La tragedia di Atene del V sec. a.C. è un genere molto diverso rispetto a quello che ci aspetteremmo: non sempre ha un finale “tragico”. Somiglia piuttosto ad un musical, poiché vi sono parti recitate, cantate e danzate.
La tragedia si sviluppa ad Atene durante il quinto secolo a.C., periodo di massimo splendore e potenza della città.
Gli spettacoli teatrali si svolgevano una volta l’anno durante le feste religiose delle “Grandi dionisie” dedicate a Dioniso, dio protettore del teatro.
Veniva istituita una gara a cui partecipavano tre autori, ciascuno presentando una tetralogia composta da tre tragedie ed un dramma satiresco; a queste rappresentazioni partecipava tutta la città, che offriva addirittura un’indennità monetaria ai più poveri per permettere loro di assistere, tanta era considerata l’importanza dell’evento per tutto il corpo civico.
Una commissione di cittadini estratti a sorte decretava il vincitore.
La tragedia è di estrema importanza per la città: è un momento politico, sociale, artistico e religioso. Ma la sua funzione più importante è quella di educare tutta la comunità della polis; come infatti ci testimonia il poeta comico ateniese del V secolo Aristofane (Le rane):
Occorre che il poeta veli il male e non lo porti in scena e lo insegni. Ai bambini infatti è il maestro che parla, agli adulti invece sono i poeti.
Il poeta tragico dunque, nella concezione dei suoi contemporanei, è un maestro capace di dare buoni consigli alla città.
La struttura della tragedia è fissa; l’argomento è quasi sempre il mito perché attraverso le vicende di personaggi leggendari, eroi e dei è più facile creare un modello universale in cui chiunque possa immedesimarsi, da cui tutti, uomini e donne, giovani e vecchi, possano trarre valori sempre validi, insegnamenti per la propria vita, buoni consigli per la polis.
Il prologo è il momento in cui il pubblico viene informato sugli antefatti. Il coro, personaggio collettivo e non estraneo alla vicenda, non è ancora presente sulla scena (a meno che non sia lui, eccezionalmente a recitarlo). E’ l’unico momento in cui si possono confidare segreti o progettare piani.
La parodo è l’ingresso del coro nello spazio teatrale, in cui i coreuti danzano e cantano.
Si susseguono episodi, in cui gli attori recitano sulla scena, e stasimi, durante i quali il coro canta e danza.
L’esodo è la conclusione del dramma, alla fine del quale attori e coro escono dal teatro.
– Momento artistico. La tragedia unisce poesia, musica e danza: è una vera e propria forma di arte.
– Momento politico. Nelle tragedie vengono presentate tematiche riguardanti la natura e la politica della polis, come l’opposizione democrazia-impero (i Persiani di Eschilo) o il problema delle leggi (Antigone di Sofocle).
– Momento sociale. Vengono trattate le dinamiche dei rapporti umani, come quella dell’educazione nel Filottete di Sofocle, e i cambiamenti della società, come il ruolo dell’assemblea dei cittadini e della difesa dei più deboli nelle Supplici di Eschilo.
Momento religioso. Il poeta tragico si interroga sul rapporto uomo-dio, come Eschilo nell’Orestea, oppure Euripide in Ippolito e nelle Baccanti.
EUMENIDI
Il tema della giustizia viene ripreso da Eschilo nelle Eumenidi, la storia della ricerca di una giustizia unica e oggettiva per gli uomini, raggiungibile solo, secondo la grande scoperta di Eschilo, se gli dei sono in pace tra di loro. Infatti solo la concordia è segno di un’inequivocabile posizione davanti a tutte le cose, un unico giudizio a cui gli uomini aspirano ma che non riescono a raggiungere proprio perché neanche gli stessi dei l’hanno presente. Non ci può essere vera distinzione tra il bene e il male se non esiste amore tra gli dei, e finché essi saranno in conflitto tra di loro l’uomo resterà per sempre nell’incertezza.
Nelle Eumenidi vi è uno scontro avvincente tra due giustizie diverse: da una parte la vendetta personale come giusta riparazione a un torto subito, posizione sostenuta dal dio Apollo; dall’altra invece il peccato di omicidio di un parente, punito dalle tremende Erinni.
In mezzo a queste due giustizie vi è Oreste, figlio di Agamennone, che deve decidere quale seguire, poiché incalzato da una parte dall’ordine di Apollo di uccidere sua madre per punirla di aver assassinato suo padre, dall’altra dall’ira delle Erinni che lo perseguiterebbero per questo atto, pur essendo di totale obbedienza ad un dio.
Dopo aver deciso di eseguire l’ordine di Apollo, il ragazzo viene processato prima da un tribunale di uomini, che si ritrovano però incapaci di giudizio, poiché combattuti nel decidere tra due giustizie diverse, poi da uno divino, che si conclude grazie all’intervento di Atena. Lei sola riesce a ristabilire la pace tra gli dei, ed aiuta, colma le carenze del giudizio umano; le Erinni diventano così benevole e accettano la pace trasformandosi in Eumenidi.
ANTIGONE
Ecco che così Neottolemo si comporta onestamente e ottiene la collaborazione, seppure indotta da Eracle, di Filottete, per vincere la guerra. Del resto gli uomini hanno bisogno dell’intervento e dell’aiuto degli dei, che si ottiene onorandoli sempre e rispettandone la legge.
IPPOLITO
Il giovane Ippolito, figlio illegittimo dell’eroe Teseo, decide di dedicare tutto se stesso alla dea Artemide, con la quale è convinto di avere un rapporto privilegiato.
IPPOLITO Seguitemi, seguitemi, compagni, lodando Artemide celeste cui siamo cari […] A me solo tra i mortali, in verità, è concesso questo privilegio:e con te vivo insieme e ti ricambio di parole ascoltando la tua voce, pur se non vedo il tuo volto.
Il ragazzo è convinto di stare a cuore alla dea e di avere, unico tra i mortali, un rapporto personale e affettuoso con lei. Per dimostrarle la sua devozione fa voto di castità, offendendo però la dea dell’amore, Afrodite, che decide di vendicarsi di lui: la sua vendetta si compie nel far innamorare la moglie di Teseo, Fedra, di Ippolito.
Come spesso accade nella tragedia, sono i personaggi umili a elaborare un giudizio veritiero sulla vicenda e a cogliere il cuore dei problemi: così in Ippolito sono la vecchia nutrice di Fedra e il coro svelare il vero dramma:
NUTRICE E siamo presi da amori sbagliati per tutto ciò che splende sulla terra perché non conosciamo un’altra vita e non ci è rivelato l’al di là: e i miti ci portano fuori strada.
CORO Certo, la sollecitudine degli dei, quando venga nel cuore, molto allevia le pene; ma io […] ne sono abbandonato, se guardo alle sorti e alle azioni degli uomini. Poiché tutte da tutte le parti si alterano e mutevole è la vita per gli uomini, errante sempre.
I miti sono insufficienti per rispondere alla domanda del cuore dell’uomo, che tuttavia non ha altra possibilità di avvicinarsi alla risposta se non quella di credere in loro: l’uomo greco infatti non conosce Qualcuno che possa rivelargliela.
Ippolito respinge l’amore di Fedra e la donna si suicida, lasciando al marito una lettera in cui accusa Ippolito come responsabile della propria morte. Teseo maledice il figlio, che viene ferito gravemente da un mostro. Solo a questo punto Artemide interviene, ma non per salvare colui che le aveva dedicato tutta la sua vita, bensì per chiedergli di perdonare il padre che solo per volere degli dei ha commesso il delitto. Euripide ci consegna così l’unico esempio di perdono in tutta la cultura pagana.
ARTEMIDE (a Teseo): E tu, figlio del vecchio Egeo, prendi fra le braccia tuo figlio e stringilo a te. Lo uccidesti senza volere: gli uomini è naturale che errino, se gli dei lo danno. (A Ippolito) A te poi chiedo di non odiare tuo padre.
Artemide non rimane vicino a Ippolito, neanche nel momento della sua morte. Davanti al disegno di un dio gli uomini non hanno altra libertà che accettare, solo cercando di comprendere: e così fa Ippolito, che fino all’ultimo rimane fedele ad Artemide nonostante la dea non si sia mostrata affatto toccata dalla devozione del suo consacrato.
ARTEMIDE Addio! A me non è lecito contaminare la mia vista con aneliti di moribondi. E vedo che tu, ormai, sei vicino a questo male.
IPPOLITO Poiché tu lo desideri, io depongo la contesa con mio padre: anche prima infatti obbedivo alle tue parole.
Ippolito respinge l’amore di Fedra e la donna si suicida, lasciando al marito una lettera in cui accusa Ippolito come responsabile della propria morte. Teseo maledice il figlio, che viene ferito gravemente da un mostro. Solo a questo punto Artemide interviene, ma non per salvare colui che le aveva dedicato tutta la sua vita, bensì per chiedergli di perdonare il padre che solo per volere degli dei ha commesso il delitto. Euripide ci consegna così l’unico esempio di perdono in tutta la cultura pagana.
ARTEMIDE (a Teseo): E tu, figlio del vecchio Egeo, prendi fra le braccia tuo figlio e stringilo a te. Lo uccidesti senza volere: gli uomini è naturale che errino, se gli dei lo danno. (A Ippolito) A te poi chiedo di non odiare tuo padre.
Artemide non rimane vicino a Ippolito, neanche nel momento della sua morte. Davanti al disegno di un dio gli uomini non hanno altra libertà che accettare, solo cercando di comprendere: e così fa Ippolito, che fino all’ultimo rimane fedele ad Artemide nonostante la dea non si sia mostrata affatto toccata dalla devozione del suo consacrato.
ARTEMIDE Addio! A me non è lecito contaminare la mia vista con aneliti di moribondi. E vedo che tu, ormai, sei vicino a questo male.
IPPOLITO Poiché tu lo desideri, io depongo la contesa con mio padre: anche prima infatti obbedivo alle tue parole.
Euripide dunque, attraverso le parole di Tiresia, invita il suo pubblico a non ragionare sugli dei, bensì ad adorarli.
Dioniso per vendicarsi scaglia una maledizione su tutte le donne di Tebe, portandole alla follia. Agave, figlia di Cadmo e madre di Penteo, al culmine della sua pazzia, uccide suo figlio, credendolo un leone, e ne fa a pezzi il cadavere, offrendo l’atto a Dioniso. Quando la maledizione svanisce, Agave si rende conto della sua azione, della punizione subita per il suo iniziale rifiuto del nuovo dio, ma non comprende il perché della punizione anche per il figlio:
AGAVE Che parte aveva Penteo della mia follia?
CADMO E’ stato anch’egli come voi, dispregiando il dio […] Se v’è mai qualcuno che disprezzi gli dei, volga lo sguardo sulla tua morte, Penteo, e creda agli dei.
Così, come prima Tiresia, anche Cadmo ora invita a onorare gli dei. E’ sempre il poeta che con la sua opera sprona tutta quanta la città a ragionare sull’importanza e sulle conseguenze delle proprie azioni, ma anche ad accrescere la devozione e il rispetto dovuti ai Celesti.
Sebbene sia ormai venuta meno l’idea che lo stato (la polis) possa insegnare qualcosa di universale e di sempre valido ai suoi cittadini, la tragedia greca rimane un punto alto nella ricerca umana, capace di parlare ancora oggi a noi proprio per il fatto che riguarda l’uomo, le sue domande ultime e i suoi interrogativi sul divino.
Nonostante Eschilo, Sofocle ed Euripide arrivino a diverse risposte, tutte esprimono molteplici aspetti della natura umana, dipingendone un ritratto nella sua complessità.
Quello che infatti ha sempre affascinato spettatori o lettori di tutti i secoli è proprio la capacita dei tragici di saper andare a fondo delle questioni che più stanno a cuore all’uomo e di permettere a ognuno di immedesimarsi nei protagonisti delle vicende.
L’eroe tragico è uno, ma il suo dolore e la sua gioia sono quelli di tutta l’umanità, la sua sofferenza e la sua crescita morale sono quelle che tutti possono sperimentare, il suo destino e il suo cuore insomma sono quelli di ogni uomo.
PERCHE LA TRAGEDIA EDUCA IL POPOLO?