsi come “duce” di una “rivoluzione” reazionaria, che riportasse ordine nel caos sociale del dopoguerra, ma fu scalzato dal più abile politico Benito Mussolini. Il fascismo poi lo esaltò come padre della patria, ma lo guardò anche con sospetto, confinandolo praticamente in una sontuosa villa di Gardone, che D’Annunzio trasformò in un mausoleo eretto a s stesso ancora vivente, il “Vittoriale degli Italiani”. Qui trascorse ancora lunghi anni, ossessionato dalla decadenza fisica, pubblicando alcune opere di memoria, e vi morì nel 1938.
Avendo esordito precocissimo, D’Annunzio attraversò oltre un cinquantennio di cultura italiana, influenzandola profondamente in numerose fasi con la sua produzione sovrabbondante; un influsso altrettanto profondo esercitò sulla politica, poiché elaborò ideologie, atteggiamenti, persino slogan che furono fatti propri dal fascismo (il “Mare nostro”, le “folle oceaniche”), un’impronta incalcolabile lasciò sul costume, dando vita al fenomeno dei dannunzianesimo, che segnò il comportamento di intere generazioni borghesi; ma influenzò anche le forme della nascente cultura “di massa” ‘ Come certa produzione letteraria di consumo, che traduceva le atmosfere estetizzanti e rarefatte ad uso di lettori di mediocre cultura, ed il cinema, che ai suoi esordi, negli anni Dieci, fu Profondamente Dannunziano.
L’estetismo e la sua crisi
L’esordio letterario di D’Annunzio avviene sotto il segno dei due scrittori che in Italia a cavallo degli anni ’80, suscitano maggior eco, Carducci e Verga. Le prime due raccolte liriche, Primo vere (1879) e Canto novo (1882) si rifanno al Carducci delle Odi barbare (1877); la prima opera narrativa, la raccolta di novelle Terra vergine (1882), guarda al Verga di Vita dei campi (1880).
Se si esclude Primo vere, che è poco più di un esercizio di apprendistato, il Canto novo offre già indicazioni molto interessanti. Oltre alla metrica barbara, D’Annunzio ricava da Carducci il senso tutto “pagano” delle cose sane e forti, della comunione con una natura solare e vitale. Ma questi temi sono portati al limite estremo, e toccano i vertici di una fusione ebbra tra io e natura che fa già presentire il futuro panismo superomistico. Non mancano però spunti diversi, momenti di stanchezza, visioni cupe e mortali, che, nel giovane D’Annunzio, fanno intuire come il vitalismo sfrenato celi sempre in sé il fascino ambiguo della morte. E, curiosamente, sono presenti anche spunti ‘sociali” provenienti dal contemporaneo Verismo, l’indugio su figure di reietti al limite del subumano.
Terra vergine è il corrispettivo in prosa del Canto novo. Il modello è il Verga rusticano di Vita dei campi (opera uscita solo due anni prima): anche D’Annunzio presenta figure e paesaggi della sua terra, l’Abruzzo. Ma non vi è nulla della lucida indagine condotta da Verga sui meccanismi della lotta per la vita” nelle “basse sfere”. e soprattutto nulla dell’impersonalità verghiana, risultante dall “eclisse” dell’autore e dall’immersione del punto di vista narrativo entro le realtà rappresentata. Il mondo di Terra vergine è un mondo sostanzialmente idillico, non problematico: in una natura rigogliosa e sensuale esplodono passioni primordiali, soprattutto sotto forma di un erotismo vorace, irrefrenabile, ma anche di una violenza sanguinaria. Sul piano delle tecniche narrative, questo compiacimento per la ferinità e la barbarie sì esprime in una continua intromissione della soggettività del narratore che è l’opposto dell’impersonalità verista. Sulla stessa linea si pongono sostanzialmente le raccolte di novelle successive, Il libro delle vergini (1884) e San Pantaleone (1886) che saranno poi riunite, con esclusioni e rimaneggiamenti, nelle Novelle della Pescara (1902). Anche questi testi, accanto all’interesse regionale e dialettale, rivelano l’ambiguo compiacimento, per un mondo magico, superstizioso e sanguinario. Se dunque esteriormente le novelle di D’Annunzio si richiamano al regionalismo veristico, la loro sostanza profonda è del tutto estranea al gusto documentano, agli interessi sociali, alla visione positivistica del Verismo, e si collega alla matrice irrazionalistica del Decadentismo.
I versi degli anni Ottanta e l’estetismo
La stessa matrice è evidente nella copiosa produzione in versi degli anni Ottanta, che abbandoni la linea dei vitalismo “pagano” del Canto novo e rivela l’influenza profonda dei poeti decadenti francesi ed inglesi. L’Intermezzo di rime (1883) è giocato sulla confessione della stanchezza sensuale, della sazietà della carne viziosa. Isotta Guttadauro (1886) è un esercizio raffinato ed estetizzante di recupero delle forme poetiche quattrocentesche, la Chimera (1890), pubblicata insieme allIsotteo, nuova edizione dell’Isotta Cuttadauro, insiste su temi di sensualità perversa, compendiati in immagini di una femminilità fatale e distruttrice.
Queste opere poetiche sono il frutto della fase dell’estetismo dannunziano, che si esprime nella formula il Verso è tutto”. L’arte è il valore supremo, e ad essa devono essere subordinati tutti gli altri valori. La vita si sottrae alle leggi del bene e del male e si sottopone solo alla legge del bello, trasformandosi in opera d’arte. Sul piano letterario, tutto ciò dà vita ad un vero e propria culto religioso dell’arte e della bellezza, in una ricerca di eleganza estenuante, di squisiti artifici formali. La poesia non sembra nascere dall’esperienza vissuta, ma da altra letteratura. I versi dannunziani pertanto sono fitti di echi letterari, che provengono dai poeti classici, da quelli della tradizione italiana, dai contemporanei poeti francesi e inglesi. Come lo scrittore dice dell’eroe del Piacere, anch’egli sembra aver bisogno d’una intonazione musicale datagli da un altro poeta” per incominciare a comporre.
Questo personaggio dell’esteta, che si isola dalla realtà meschina della società borghese contemporanea in un mondo rarefatto e sublimato di pura arte e bellezza, e la cui maschera indossa D’Annunzio nella vita coma nella produzione letteraria, è a ben vedere una risposta ideologica ai processi sociali in atto nell’Italia dopo l’unità, che, in conseguenza dello sviluppo capitalistico in senso moderno, tendevano a declassare e ad emarginare l’artista, togliendoli quella posizione privilegiata e di grande prestigio di cui aveva goduto nelle epoche precedenti, oppure lo costringevano a subordinarsi alle esigenze della produzione e del mercato. Il personaggio dell’esteta, costruito nell’opera letteraria, è una forma di risarcimento immaginario da una condizione reale di degradazione dell’artista.
“Il piacere e la crisi dell’estetismo”.
Ben presto però D’Annunzio si rende conto, dell’intima debolezza di questa figura e della costruzione ideologica che essa presuppone: l’esteta non ha la forza di opporsi realmente alla borghesia in ascesa, che a fine secolo si avvia sulla strada dell’industrialismo, del capitalismo monopolistico, dell’imperialismo aggressivo, colonialista e militarista. Egli avverte tutta la fragilità dell’esteta in un mondo lacerato da forze e da conflitti così brutali: il suo isolamento sdegnoso, lungi dall’essere un privilegio, non può che divenire sterilità ed impotenza, il culto della bellezza si trasforma in menzogna. La costruzione dell’estetismo entra allora in crisi. Il primo romanzo scritto da D’Annunzio, Il piacere (1889), in cui confluisce l’esperienza mondana e letteraria vissuta sino a quel momento, ne è la testimonianza più esplicita. Al centro del romanzi> è la figura di un esteta, Andrea Sperelli, il quale non è che un “doppio” di D’Annunzio stesso, in cui l’autore obbiettiva la sua crisi e la sua insoddisfazione. Andrea è un giovane aristocratico, artista, proveniente da una famiglia di artisti “tutto impregnato di arte”. Il principio fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte”, in un uomo dalla volontà debolissima, quale è Andrea, diviene una forza distruttiva, che lo priva di ogni energia morale e creativa, lo svuota e lo isterilisce. La crisi trova la sua cartina di tornasole nel rapporto con la donna. L’eroe è diviso tra due immagini femminili: Elena Muti, la donna fatale, che incarna l’erotismo lussurioso, e Maria Ferres, la donna pura, che rappresenta l’occasione di un riscatto e dì una elevazione spirituale. Ma in realtà l’esteta libertino mente a se stesso: la figura della donna angelo è solo oggetto di un gioco erotico più sottile e perverso, fungendo da sostituta di Elena, che Andrea continua a desiderare e che lo rifiuta. Andrea finisce per tradire la sua menzogna con Maria, ed è abbandonato da lei, restando solo con il suo vuoto e la sua sconfitta.
Nei confronti di questa suo “doppio letterario” D’Annunzio ostenta un atteggiamento impietosamente critico, facendo pronunciare dalla voce narrante duri giudizi nei suoi confronti, In realtà il romanzo è percorso da una sottile ambiguità, poiché Andrea non cessa di esercitare un sottile fascino sullo scrittore, con il suo gusto raffinato, con la sua mutevolezza “camaleontica” e amorale, con l’artificio continuo mediante cui costruisce la sua vita. Quindi, pur segnando un punto di crisi e di consapevolezza, il Piacere non rappresenta il definitivo distacco di D’Annunzio dalla figura dell’esteta. Nel suo impianto narrativo il romanzo risente ancora della lezione del realismo ottocentesco e del verismo, che conservava in quegli anni grande vitalità. Sono evidenti le ambizioni a costruire un quadro sociale, di costume, popolato di figure tipiche di aristocratici oziosi e corrotti.
Il superomismo
L’ideologia superomistica
D’Annunzio coglie alcuni aspetti del pensiero di Nietzsche banalizzandoli: il rifiuto del conformismo borghese e dei principi egualitari che schiacciano la personalità, l’esaltazione di uno spirito dionisiaco, cioè di un vitalismo gioioso, libero dalla morale, il rifiuto della pietà dell’altruismo, il mito del superuomo, assumono una coloritura antiborghese, aristocratica e antidemocratica. Vagheggia l’affermazione di una nuova aristocrazia che sappia elevarsi a superiori forme di vita attraverso il culto del bello e l’esercizio della vita eroica.
Il mito Nietzschiano del superuomo è interpretato da D’Annunzio come il diritto dì pochi esseri eccezionali ad affermare il loro dominio sulla massa. Questo nuovo personaggio ingloba in sé l’esteta. L’artista superuomo ha funzione di vate, ha una missione politica di guida, diversa da quella del vecchio esteta. D’Annunzio non accetta il declassamento dell’intellettuale e si attribuisce il ruolo di un profeta di ordine nuovo.
Egli, intatti intese a costruirsi una vita inimitabile, sempre sopra le righe, mai banale, proponendo così un nuovo superomismo, una sorta di suggestione letteraria che si fonda sul sensualismo e sulla fede nel culto della bellezza.
Il superuomo dì Nietzsche venne quindi mal interpretato e in D’Annunzio si limitò a nuove avventure erotiche e all’esaltazione della propria personalità eccezionale proponendo così un dannunzianesimo basato sul costume e sulla moda, esaltato da una borghesia ambiziosa e megalomane.
I romanzi del superuomo
Il romanzo Il trionfo della morte rappresenta una fase di transizione fra le due figure dei superuomo. L’eroe Giorgio Aurispa è un esteta simile ad Andrea Sperelli che, travagliato da una malattia interiore, va alla ricerca di un nuovo senso della vita. Un breve rientro nella sua famiglia acuisce la sua crisi, perché reimmergersi nei problemi della vita familiare e soprattutto rivivere il conflitto con il padre contribuisce a minare le sue energie vitali: per cui è indotto, a identificarsi nella figura dello zio, a lui simile nella sensibilità e morto suicida.
La ricerca porta l’eroe a tentare di riscoprire le radici della sua stirpe. La soluzione gli si affaccia nel messaggio dionisiaco di Nietzsche, in un’immersione nella vita in tutta la sua pienezza, ma l’eroe non è ancora in grado di realizzare tale progetto: prevalgono in lui, sull’ispirazione alla vita piena e gioiosa, le forze negative della morte; egli al termine del romanzo si uccide. Il romanzo successivo “Le vergini delle rocce” segna la svolta ideologica radicale, nel quale l’eroe è forte e sicuro. E’ stato definito il “manifesto del superomismo”. Esso contiene le nuove teorie dannunziane.
Le laudi
Nel campo della lirica D’Annunzio vuole affidare il compito di vate a sette libri di Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi. Nel 1903 pubblica i primi tre (Maia, Elettra e Alcione), un quarto Merope, nel 1911. Postumo è un quinto, Asterope. Gli ultimi due, anche se annunciato non furono scritti.
Maia non è una raccolta di liriche, ma un lungo poema di oltre 800 versi. In esso D’Annunzio adottò il verso libero; il carattere è profetico e vitalistico. Il poema è la trasfigurazione mitica di un viaggio in Grecia, realmente compiuto da D’Annunzio.
Il viaggio nell’Ellade è l’immersione in un passato mitico alla ricerca di un vivere sublime. Dopo di che il protagonista si reimmerge nella realtà moderna. Il mito classico vale a trasfigurare questo presente, riscattandolo dal suo squallore. Il passato modella su di sé il futuro da costruire. Per questo l’orrore della civiltà industriale si trasforma in una nuova forza e bellezza equivalente a quella dell’Ellade. Per questo il poema diventa un inno alla modernità capitalistica ed industriale, alle nuove masse operaie, docile strumento nelle mani del superuomo. Il poeta non si contrappone più alla realtà borghese moderna, ma la trasfigura in un’aurea di mito. Dietro questa celebrazione però si intravede la paura e l’onore del letterato umanista dinnanzi alla realtà industriale. Il poeta si fa comunque cantore di questa realtà, anche se si sente da essa minacciate, e diventa protagonista di miti oscurantisti e reazionari.
Il D’Annunzio autentico è proprio quello “decadente” nel senso più stretto del termine, quello che interpreta la fine di un mondo e dì una cultura, che si avventura ad esplorare le zone più oscure della psiche, che vagheggia con nostalgia una bellezza del passato avvertita come un mito irraggiungibile.
Il secondo libro Elettra è denso di propaganda politica diretta; esso ricalca la struttura ideologica di Maia, vi troviamo passato e futuro di gloria e bellezza in contrapposizione al presente. Parte del volume è costituito dai sonetti sulla ‘Città dei Silenzio’, antica città italiana, densa dì passato, su cui si dovrà modellare il futuro. Costante è la celebrazione della romanità in chiave eroica.
Il terzo libro Alcione in apparenza si distacca dagli altri due: al discorso politico-celebrativo si sostituisce il tema lirico della fusione con la natura. E’ il diario ideale dì una vacanza estiva, da primavera a settembre. La stagione estiva è vista come la più propizia a consentire la pienezza vitalistica. Sul piano formale c’è la ricerca di una sottile musicalità e l’impiego di un linguaggio analogico, che si fonda su un gioco continuo di immagini corrispondenti. Alcione è stata la raccolta poetica più apprezzata dalla critica ed è stata definita poesia pura.
Ma l’esperienza panica del poeta non è altro che una manifestazione del superuomo: solo la sua parola magica può cogliere ed esprimere l’armonia segreta della natura, raggiungere e rivelare l’essenza misteriosa delle cose.
Alcione avrà una notevole influenza sulla lirica italiana del ‘900.
Il quarto libro, Merope, raccoglie i canti celebrativi della conquista della Libia composti ad Arcachon, pubblicati dapprima sul Corriere della sera e poi in volume nel 1912.
Vengono considerati una continuazione di questa raccolti i quattro libri i Canti della guerra latina, composti e pubblicati tra il 1914 ed il 1918 (costituiranno, in seguito, il volume intitolato Asterope, la canzone del Quarnaro).