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28 Dicembre 2019Analisi e testo della poesia ‘Taci, anima mia. Son questi i tristi giorni” da Pianissimo di Camillo Sbarbaro
La poesia “Taci, anima mia. Son questi i tristi giorni” è un componimento chiave di Camillo Sbarbaro (1888-1967), pubblicato nella sua raccolta più celebre, Pianissimo (1914). Sbarbaro è una delle voci più originali e intense del Crepuscolarismo e della poesia italiana del primo Novecento, noto per la sua lucida introspezione, il senso di estraneità e la sua prosa poetica essenziale e scabra. In questi versi, Sbarbaro esprime un profondo senso di disillusione, passività e assenza di vitalità, che lo rendono un interprete acuto della crisi esistenziale del suo tempo.
Analisi della Poesia
La lirica si apre con un’apostrofe all’anima, un invito al silenzio che introduce immediatamente il tema della passività e della rassegnazione, tipici della poetica sbarbariana.
- I Giorni dell’Attesa Disperata e la Mancanza di Volontà: I primi versi definiscono un tempo esistenziale caratterizzato dalla mancanza di volontà e da un’attesa senza speranza: “Son questi i tristi giorni / in cui senza volontà si vive, / i giorni dell’attesa disperata.” Questa condizione di inerzia e di rassegnazione è centrale nella poetica di Sbarbaro, che rifiuta ogni slancio vitale o eroico, abbracciando una dimensione di stasi e inazione.
- La Metafora dell’Albero Ignudo: Il poeta si paragona a un “albero ignudo a mezzo inverno / che s’attriste nella deserta corte”. Questa immagine evoca un senso di sterilità, di aridità e di assenza di vita, una metafora della propria condizione esistenziale. Il dubbio amaro (“io non credo di mettere più foglie / e dubito d’averle messe mai”) suggerisce una profonda crisi identitaria e la sensazione di non aver mai veramente vissuto o prodotto qualcosa di significativo, un’incapacità di fiorire.
- Alienazione e Assenza di Sé: Il camminare “per la strada così solo / tra la gente che m’urta e non mi vede” esprime un’alienazione profonda e una solitudine radicale. Il poeta si sente invisibile, un’ombra tra la folla, e sperimenta un senso di distacco da sé stesso: “mi pare d’esser da me stesso assente.” Questa assenza di sé, questa sensazione di essere un mero spettatore della propria esistenza, è una delle caratteristiche più intime e dolorose della poetica di Sbarbaro.
- Gli Occhi come Unica Connessione con la Vita: Nonostante l’apatia e la passività, la vita del poeta sembra concentrarsi unicamente negli occhi, l’unico organo ancora capace di reagire agli stimoli esterni: “Chè tutta la mia vita è nei miei occhi”. Egli si accalca “ad udire dov’è ressa”, si sofferma “dalle vetrine abbarbagliato”, si volta “al frusciare d’ogni gonna”. Questi gesti, pur passivi e quasi meccanici, rivelano una pur minima reattività sensoriale. La voce di un “cantastorie cieco” o il “lampo d’una nuca” possono ancora scatenare “sciocche lacrime” o “cupidigie”, ma sono reazioni effimere, superficiali, che non intaccano la profonda inerzia interiore.
- Le Metamorfosi in Specchio e Acqua Morta: La passività del poeta è ulteriormente sottolineata da due potenti metafore: “Io son come uno specchio rassegnato / che riflette ogni cosa per la via.” Lo specchio è un oggetto che non ha vita propria, ma si limita a riprodurre ciò che gli sta di fronte, senza partecipazione. Allo stesso modo, la sua anima è come “debola vento un’acqua morta”, che si commuove solo superficialmente, senza una vera reazione interiore, incapace di generare movimento autonomo. La mancanza di auto-riflessione (“In me stesso non guardo perché nulla / vi troverei…”) è la conseguenza di questa assenza di un “io” profondo e vitale.
- La Sera e la Bara: L’Immagine della Morte Quotidiana: La poesia si conclude con un’immagine di desolazione e di morte simbolica che si ripete ogni sera: “E, venuta la sera, nel mio letto / mi stendo lungo come in una bara.” Il letto si trasforma in un sudario, e il sonno in una piccola morte quotidiana, un’anticipazione della fine ultima. Questa chiusura è di una malinconia profonda e definitiva, che sigilla il senso di un’esistenza priva di slanci, di speranza e di un autentico contatto con la vita.
Stile e Linguaggio
Sbarbaro adotta uno stile essenziale, scarno, quasi prosastico, lontano dalla retorica magniloquente di D’Annunzio. Il linguaggio è semplice, diretto, privo di orpelli, ma carico di suggestioni emotive. La musicalità è data da un ritmo lento e da rime spesso povere o assonanze, che contribuiscono a creare un’atmosfera dimessa e malinconica. L’uso di enjambement e di frasi spezzate riflette l’andamento incerto e frammentato del pensiero, tipico del flusso di coscienza. La sintassi è piana, quasi colloquiale, ma la scelta lessicale è precisa e incisiva nel descrivere il disagio esistenziale.
Conclusione
“Taci, anima mia. Son questi i tristi giorni” è uno dei vertici della poesia di Camillo Sbarbaro e un manifesto della poetica crepuscolare. Sbarbaro esprime con sincerità e lucidità il disagio esistenziale di un’epoca, la disillusione verso gli ideali romantici e la consapevolezza di una vita che si consuma nella passività, nell’attesa e in un’alienazione profonda. La poesia è un inno alla malinconia, alla fragilità dell’animo umano e alla bellezza (seppur fugace) delle piccole cose che ancora riescono a toccare la superficie di un animo svuotato. La figura del poeta, fragile e rassegnato, diventa un simbolo di una condizione umana universale, quella della solitudine e della ricerca di senso in un mondo che sembra averlo perduto.
Testo della poesia “Taci, anima mia” di Camillo Sbarbaro
Taci, anima mia. Son questi i tristi giorni
in cui senza volontà si vive,
i giorni dell’attesa disperata.
Come l’albero ignudo a mezzo inverno
che s’attriste nella deserta corte 5
io non credo di mettere più foglie
e dubito d’averle messe mai.
Andando per la strada così solo
tra la gente che m’urta e non mi vede
mi pare d’esser da me stesso assente. 10
E m’accalco ad udire dov’è ressa
sosto dalle vetrine abbarbagliato
e mi volto al frusciare d’ogni gonna.
Per la voce d’un cantastorie cieco
per l’improvviso lampo d’una nuca 15
mi sgocciolano dagli occhi sciocche lacrime
mi s’accendon negli occhi cupidigie.
Chè tutta la mia vita è nei miei occhi:
ogni cosa che passa la commuove
come debola vento un’acqua morta. 20
Io son come uno specchio rassegnato
che riflette ogni cosa per la via.
In me stesso non guardo perché nulla
vi troverei…
E, venuta la sera, nel mio letto
mi stendo lungo come in una bara. 26