
Introduzione al capitolo diciannovesimo dei Promessi Sposi
28 Dicembre 2019
La lotta per le investiture
28 Dicembre 2019Riassunto, commento e testo dei Capitoli XVIII e XIX de “I Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni
Riassunto dei Capitoli XVIII e XIX de “I Promessi Sposi”
Questi due capitoli sono cruciali per la prosecuzione della trama, poiché spostano l’azione da Lecco e Monza a Milano e introducono figure di potere che influenzeranno pesantemente le sorti dei protagonisti.
Capitolo XVIII: La Fuga di Renzo e le Nuove Notizie
Il capitolo si apre con l’arrivo a Lecco di un ordine di cattura per Lorenzo Tramaglino (Renzo), accusato di essere un sovversivo dopo i tumulti di Milano. Il dispaccio, scritto in un latino burocratico e pedante, ordina al podestà di Lecco di perquisire la casa di Renzo, raccogliere informazioni sulla sua “prava qualità” e arrestarlo. La casa di Renzo viene sfondata e perquisita.
La notizia si diffonde rapidamente nel paese, giungendo anche a Fra Cristoforo, che si allarma e cerca di capire la situazione, scrivendo al padre Bonaventura a Milano. I conoscenti di Renzo vengono interrogati, e avere il cognome Tramaglino diventa motivo di sospetto. Sebbene molti nel paese stentino a credere alle accuse contro Renzo, conoscendolo come un “bravo giovine”, la maggior parte intuisce che si tratta di una macchinazione di Don Rodrigo per rovinare il suo rivale.
Nel frattempo, Don Rodrigo è lieto della disavventura di Renzo, considerandola un colpo di fortuna. Il cugino Conte Attilio, che era rimasto in campagna per la paura dei tumulti milanesi, parte per Milano solo quando la situazione si calma, animando Don Rodrigo a non mollare la sua impresa su Lucia e promettendo di occuparsi di Fra Cristoforo.
Arriva poi il Griso da Monza, riferendo che Lucia si trova al sicuro nel monastero, protetta dalla “signora” (la Monaca di Monza) e che vive in un isolamento quasi monacale, senza mai uscire e assistendo alle funzioni da una finestrina. Questa notizia frustra enormemente Don Rodrigo. Il fatto che Renzo sia “assente, sfrattato, bandito” e che Fra Cristoforo stia per essere allontanato sono vantaggi, ma l’impenetrabilità del monastero è un ostacolo insormontabile per lui, che non riesce a immaginare come espugnarlo.
Don Rodrigo è tentato di abbandonare l’impresa, ma il timore del giudizio del cugino Attilio e della perdita della sua reputazione di prepotente nel paese lo tormenta. La strada dell’iniquità, riflette Manzoni, è “larga, ma questo non vuol dire che sia comoda”. Gli viene in mente di chiedere aiuto a un uomo potente e pericoloso, le cui mani “arrivavano spesso dove non arrivava la vista degli altri”, ma esita per i rischi che comporta associarsi a un personaggio del genere.
Intanto, una lettera di Attilio conferma l’avanzamento della loro “trama”. La notizia della partenza di Fra Cristoforo dal convento di Pescarenico, insieme alla rassicurazione sulla fuga di Renzo nel Bergamasco, spingono Don Rodrigo a prendere la decisione rischiosa. L’ultima spinta viene dalla notizia che Agnese è tornata a casa sua.
Si racconta poi come Agnese e Lucia vennero a sapere delle accuse contro Renzo. La fattoressa del monastero porta notizie frammentarie e allarmanti dai tumulti di Milano, fino a rivelare che il fuggitivo è proprio “un filatore di seta, che si chiama Tramaglino”. Lucia ne è sconvolta, mentre Agnese riesce a mantenere il controllo. Un pesciaiolo di Pescarenico, inviato da Fra Cristoforo, porta notizie più precise: Renzo è salvo nel Bergamasco, il che è un grande sollievo per Lucia.
Il capitolo si conclude con il ritorno di Agnese a Pescarenico. Decisa a tornare a casa per avere più notizie, chiede un passaggio al pesciaiolo. Una volta arrivata, prima di andare a casa, si reca al convento per parlare con Fra Cristoforo, ma scopre da Fra Galdino (quello delle noci) che il frate è stato trasferito a Rimini per ordine del padre provinciale. Agnese, disperata e confusa, si sente completamente sola e abbandonata.
Capitolo XIX: La Manovra del Conte Zio e l’Innominato
Il capitolo approfondisce le cause del trasferimento di Fra Cristoforo e introduce la figura temibile dell’Innominato.
Manzoni spiega che la decisione del conte zio di agire contro Fra Cristoforo nasce dalla sua preoccupazione per l’onore della famiglia e il desiderio di evitare scandali. Don Rodrigo aveva incaricato il cugino Conte Attilio di occuparsi del frate. Attilio, giunto a Milano, si reca dal conte zio (membro del Consiglio segreto del governatore) e, con una sottile strategia, lo informa del “problema” creato da Fra Cristoforo.
Attilio dipinge Fra Cristoforo come un uomo “inquieto”, un ex plebeo che “voleva competere coi cavalieri” e che si è fatto frate per sfuggire alla giustizia dopo un omicidio. Lo accusa di proteggere indebitamente una “contadinotta” (Lucia) e di aver provocato Don Rodrigo, vantandosi di sfidare l’autorità dei “grandi”. Il conte zio, pur mostrandosi inizialmente irritato e fingendo di essere al di sopra di tali “bazzecole”, è profondamente colpito, soprattutto dall’idea che un frate osi sfidare il suo potere e quello della sua casata.
Il conte zio, con la sua abilità diplomatica e la sua influenza (accresciuta da un recente viaggio a Madrid che lo ha posto in contatto con alte cariche), decide di invitare a pranzo il padre provinciale dei Cappuccini. La scena del pranzo è un esempio di “gran studio, una grand’arte” nell’uso delle apparenze e delle gerarchie sociali. Il conte circonda il provinciale con parenti titolati e clienti servili, parlando con enfasi delle sue esperienze a corte per mostrare il suo prestigio.
Successivamente, in un colloquio privato, il conte zio espone al provinciale il suo desiderio di far trasferire Fra Cristoforo. Con un misto di minaccia velata e falsa benevolenza, suggerisce che il frate è un elemento di disturbo che potrebbe creare “un monte di disordini, un’iliade di guai” e scatenare un “vespaio” che coinvolgerebbe famiglie nobili e persino “affari di stato”. Lascia intendere che il trasferimento sarebbe un “provvedimento prudenziale”, non una punizione, e che sarebbe meglio agire “presto, presto”. Il padre provinciale, pur consapevole delle manipolazioni, non può che cedere alle pressioni di un uomo così potente. Viene così decisa la destinazione di Fra Cristoforo a Rimini. L’ordine è dato pervenire al guardiano di Pescarenico affinché il frate parta subito e non mantenga contatti con il paese. Fra Cristoforo, con animo rassegnato e obbediente, accetta il suo destino.
La seconda parte del capitolo introduce la figura del misterioso Innominato. Manzoni si dilunga nel descriverlo, senza mai nominarlo direttamente (per via della “circospezione” degli autori dell’epoca), ma attingendo a fonti storiche. L’Innominato è un signore potentissimo, di ricchezze e nobiltà, ma soprattutto di una ferocia e audacia eccezionali. La sua roccaforte è un castello in una posizione strategica tra il milanese e il bergamasco. È un capo criminale che agisce al di sopra della legge, capace di imporsi su tutti i tiranni locali. La sua casa è una “officina di mandati sanguinosi”, e i suoi servitori sono assassini. Sebbene sia un ministro di “voleri iniqui”, a volte ha agito per una sorta di “giustizia” personale, intervenendo a favore dei deboli contro i prepotenti, il che ha contribuito alla sua fama leggendaria e al terrore che incuteva.
Don Rodrigo, spinto dalla necessità di ottenere Lucia e non potendo agire diversamente, decide di chiedere aiuto a questo temibile personaggio, sebbene ciò comporti rischi e lo esponga. Il capitolo si chiude con Don Rodrigo che, in treno di caccia, si dirige verso il castellaccio dell’Innominato.
Temi e Significato
- L’Ingiustizia e il Potere Corrotto: Entrambi i capitoli evidenziano l’inefficacia della giustizia ufficiale (il dispaccio in latino è quasi una parodia) e la prevaricazione dei potenti. La condanna di Renzo e il trasferimento di Fra Cristoforo non sono frutto di giustizia, ma di macchinazioni e interessi personali. Il Conte Zio e Don Rodrigo manipolano il sistema a loro piacimento, dimostrando come la legalità sia spesso piegata al servizio dei potenti.
- La Figura di Don Rodrigo: Si conferma la sua natura di “prepotente” e “birbante”. La sua ossessione per Lucia, mista a puntiglio e vanagloria, lo spinge a cercare mezzi sempre più estremi. La sua frustrazione per l’impedimento del monastero e il suo dibattito interiore tra l’abbandonare l’impresa e il ricorrere all’Innominato rivelano la sua debolezza morale e la sua sottomissione al “puntiglio” e alla reputazione.
- La Pazienza e l’Obbedienza (di Fra Cristoforo): La figura di Fra Cristoforo spicca per la sua rassegnazione e obbedienza alla volontà divina, anche di fronte a un’ingiustizia evidente. La sua accettazione del trasferimento, pur nel dolore per i “meschini” che lascia, sottolinea la sua fede incrollabile nella Provvidenza.
- L’Introduzione dell’Innominato come Vertice del Male: Il personaggio dell’Innominato rappresenta il male in un’ottica quasi metafisica, un potere assoluto e privo di scrupoli che opera al di fuori di ogni legge. La sua descrizione è imponente e carica di mistero. La sua entrata in scena è un punto di svolta, poiché egli diventerà l’elemento catalizzatore per la successiva liberazione di Lucia e, soprattutto, per una delle più grandi conversioni della letteratura. Manzoni, attraverso la descrizione della sua fama e della sua “giustizia” arbitraria, prepara il lettore alla complessità e alla profondità del personaggio, che non è solo un mero antagonista.
- Ironia Manzoniana: La prosa di Manzoni è ricca di ironia, soprattutto nella descrizione del Conte Zio e della sua pomposità. La digressione sull’erba nel campo all’inizio del Capitolo XIX serve a sottolineare l’incertezza delle motivazioni umane, ma anche la “predisposizione” del conte zio ad adottare il suggerimento di Attilio.
- La Fede nella Provvidenza: Sebbene gli eventi sembrino volgere al peggio per i protagonisti, Manzoni sottilmente suggerisce come anche le azioni malvagie (il trasferimento di Fra Cristoforo, l’intervento dell’Innominato) possano, per vie misteriose, concorrere al disegno della Provvidenza.
Questi due capitoli, quindi, non solo fanno avanzare la trama, ma approfondiscono il quadro storico-sociale del Seicento lombardo e introducono personaggi e temi che saranno fondamentali per il messaggio morale e religioso del romanzo.
Testo del CAPITOLO XVIII
CAPITOLO XVIII.
Alessandro Manzoni – I promessi sposi (1840)

CAPITOLO XVIII.
Quello stesso giorno, 13 di novembre, arriva un espresso al signor podestà di Lecco, e gli presenta un dispaccio del signor capitano di giustizia, contenente un ordine di fare ogni possibile e più opportuna inquisizione, per iscoprire se un certo giovine nominato Lorenzo Tramaglino, filatore di seta, scappato dalle forze praedicti egregii domini capitanei, sia tornato, palam vel clam, al suo paese, ignotum quale per l’appunto, verum in territorio Leuci: quod si compertum fuerit sic esse, cerchi il detto signor podestà, quanta maxima diligentia fieri poterit, d’averlo nelle mani; e, legato a dovere, videlizet con buone manette, attesa l’esperimentata insufficienza de’ manichini per il nominato soggetto, lo faccia condurre nelle carceri, e lo ritenga lì, sotto buona custodia, per farne consegna a chi sarà spedito a prenderlo; e tanto nel caso del sì, come nel caso del no, accedatis ad domum praedicti Laurentii Tramaliini; et, facta debita diligentia, quidquid ad rem repertum fuerit auferatis; et informationes de illius prava qualitate, vita, et complicibus sumatis; e di tutto il detto e il fatto, il trovato e il non trovato, il preso e il lasciato, diligenter referatis. Il signor podestà, dopo essersi umanamente cerziorato che il soggetto non era tornato in paese, fa chiamare il console del villaggio, e si fa condur da lui alla casa indicata, con gran treno di notaio e di birri. La casa è chiusa; chi ha le chiavi non c’è, o non si lascia trovare. Si sfonda l’uscio; si fa la debita diligenza, vale a dire che si fa come in una città presa d’assalto. La voce di quella spedizione si sparge immediatamente per tutto il contorno; viene agli orecchi del padre Cristoforo; il quale, attonito non meno che afflitto, domanda al terzo e al quarto, per aver qualche lume intorno alla cagione d’un fatto così inaspettato; ma non raccoglie altro che congetture in aria, e scrive subito al padre Bonaventura, dal quale spera di poter ricevere qualche notizia più precisa. Intanto i parenti e gli amici di Renzo vengono citati a deporre ciò che posson sapere della sua prava qualità: aver nome Tramaglino è una disgrazia, una vergogna, un delitto: il paese è sottosopra.

A poco a poco, si viene a sapere che Renzo è scappato dalla giustizia, nel bel mezzo di Milano, e poi scomparso; corre voce che abbia fatto qualcosa di grosso; ma la cosa poi non si sa dire, o si racconta in cento maniere. Quanto più è grossa, tanto meno vien creduta nel paese, dove Renzo è conosciuto per un bravo giovine: i più presumono, e vanno susurrandosi agli orecchi l’uno con l’altro, che è una macchina mossa da quel prepotente di don Rodrigo, per rovinare il suo povero rivale. Tant’è vero che, a giudicar per induzione, e senza la necessaria cognizione de’ fatti, si fa alle volte gran torto anche ai birbanti.
Ma noi, co’ fatti alla mano, come si suol dire, possiamo affermare che, se colui non aveva avuto parte nella sciagura di Renzo, se ne compiacque però, come se fosse opera sua, e ne trionfò co’ suoi fidati, e principalmente col conte Attilio. Questo, secondo i suoi primi disegni, avrebbe dovuto a quell’ora trovarsi già in Milano; ma, alle prime notizie del tumulto, e della canaglia che girava per le strade, in tutt’altra attitudine che di ricever bastonate, aveva creduto bene di trattenersi in campagna, fino a cose quiete. Tanto più che, avendo offeso molti, aveva qualche ragion di temere che alcuno de’ tanti, che solo per impotenza stavano cheti, non prendesse animo dalle circostanze, e giudicasse il momento buono da far le vendette di tutti. Questa sospensione non fu di lunga durata: l’ordine venuto da Milano dell’esecuzione da farsi contro Renzo era già un indizio che le cose avevan ripreso il corso ordinario; e, quasi nello stesso tempo, se n’ebbe la certezza positiva. Il conte Attilio partì immediatamente, animando il cugino a persister nell’impresa, a spuntar l’impegno, e promettendogli che, dal canto suo, metterebbe subito mano a sbrigarlo dal frate; al qual affare, il fortunato accidente dell’abietto rivale doveva fare un gioco mirabile. Appena partito Attilio, arrivò il Griso da Monza sano e salvo, e riferì al suo padrone ciò che aveva potuto raccogliere: che Lucia era ricoverata nel tal monastero, sotto la protezione della tal signora; e stava sempre nascosta, come se fosse una monaca anche lei, non mettendo mai piede fuor della porta, e assistendo alle funzioni di chiesa da una finestrina con la grata: cosa che dispiaceva a molti, i quali avendo sentito motivar non so che di sue avventure, e dir gran cose del suo viso, avrebbero voluto un poco vedere come fosse fatto.
Questa relazione mise il diavolo addosso a don Rodrigo, o, per dir meglio, rendè più cattivo quello che già ci stava di casa. Tante circostanze favorevoli al suo disegno infiammavano sempre più la sua passione, cioè quel misto di puntiglio, di rabbia e d’infame capriccio, di cui la sua passione era composta. Renzo assente, sfrattato, bandito, di maniera che ogni cosa diventava lecita contro di lui, e anche la sua sposa poteva esser considerata, in certo modo, come roba di rubello: il solo uomo al mondo che volesse e potesse prender le sue parti, e fare un rumore da esser sentito anche lontano e da persone alte, l’arrabbiato frate, tra poco sarebbe probabilmente anche lui fuor del caso di nuocere. Ed ecco che un nuovo impedimento, non che contrappesare tutti que’ vantaggi, li rendeva, si può dire, inutili. Un monastero di Monza, quand’anche non ci fosse stata una principessa, era un osso troppo duro per i denti di don Rodrigo; e per quanto egli ronzasse con la fantasia intorno a quel ricovero, non sapeva immaginar nè via nè verso d’espugnarlo, nè con la forza, nè per insidie. Fu quasi quasi per abbandonar l’impresa; fu per risolversi d’andare a Milano, allungando anche la strada, per non passar neppure da Monza; e a Milano, gettarsi in mezzo agli amici e ai divertimenti, per discacciar, con pensieri affatto allegri, quel pensiero divenuto ormai tutto tormentoso. Ma, ma, ma, gli amici; piano un poco con questi amici. In vece d’una distrazione, poteva aspettarsi di trovar nella loro compagnia, nuovi dispiaceri: perchè Attilio certamente avrebbe già preso la tromba, e messo tutti in aspettativa. Da ogni parte gli verrebbero domandate notizie della montanara: bisognava render ragione. S’era voluto, s’era tentato; cosa s’era ottenuto? S’era preso un impegno: un impegno un po’ ignobile, a dire il vero: ma, via, uno non può alle volte regolare i suoi capricci; il punto è di soddisfarli; e come s’usciva da quest’impegno? Dandola vinta a un villano e a un frate! Uh! E quando una buona sorte inaspettata, senza fatica del buon a nulla, aveva tolto di mezzo l’uno, e un abile amico l’altro, il buon a nulla non aveva saputo valersi della congiuntura, e si ritirava vilmente dall’impresa. Ce n’era più del bisogno, per non alzar mai più il viso tra i galantuomini, o avere ogni momento la spada alle mani. E poi, come tornare, o come rimanere in quella villa, in quel paese, dove, lasciando da parte i ricordi incessanti e pungenti della passione, si porterebbe lo sfregio d’un colpo fallito? dove, nello stesso tempo, sarebbe cresciuto l’odio pubblico, e scemata la riputazion del potere? dove sul viso d’ogni mascalzone, anche in mezzo agl’inchini, si potrebbe leggere un amaro: l’hai ingoiata, ci ho gusto? La strada dell’iniquità, dice qui il manoscritto, è larga; ma questo non vuol dire che sia comoda: ha i suoi buoni intoppi, i suoi passi scabrosi; è noiosa la sua parte, e faticosa, benchè vada all’ingiù.
A don Rodrigo, il quale non voleva uscirne, nè dare addietro, nè fermarsi, e non poteva andare avanti da sè, veniva bensì in mente un mezzo con cui potrebbe: ed era di chieder l’aiuto d’un tale, le cui mani arrivavano spesso dove non arrivava la vista degli altri: un uomo o un diavolo, per cui la difficoltà dell’imprese era spesso uno stimolo a prenderle sopra di sè. Ma questo partito aveva anche i suoi inconvenienti e i suoi rischi, tanto più gravi quanto meno si potevano calcolar prima; giacchè nessuno avrebbe saputo prevedere fin dove anderebbe, una volta che si fosse imbarcato con quell’uomo, potente ausiliario certamente, ma non meno assoluto e pericoloso condottiere.
Tali pensieri tennero per più giorni don Rodrigo tra un sì e un no, l’uno e l’altro più che noiosi. Venne intanto una lettera del cugino, la quale diceva che la trama era ben avviata. Poco dopo il baleno, scoppiò il tuono; vale a dire che, una bella mattina, si sentì che il padre Cristoforo era partito dal convento di Pescarenico. Questo buon successo così pronto, la lettera d’Attilio che faceva un gran coraggio, e minacciava di gran canzonature, fecero inclinar sempre più don Rodrigo al partito rischioso: ciò che gli diede l’ultima spinta, fu la notizia inaspettata che Agnese era tornata a casa sua: un impedimento di meno vicino a Lucia. Rendiam conto di questi due avvenimenti, cominciando dall’ultimo.
Le due povere donne s’erano appena accomodate nel loro ricovero, che si sparse per Monza, e per conseguenza anche nel monastero, la nuova di quel gran fracasso di Milano; e dietro alla nuova grande, una serie infinita di particolari, che andavano crescendo e variandosi ogni momento. La fattoressa, che, dalla sua casa, poteva tenere un orecchio alla strada, e uno al monastero, raccoglieva notizie di qui, notizie di lì, e ne faceva parte all’ospiti. “ Due, sei, otto, quattro, sette ne hanno messi in prigione; gl’impiccheranno, parte davanti al forno delle grucce, parte in cima alla strada dove c’è la casa del vicario di provvisione…. Ehi, ehi, sentite questa! n’è scappato uno, che è di Lecco, o di quelle parti. Il nome non lo so; ma verrà qualcheduno che me lo saprà dire; per veder se lo conoscete. ”
Quest’annunzio, con la circostanza d’esser Renzo appunto arrivato in Milano nel giorno fatale, diede qualche inquietudine alle donne, e principalmente a Lucia; ma pensate cosa fu quando la fattoressa venne a dir loro: “ è proprio del vostro paese quello che se l’è battuta, per non essere impiccato; un filatore di seta, che si chiama Tramaglino: lo conoscete? ”
A Lucia, ch’era a sedere, orlando non so che cosa, cadde il lavoro di mano; impallidì, si cambiò tutta, di maniera che la fattoressa se ne sarebbe avvista certamente, se le fosse stata più vicina. Ma era ritta sulla soglia con Agnese; la quale, conturbata anche lei, però non tanto, potè star forte; e, per risponder qualcosa, disse che, in un piccolo paese, tutti si conoscono, e che lo conosceva; ma che non sapeva pensare come mai gli fosse potuta seguire una cosa simile; perchè era un giovine posato. Domandò poi se era scappato di certo, e dove.

“ Scappato, lo dicon tutti; dove, non si sa; può essere che l’acchiappino ancora, può essere che sia in salvo; ma se gli torna sotto l’unghie, il vostro giovine posato…. ”
Qui, per buona sorte, la fattoressa fu chiamata, e se n’andò: figuratevi come rimanessero la madre e la figlia. Più d’un giorno, dovettero la povera donna e la desolata fanciulla stare in una tale incertezza, a mulinare sul come, sul perchè, sulle conseguenze di quel fatto doloroso, a commentare, ognuna tra sè, o sottovoce tra loro, quando potevano, quelle terribili parole.
Un giovedì finalmente, capitò al monastero un uomo a cercar d’Agnese. Era un pesciaiolo di Pescarenico, che andava a Milano, secondo l’ordinario, a spacciar la sua mercanzia; e il buon frate Cristoforo l’aveva pregato che, passando per Monza, facesse una scappata al monastero, salutasse le donne da parte sua, raccontasse loro quel che si sapeva del tristo caso di Renzo, raccomandasse loro d’aver pazienza, e confidare in Dio; e che lui povero frate non si dimenticherebbe certamente di loro, e spierebbe l’occasione di poterle aiutare; e intanto non mancherebbe, ogni settimana, di far loro saper le sue nuove, per quel mezzo, o altrimenti. Intorno a Renzo, il messo non seppe dir altro di nuovo e di certo, se non la visita fattagli in casa, e le ricerche per averlo nelle mani; ma insieme ch’erano andate tutte a voto, e si sapeva di certo che s’era messo in salvo sul bergamasco. Una tale certezza, e non fa bisogno di dirlo, fu un gran balsamo per Lucia: d’allora in poi le sue lacrime scorsero più facili e più dolci; provò maggior conforto negli sfoghi segreti con la madre; e in tutte le sue preghiere, c’era mescolato un ringraziamento.
Gertrude la faceva venire spesso in un suo parlatorio privato, e la tratteneva talvolta lungamente, compiacendosi dell’ingenuità e della dolcezza della poverina, e nel sentirsi ringraziare e benedire ogni momento. Le raccontava anche, in confidenza, una parte (la parte netta) della sua storia, di ciò che aveva patito, per andar lì a patire; e quella prima maraviglia sospettosa di Lucia s’andava cambiando in compassione. Trovava in quella storia ragioni più che sufficienti a spiegar ciò che c’era d’un po’ strano nelle maniere della sua benefattrice; tanto più con l’aiuto di quella dottrina d’Agnese su’ cervelli de’ signori. Per quanto però si sentisse portata a contraccambiare la confidenza che Gertrude le dimostrava, non le passò neppur per la testa di parlarle delle sue nuove inquietudini, della sua nuova disgrazia, di dirle chi fosse quel filatore scappato; per non rischiare di spargere una voce così piena di dolore e di scandolo. Si schermiva anche, quanto poteva, dal rispondere alle domande curiose di quella, sulla storia antecedente alla promessa; ma qui non eran ragioni di prudenza. Era perchè alla povera innocente quella storia pareva più spinosa, più difficile da raccontarsi, di tutte quelle che aveva sentite, e che credesse di poter sentire dalla signora. In queste c’era tirannia, insidie, patimenti; cose brutte e dolorose, ma che pur si potevan nominare: nella sua c’era mescolato per tutto un sentimento, una parola, che non le pareva possibile di proferire, parlando di sè; e alla quale non avrebbe mai trovato da sostituire una perifrasi che non le paresse sfacciata: l’amore!
Qualche volta, Gertrude quasi s’indispettiva di quello star così sulle difese; ma vi traspariva tanta amorevolezza, tanto rispetto, tanta riconoscenza, e anche tanta fiducia! Qualche volta forse, quel pudore così delicato, così ombroso, le dispiaceva ancor più per un altro verso; ma tutto si perdeva nella soavità d’un pensiero che le tornava ogni momento, guardando Lucia: ― a questa fo del bene. ― Ed era vero; perchè, oltre il ricovero, que’ discorsi, quelle carezze famigliari erano di non poco conforto a Lucia. Un altro ne trovava nel lavorar di continuo; e pregava sempre che le dessero qualcosa da fare: anche nel parlatorio, portava sempre qualche lavoro da tener le mani in esercizio: ma, come i pensieri dolorosi si caccian per tutto! cucendo, cucendo, ch’era un mestiere quasi nuovo per lei, le veniva ogni poco in mente il suo aspo; e dietro all’aspo, quante cose!

Il secondo giovedì, tornò quel pesciaiolo o un altro messo, co’ saluti del padre Cristoforo, e con la conferma della fuga felice di Renzo. Notizie più positive intorno a’ suoi guai, nessuna; perchè, come abbiam detto al lettore, il cappuccino aveva sperato d’averle dal suo confratello di Milano, a cui l’aveva raccomandato; e questo rispose di non aver veduto nè la persona, nè la lettera; che uno di campagna era bensì venuto al convento, a cercar di lui; ma che, non avendocelo trovato, era andato via, e non era più comparso.
Il terzo giovedì, non si vide nessuno; e, per le povere donne, fu non solo una privazione d’un conforto desiderato e sperato, ma, come accade per ogni piccola cosa a chi è afflitto e impicciato, una cagione d’inquietudine, di cento sospetti molesti. Già prima d’allora, Agnese aveva pensato a fare una scappata a casa; questa novità di non vedere l’ambasciatore promesso, la fece risolvere. Per Lucia era una faccenda seria il rimanere distaccata dalla gonnella della madre; ma la smania di saper qualche cosa, e la sicurezza che trovava in quell’asilo così guardato e sacro, vinsero le sue ripugnanze. E fu deciso tra loro che Agnese anderebbe il giorno seguente ad aspettar sulla strada il pesciaiolo che doveva passar di lì, tornando da Milano; e gli chiederebbe in cortesia un posto sul baroccio, per farsi condurre a’ suoi monti. Lo trovò in fatti, gli domandò se il padre Cristoforo non gli aveva data qualche commissione per lei: il pesciaiolo, tutto il giorno avanti la sua partenza era stato a pescare, e non aveva saputo niente del padre. La donna non ebbe bisogno di pregare, per ottenere il piacere che desiderava: prese congedo dalla signora e dalla figlia, non senza lacrime, promettendo di mandar subito le sue nuove, e di tornar presto; e partì.
Nel viaggio, non accadde nulla di particolare. Riposarono parte della notte in un’osteria, secondo il solito; ripartirono innanzi giorno; e arrivaron di buon’ora a Pescarenico. Agnese smontò sulla piazzetta del convento, lasciò andare il suo conduttore con molti: Dio ve ne renda merito; e giacchè era lì, volle, prima d’andare a casa, vedere il suo buon frate benefattore. Sonò il campanello; chi venne a aprire, fu fra Galdino, quel delle noci.
“ Oh! la mia donna, che vento v’ha portata? ”
“ Vengo a cercare il padre Cristoforo. ”
“ Il padre Cristoforo? Non c’è. ”
“ Oh! starà molto a tornare? ”
“ Ma….? ” disse il frate, alzando le spalle, e ritirando nel cappuccio la testa rasa.
“ Dov’è andato? ”
“ A Rimini. ”
“A? ”
“ A Rimini. ”
“ Dov’è questo paese? ”
“ Eh eh eh! ” rispose il frate, trinciando verticalmente l’aria con la mano distesa, per significare una gran distanza.

“ Oh povera me! Ma perchè è andato via così all’improvviso? ”
“ Perchè ha voluto così il padre provinciale. ”
“ E perchè mandarlo via? che faceva tanto bene qui? Oh Signore! ”
“ Se i superiori dovessero render conto degli ordini che danno, dove sarebbe l’ubbidienza, la mia donna? ”
“ Sì; ma questa è la mia rovina. ”
“ Sapete cosa sarà? Sarà che a Rimini avranno avuto bisogno d’un buon predicatore; (ce n’abbiamo per tutto; ma alle volte ci vuol quell’uomo fatto apposta) il padre provinciale di là avrà scritto al padre provinciale di qui, se aveva un soggetto così e così; e il padre provinciale avrà detto: qui ci vuole il padre Cristoforo. Dev’esser proprio così, vedete. ”
“ Oh poveri noi! Quand’è partito? ”
“ Jerlaltro. ”
“ Ecco! s’io davo retta alla mia ispirazione di venir via qualche giorno prima! E non si sa quando possa tornare? così a un di presso?
“ Eh la mia donna! lo sa il padre provinciale; se lo sa anche lui. Quando un nostro padre predicatore ha preso il volo, non si può prevedere su che ramo potrà andarsi a posare. Li cercan di qua, li cercan di là: e abbiamo conventi in tutte le quattro parti del mondo. Supponete che, a Rimini, il padre Cristoforo faccia un gran fracasso col suo quaresimale: perchè non predica sempre a braccio, come faceva qui, per i pescatori e i contadini: per i pulpiti delle città, ha le sue belle prediche scritte; e fior di roba. Si sparge la voce, da quelle parti, di questo gran predicatore; e lo possono cercare da… da che so io? E allora, bisogna mandarlo; perchè noi viviamo della carità di tutto il mondo, ed è giusto che serviamo tutto il mondo. ”
“ Oh Signore! Signore! ” esclamò di nuovo Agnese, quasi piangendo: “ come devo fare, senza quell’uomo? Era quello che ci faceva da padre! Per noi è una rovina. ”
“ Sentite, buona donna; il padre Cristoforo era veramente un uomo; ma ce n’abbiamo degli altri, sapete? pieni di carità e di talento, e che sanno trattare ugualmente co’ signori e co’ poveri. Volete il padre Atanasio? volete il padre Girolamo? volete il padre Zaccaria? È un uomo di vaglia, vedete, il padre Zaccaria. E non istate a badare, come fanno certi ignoranti, che sia così mingherlino, con una vocina fessa, e una barbetta misera misera: non dico per predicare, perchè ognuno ha i suoi doni; ma per dar dei pareri, è un uomo, sapete? ”
“ Oh per carità! ” esclamò Agnese, con quel misto di gratitudine e d’impazienza, che si prova a un’esibizione in cui si trovi più la buona volontà altrui, che la propria convenienza: “ cosa m’importa a me che uomo sia o non sia un altro, quando quel pover’uomo che non c’è più, era quello che sapeva le nostre cose, e aveva preparato tutto per aiutarci? ”
“ Allora, bisogna aver pazienza. ”
“ Questo lo so, ” rispose Agnese: “ scusate dell’incomodo. ”
“ Di che cosa, la mia donna? mi dispiace per voi. E se vi risolvete di cercar qualcheduno de’ nostri padri, il convento è qui che non si move. Ehi, mi lascerò poi veder presto, per la cerca dell’olio. ”
“ State bene, ” disse Agnese; e s’incamminò verso il suo paesetto, desolata, confusa, sconcertata, come il povero cieco che avesse perduto il suo bastone.

Un po’ meglio informati che fra Galdino, noi possiamo dire come andò veramente la cosa. Attilio, appena arrivato a Milano, andò, come aveva promesso a don Rodrigo, a far visita al loro comune zio del Consiglio segreto. (Era una consulta, composta allora di tredici personaggi di toga e di spada, da cui il governatore prendeva parere, e che, morendo uno di questi, o venendo mutato, assumeva temporariamente il governo.) Il conte zio, togato, e uno degli anziani del consiglio, vi godeva un certo credito; ma nel farlo valere, e nel farlo rendere con gli altri, non c’era il suo compagno. Un parlare ambiguo, un tacere significativo, un restare a mezzo, uno stringer d’occhi che esprimeva: non posso parlare; un lusingare senza promettere, un minacciare in cerimonia; tutto era diretto a quel fine; e tutto, o più o meno, tornava in pro. A segno che fino a un: io non posso niente in questo affare: detto talvolta per la pura verità, ma detto in modo che non gli era creduto, serviva ad accrescere il concetto, e quindi la realtà del suo potere: come quelle scatole che si vedono ancora in qualche bottega di speziale, con su certe parole arabe, e dentro non c’è nulla; ma servono a mantenere il credito alla bottega. Quello del conte zio, che, da gran tempo, era sempre andato crescendo a lentissimi gradi, ultimamente aveva fatto in una volta un passo, come si dice, di gigante, per un’occasione straordinaria, un viaggio a Madrid, con una missione alla corte; dove, che accoglienza gli fosse fatta, bisognava sentirlo raccontar da lui. Per non dir altro, il conte duca l’aveva trattato con una degnazione particolare, e ammesso alla sua confidenza, a segno d’avergli una volta domandato, in presenza, si può dire, di mezza la corte, come gli piacesse Madrid, e d’avergli un’altra volta detto a quattr’occhi, nel vano d’una finestra, che il duomo di Milano era il tempio più grande che fosse negli stati del re.

Fatti i suoi complimenti al conte zio, e presentatigli quelli del cugino, Attilio, con un suo contegno serio, che sapeva prendere a tempo, disse: “ credo di fare il mio dovere, senza mancare alla confidenza di Rodrigo, avvertendo il signor zio d’un affare che, se lei non ci mette una mano, può diventar serio, e portar delle conseguenze… ”
“ Qualcheduna delle sue, m’immagino. ”
“ Per giustizia, devo dire che il torto non è dalla parte di mio cugino. Ma è riscaldato; e, come dico, non c’è che il signore zio, che possa….. ”
“ Vediamo, vediamo. ”
“ C’è da quelle parti un frate cappuccino che l’ha con Rodrigo; e la cosa è arrivata a un punto che…. ”
“ Quante volte v’ho detto, all’uno e all’altro, che i frati bisogna lasciarli cuocere nel loro brodo? Basta il da fare che danno a chi deve…. a chi tocca…. ” E qui soffiò. “ Ma voi altri che potete scansarli…. ”

“ Signore zio, in questo, è mio dovere di dirle che Rodrigo l’avrebbe scansato, se avesse potuto. È il frate che l’ha con lui, che ha preso a provocarlo in tutte le maniere…. ”
“ Che diavolo ha codesto frate con mio nipote?”
“ Prima di tutto, è una testa inquieta, conosciuto per tale, e che fa professione di prendersela coi cavalieri. Costui protegge, dirige, che so io? una contadinotta di là; e ha per questa creatura una carità, una carità….. non dico pelosa, ma una carità molto gelosa, sospettosa, permalosa. ”
“ Intendo, ” disse il conte zio; e sur un certo fondo di goffaggine, dipintogli in viso dalla natura, velato poi e ricoperto, a più mani, di politica, balenò un raggio di malizia, che vi faceva un bellissimo vedere.

“ Ora, da qualche tempo, ” continuò Attilio, “ s’è cacciato in testa questo frate, che Rodrigo avesse non so che disegni sopra questa… ”
“ S’è cacciato in testa, s’è cacciato in testa: lo conosco anch’io il signor don Rodrigo; e ci vuol altro avvocato che vossignoria, per giustificarlo in queste materie. ”
“ Signore zio, che Rodrigo possa aver fatto qualche scherzo a quella creatura, incontrandola per la strada, non sarei lontano dal crederlo: è giovine, e finalmente non è cappuccino; ma queste son bazzecole da non trattenerne il signor zio; il serio è che il frate s’è messo a parlar di Rodrigo come si farebbe d’un mascalzone, cerca d’aizzargli contro tutto il paese…. ”
“ E gli altri frati? ”
“ Non se ne impicciano, perchè lo conoscono per una testa calda, e hanno tutto il rispetto per Rodrigo; ma, dall’altra parte, questo frate ha un gran credito presso i villani, perchè fa poi anche il santo, e…. ”
“ M’immagino che non sappia che Rodrigo è mio nipote. ”
“ Se lo sa! Anzi questo è quel che gli mette più il diavolo addosso. ”
“ Come? come? ”
“ Perchè, e lo va dicendo lui, ci trova più gusto a farla vedere a Rodrigo, appunto perchè questo ha un protettor naturale, di tanta autorità come vossignoria: e che lui se la ride de’ grandi e de’ politici, e che il cordone di san Francesco tien legate anche le spade, e che… ”
“ Oh frate temerario! Come si chiama costui? ”
“ Fra Cristoforo da *** ” disse Attilio; e il conte zio, preso da una cassetta del suo tavolino, un libriccino di memorie, vi scrisse, soffiando, soffiando, quel povero nome. Intanto Attilio seguitava: “ è sempre stato di quell’umore, costui: si sa la sua vita. Era un plebeo che, trovandosi aver quattro soldi, voleva competere coi cavalieri del suo paese; e, per rabbia di non poterla vincere con tutti, ne ammazzò uno: onde, per iscansar la forca, si fece frate. ”
“ Ma bravo! ma bene! La vedremo, la vedremo, ” diceva il conte zio, seguitando a soffiare.
“ Ora poi, ” continuava Attilio, “ è più arrabbiato che mai, perchè gli è andato a monte un disegno che gli premeva molto molto: e da questo il signore zio capirà che uomo sia. Voleva costui maritare quella sua creatura: fosse per levarla dai pericoli del mondo, lei m’intende, o per che altro si fosse, la voleva maritare assolutamente; e aveva trovato il…. l’uomo: un’altra sua creatura, un soggetto, che, forse e senza forse, anche il signore zio lo conoscerà di nome; perchè tengo per certo che il Consiglio segreto avrà dovuto occuparsi di quel degno soggetto. ”
“ Chi è costui? ”
“ Un filatore di seta, Lorenzo Tramaglino, quello che…. ”
“ Lorenzo Tramaglino! ” esclamò il conte zio. “ Ma bene! ma bravo, padre! Sicuro… in fatti…. aveva una lettera per un…. Peccato che…. Ma non importa; va bene. E perchè il signor don Rodrigo non mi dice nulla di tutto questo? perchè lascia andar le cose tant’avanti, e non si rivolge a chi lo può e vuole dirigere e sostenere? ”
“ Dirò il vero anche in questo, ” proseguiva Attilio. “ Da una parte, sapendo quante brighe, quante cose ha per la testa il signore zio…. ” (questo, soffiando, vi mise la mano, come per significare la gran fatica ch’era a farcele star tutte) “ s’è fatto scrupolo di darle una briga di più. E poi, dirò tutto: da quello che ho potuto capire, è così irritato, così fuor de’ gangheri, così stucco delle villanie di quel frate, che ha più voglia di farsi giustizia da sè, in qualche maniera sommaria, che d’ottenerla in una maniera regolare, dalla prudenza e dal braccio del signore zio. Io ho cercato di smorzare; ma vedendo che la cosa andava per le brutte, ho creduto che fosse mio dovere d’avvertir di tutto il signore zio, che alla fine è il capo e la colonna della casa…. ”
“ Avresti fatto meglio a parlare un poco prima ”
“ È vero; ma io andavo sperando che la cosa svanirebbe da sè, o che il frate tornerebbe finalmente in cervello, o che se n’anderebbe da quel convento, come accade di questi frati, che ora sono qua, ora sono là; e allora tutto sarebbe finito. Ma…. ”
“ Ora toccherà a me a raccomodarla. ”
“ Così ho pensato anch’io. Ho detto tra me: il signore zio, con la sua avvedutezza, con la sua autorità, saprà lui prevenire uno scandolo, e insieme salvar l’onore di Rodrigo, che è poi anche il suo. Questo frate, dicevo io, l’ha sempre col cordone di san Francesco; ma per adoprarlo a proposito, il cordone di san Francesco, non è necessario d’averlo intorno alla pancia. Il signore zio ha cento mezzi ch’io non conosco: so che il padre provinciale ha, come è giusto, una gran deferenza per lui; e se il signore zio crede che in questo caso il miglior ripiego sia di far cambiar aria al frate, lui con due parole… ”
“ Lasci il pensiero a chi tocca, vossignoria, ” disse un po’ ruvidamente il conte zio.
“ Ah è vero! ” esclamò Attilio, con una tentennatina di testa, e con un sogghigno di compassione per sè stesso. “ Son io l’uomo da dar pareri al signore zio! Ma è la passione che ho della riputazione del casato che mi fa parlare. E ho anche paura d’aver fatto un altro male, ” soggiunse con un’aria pensierosa: “ ho paura d’aver fatto torto a Rodrigo nel concetto del signore zio. Non mi darei pace, se fossi cagione di farle pensare che Rodrigo non abbia tutta quella fede in lei, tutta quella sommissione che deve avere. Creda, signore zio, che in questo caso è proprio…. ”
“ Via, via; che torto, che torto tra voi altri due? che sarete sempre amici, finchè l’uno non metta giudizio. Scapestrati, scapestrati, che sempre ne fate una; e a me tocca di rattopparle: che….. mi fareste dire uno sproposito, mi date più da pensare voi altri due, che, ” e qui immaginatevi che soffio mise, “ tutti questi benedetti affari di stato. ”
Attilio fece ancora qualche scusa, qualche promessa, qualche complimento; poi si licenziò, e se n’andò, accompagnato da un “ e abbiamo giudizio, ” ch’era la formola di commiato del conte zio per i suoi nipoti.

Testo del CAPITOLO XIX
CAPITOLO XIX.
Alessandro Manzoni – I promessi sposi (1840)

CAPITOLO XIX.
Chi, vedendo in un campo mal coltivato, un’erbaccia, per esempio un bel lapazio, volesse proprio sapere se sia venuto da un seme maturato nel campo stesso, o portatovi dal vento, o lasciatovi cader da un uccello, per quanto ci pensasse, non ne verrebbe mai a una conclusione. Così anche noi non sapremmo dire se dal fondo naturale del suo cervello, o dall’insinuazione d’Attilio, venisse al conte zio la risoluzione di servirsi del padre provinciale per troncare nella miglior maniera quel nodo imbrogliato. Certo è che Attilio non aveva detta a caso quella parola; e quantunque dovesse aspettarsi che, a un suggerimento così scoperto, la boria ombrosa del conte zio avrebbe ricalcitrato, a ogni modo volle fargli balenar dinanzi l’idea di quel ripiego, e metterlo sulla strada, dove desiderava che andasse. Dall’altra parte, il ripiego era talmente adattato all’umore del conte zio, talmente indicato dalle circostanze, che, senza suggerimento di chi si sia, si può scommettere che l’avrebbe trovato da sé. Si trattava che, in una guerra pur troppo aperta, uno del suo nome, un suo nipote, non rimanesse al di sotto: punto essenzialissimo alla riputazione del potere che gli stava tanto a cuore. La soddisfazione che il nipote poteva prendersi da sé, sarebbe stata un rimedio peggior del male, una sementa di guai; e bisognava impedirla, in qualunque maniera, e senza perder tempo. Comandargli che partisse in quel momento dalla sua villa; già non avrebbe ubbidito; e quand’anche avesse, era un cedere il campo, una ritirata della casa dinanzi a un convento. Ordini, forza legale, spauracchi di tal genere, non valevano contro un avversario di quella condizione: il clero regolare e secolare era affatto immune da ogni giurisdizione laicale; non solo le persone, ma i luoghi ancora abitati da esso: come deve sapere anche chi non avesse letta altra storia che la presente; che starebbe fresco. Tutto quel che si poteva contro un tale avversario era cercar d’allontanarlo, e il mezzo a ciò era il padre provinciale, in arbitrio del quale era l’andare e lo stare di quello.
Ora, tra il padre provinciale e il conte zio passava un’antica conoscenza: s’eran veduti di rado, ma sempre con gran dimostrazioni d’amicizia, e con esibizioni sperticate di servizi. E alle volte, è meglio aver che fare con uno che sia sopra a molti individui, che con un solo di questi, il quale non vede che la sua causa, non sente che la sua passione, non cura che il suo punto; mentre l’altro vede in un tratto cento relazioni, cento conseguenze, cento interessi, cento cose da scansare, cento cose da salvare; e si può quindi prendere da cento parti.
Tutto ben ponderato, il conte zio invitò un giorno a pranzo il padre provinciale, e gli fece trovare una corona di commensali assortiti con un intendimento sopraffino. Qualche parente de’ più titolati, di quelli il cui solo casato era un gran titolo; e che, col solo contegno, con una certa sicurezza nativa, con una sprezzatura signorile, parlando di cose grandi con termini famigliari, riuscivano, anche senza farlo apposta, a imprimere e rinfrescare, ogni momento, l’idea della superiorità e della potenza; e alcuni clienti legati alla casa per una dipendenza ereditaria, e al personaggio per una servitù di tutta la vita; i quali, cominciando dalla minestra a dir di sì, con la bocca, con gli occhi, con gli orecchi, con tutta la testa, con tutto il corpo, con tutta l’anima, alle frutte v’avevan ridotto un uomo a non ricordarsi più come si facesse a dir di no.
A tavola, il conte padrone fece cader ben presto il discorso sul tema di Madrid. A Roma si va per più strade; a Madrid egli andava per tutte. Parlò della corte, del conte duca, de’ ministri, della famiglia del governatore, delle cacce del toro, che lui poteva descriver benissimo, perchè le aveva godute da un posto distinto, dell’Escuriale di cui poteva render conto a un puntino, perchè un creato del conte duca l’aveva condotto per tutti i buchi. Per qualche tempo, tutta la compagnia stette, come un uditorio, attenta a lui solo, poi si divise in colloqui particolari; e lui allora continuò a raccontare altre di quelle belle cose, come in confidenza, al padre provinciale che gli era accanto, e che lo lasciò dire, dire e dire.

Ma a un certo punto, diede una giratina al discorso, lo staccò da Madrid, e di corte in corte, di dignità in dignità, lo tirò sul cardinal Barberini, ch’era cappuccino, e fratello del papa allora sedente, Urbano VIII: niente meno. Il conte zio dovette anche lui lasciar parlare un poco, e stare a sentire, e ricordarsi che finalmente, in questo mondo, non c’era soltanto i personaggi che facevan per lui. Poco dopo alzati da tavola, pregò il padre provinciale di passar con lui in un’altra stanza.
Due potestà, due canizie, due esperienze consumate si trovavano a fronte. Il magnifico signore fece sedere il padre molto reverendo, sedette anche lui, e cominciò: “stante l’amicizia che passa tra di noi, ho creduto di far parola a vostra paternità d’un affare di comune interesse, da concluder tra di noi, senz’andar per altre strade, che potrebbero…. E perciò, alla buona, col cuore in mano, le dirò di che si tratta; e in due parole son certo che anderemo d’accordo. Mi dica: nel loro convento di Pescarenico c’è un padre Cristoforo da ***?”
Il provinciale fece cenno di sì.
“Mi dica un poco vostra paternità, schiettamente, da buon amico…. questo soggetto…. questo padre…. Di persona io non lo conosco; e sì che de’ padri cappuccini ne conosco parecchi: uomini d’oro, zelanti, prudenti, umili: sono stato amico dell’ordine fin da ragazzo…. Ma in tutte le famiglie un po’ numerose…. c’è sempre qualche individuo, qualche testa…. E questo padre Cristoforo, so da certi ragguagli che è un uomo…. un po’ amico de’ contrasti…. che non ha tutta quella prudenza, tutti que’ riguardi…. Scommetterei che ha dovuto dar più d’una volta da pensare a vostra paternità.”
— Ho inteso: è un impegno, — pensava intanto il provinciale: — Colpa mia; lo sapevo che quel benedetto Cristoforo era un soggetto da farlo girare di pulpito in pulpito, e non lasciarlo fermare mesi in un luogo, specialmente in conventi di campagna. —
“Oh!” disse poi: “mi dispiace davvero di sentire che vostra magnificenza abbia in un tal concetto il padre Cristoforo; mentre, per quanto ne so io, è un religioso…. esemplare in convento, e tenuto in molta stima anche di fuori.”
“Intendo benissimo; vostra paternità deve…. Però, però, da amico sincero, voglio avvertirla d’una cosa che le sarà utile di sapere; e se anche ne fosse già informata, posso, senza mancare ai miei doveri, metterle sott’occhio certe conseguenze…. possibili: non dico di più. Questo padre Cristoforo, sappiamo che proteggeva un uomo di quelle parti, un uomo…. vostra paternità n’avrà sentito parlare; quello che, con tanto scandolo, scappò dalle mani della giustizia, dopo aver fatto, in quella terribile giornata di san Martino, cose…. cose…. Lorenzo Tramaglino!”
— Ahi! — pensò il provinciale; e disse: “questa circostanza mi riesce nuova; ma vostra magnificenza sa bene che una parte del nostro ufizio è appunto d’andare in cerca de’ traviati, per ridurli….”
“Va bene; ma la protezione de’ traviati d’una certa specie….! Son cose spinose, affari delicati….” E qui, in vece di gonfiar le gote e di soffiare, strinse le labbra, e tirò dentro tant’aria quanta ne soleva mandar fuori, soffiando. E riprese: “ho creduto bene di darle un cenno su questa circostanza, perchè se mai sua eccellenza…. Potrebbe esser fatto qualche passo a Roma…. non so niente…. e da Roma venirle….”
“Son ben tenuto a vostra magnificenza di codesto avviso; però son certo che, se si prenderanno informazioni su questo proposito, si troverà che il padre Cristoforo non avrà avuto che fare con l’uomo che lei dice, se non a fine di mettergli il cervello a partito. Il padre Cristoforo, lo conosco.”
“Già lei sa meglio di me che soggetto fosse al secolo, le cosette che ha fatte in gioventù.”
“È la gloria dell’abito questa, signor conte, che un uomo, il quale al secolo ha potuto far dir di sè, con questo indosso, diventi un altro. E da che il padre Cristoforo porta quest’abito….”
“Vorrei crederlo: lo dico di cuore: vorrei crederlo; ma alle volte, come dice il proverbio…. l’abito non fa il monaco.”
Il proverbio non veniva in taglio esattamente; ma il conte l’aveva sostituito in fretta a un altro che gli era venuto sulla punta della lingua: il lupo cambia il pelo, ma non il vizio.
“Ho de’ riscontri,” continuava, “ho de’ contrassegni….”
“Se lei sa positivamente,” disse il provinciale, “che questo religioso abbia commesso qualche errore (tutti si può mancare), avrò per un vero favore l’esserne informato. Son superiore: indegnamente; ma lo sono appunto per correggere, per rimediare.”
“Le dirò: insieme con questa circostanza dispiacevole della protezione aperta di questo padre per chi le ho detto, c’è un’altra cosa disgustosa, e che potrebbe…. Ma, tra di noi, accomoderemo tutto in una volta. C’è, dico, che lo stesso padre Cristoforo ha preso a cozzare con mio nipote, don Rodrigo ***.”
“Oh! questo mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace davvero.”
“Mio nipote è giovine, vivo, si sente quello che è, non è avvezzo a esser provocato…”
“Sarà mio dovere di prender buone informazioni d’un fatto simile. Come ho già detto a vostra magnificenza, e parlo con un signore che non ha meno giustizia che pratica di mondo, tutti siamo di carne, soggetti a sbagliare… tanto da una parte, quanto dall’altra: e se il padre Cristoforo avrà mancato…”
“Veda vostra paternità; son cose, come io le dicevo, da finirsi tra di noi, da seppellirsi qui, cose che a rimestarle troppo… si fa peggio. Lei sa cosa segue: quest’urti, queste picche, principiano talvolta da una bagattella, e vanno avanti, vanno avanti… A voler trovarne il fondo, o non se ne viene a capo, o vengon fuori cent’altri imbrogli. Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire.

Mio nipote è giovine; il religioso, da quel che sento, ha ancora tutto lo spirito, le… inclinazioni d’un giovine: e tocca a noi, che abbiamo i nostri anni… pur troppo eh, padre molto reverendo?…”
Chi fosse stato lì a vedere, in quel punto, fu come quando, nel mezzo d’un’opera seria, s’alza, per isbaglio, uno scenario, prima del tempo, e si vede un cantante che, non pensando, in quel momento, che ci sia un pubblico al mondo, discorre alla buona con un suo compagno. Il viso, l’atto, la voce del conte zio, nel dir quel pur troppo!, tutto fu naturale: lì non c’era politica: era proprio vero che gli dava noia d’avere i suoi anni. Non già che piangesse i passatempi, il brio, l’avvenenza della gioventù: frivolezze, sciocchezze, miserie! La cagion del suo dispiacere era ben più soda e importante: era che sperava un certo posto più alto, quando fosse vacato; e temeva di non arrivare a tempo. Ottenuto che l’avesse, si poteva esser certi che non si sarebbe più curato degli anni, non avrebbe desiderato altro, e sarebbe morto contento, come tutti quelli che desideran molto una cosa, assicurano di voler fare, quando siano arrivati a ottenerla.
Ma per lasciarlo parlar lui, “tocca a noi,” continuò, “a aver giudizio per i giovani, e a rassettar le loro malefatte. Per buona sorte, siamo ancora a tempo; la cosa non ha fatto chiasso; è ancora il caso d’un buon principiis obsta. Allontanare il fuoco dalla paglia. Alle volte un soggetto che, in un luogo, non fa bene, o che può esser causa di qualche inconveniente, riesce a maraviglia in un altro. Vostra paternità saprà ben trovare la nicchia conveniente a questo religioso. C’è giusto anche l’altra circostanza, che possa esser caduto in sospetto di chi… potrebbe desiderare che fosse rimosso: e, collocandolo in qualche posto un po’ lontanetto, facciamo un viaggio e due servizi; tutto s’accomoda da sé, o per dir meglio, non c’è nulla di guasto.”
Questa conclusione, il padre provinciale se l’aspettava fino dal principio del discorso. — Eh già! — pensava tra sé: — vedo dove vuoi andar a parare: delle solite; quando un povero frate è preso a noia da voi altri, o da uno di voi altri, o vi dà ombra, subito, senza cercar se abbia torto o ragione, il superiore deve farlo sgomberare. —
E quando il conte ebbe finito, e messo un lungo soffio, che equivaleva a un punto fermo, “intendo benissimo,” disse il provinciale, “quel che il signor conte vuol dire; ma prima di fare un passo…”
“È un passo e non è un passo, padre molto reverendo: è una cosa naturale, una cosa ordinaria; e se non si prende questo ripiego, e subito, prevedo un monte di disordini, un’iliade di guai. Uno sproposito… mio nipote non crederei… ci son io, per questo… Ma, al punto a cui la cosa è arrivata, se non la tronchiamo noi, senza perder tempo, con un colpo netto, non è possibile che si fermi, che resti segreta… e allora non è più solamente mio nipote… Si stuzzica un vespaio, padre molto reverendo. Lei vede; siamo una casa, abbiamo attinenze…”

“Cospicue.”
“Lei m’intende: tutta gente che ha sangue nelle vene, e che, a questo mondo… è qualche cosa. C’entra il puntiglio; diviene un affare comune; e allora… anche chi è amico della pace… Sarebbe un vero crepacuore per me, di dovere… di trovarmi… io che ho sempre avuta tanta propensione per i padri cappuccini…! Loro padri, per far del bene, come fanno con tanta edificazione del pubblico, hanno bisogno di pace, di non aver contese, di stare in buona armonia con chi… E poi, hanno de’ parenti al secolo… e questi affaracci di puntiglio, per poco che vadano in lungo, s’estendono, si ramificano, tiran dentro… mezzo mondo. Io mi trovo in questa benedetta carica, che m’obbliga a sostenere un certo decoro… Sua eccellenza… i miei signori colleghi… tutto diviene affar di corpo… tanto più con quell’altra circostanza… Lei sa come vanno queste cose.”
“Veramente,” disse il padre provinciale, “il padre Cristoforo è predicatore; e avevo già qualche pensiero… Mi si richiede appunto… Ma in questo momento, in tali circostanze, potrebbe parere una punizione; e una punizione prima d’aver ben messo in chiaro…”
“No punizione, no: un provvedimento prudenziale, un ripiego di comune convenienza, per impedire i sinistri che potrebbero… mi sono spiegato.”
“Tra il signor conte e me, la cosa rimane in questi termini; intendo. Ma, stando il fatto come fu riferito a vostra magnificenza, è impossibile, mi pare, che nel paese non sia traspirato qualcosa. Per tutto c’è degli aizzatori, de’ mettimale, o almeno de’ curiosi maligni che, se posson vedere alle prese signori e religiosi, ci hanno un gusto matto; e fiutano, interpretano, ciarlano… Ognuno ha il suo decoro da conservare; e io poi, come superiore (indegno), ho un dovere espresso… L’onor dell’abito… non è cosa mia… è un deposito del quale… Il suo signor nipote, giacché è così alterato, come dice vostra magnificenza, potrebbe prender la cosa come una soddisfazione data a lui, e… non dico vantarsene, trionfarne, ma…”
“Le pare, padre molto reverendo? Mio nipote è un cavaliere che nel mondo è considerato… secondo il suo grado e il dovere: ma davanti a me è un ragazzo; e non farà né più né meno di quello che gli prescriverò io. Le dirò di più: mio nipote non ne saprà nulla. Che bisogno abbiamo noi di render conto? Son cose che facciamo tra di noi, da buoni amici; e tra di noi hanno da rimanere. Non si dia pensiero di ciò. Devo essere avvezzo a non parlare.” E soffiò. “In quanto ai cicaloni,” riprese, “che vuol che dicano? Un religioso che vada a predicare in un altro paese, è cosa così ordinaria! E poi, noi che vediamo… noi che prevediamo… noi che ci tocca… non dobbiamo poi curarci delle ciarle.”
“Però, affine di prevenirle, sarebbe bene che, in quest’occasione, il suo signor nipote facesse qualche dimostrazione, desse qualche segno palese d’amicizia, di riguardo… non per noi, ma per l’abito…”
“Sicuro, sicuro; quest’è giusto… Però non c’è bisogno: so che i cappuccini son sempre accolti come si deve da mio nipote. Lo fa per inclinazione: è un genio in famiglia: e poi sa di far cosa grata a me. Del resto, in questo caso… qualcosa di straordinario… è troppo giusto. Lasci fare a me, padre molto reverendo; che comanderò a mio nipote… Cioè bisognerà insinuargli con prudenza, affinché non s’avveda di quel che è passato tra di noi. Perché non vorrei alle volte che mettessimo un impiastro dove non c’è ferita. E per quel che abbiamo concluso, quanto più presto sarà, meglio. E se si trovasse qualche nicchia un po’ lontana… per levar proprio ogni occasione…”
“Mi vien chiesto per l’appunto un predicatore da Rimini; e fors’anche, senz’altro motivo, avrei potuto metter gli occhi…”
“Molto a proposito, molto a proposito. E quando…?”
“Giacché la cosa si deve fare, si farà presto.”
“Presto, presto, padre molto reverendo: meglio oggi che domani. E,” continuava poi, alzandosi da sedere, “se posso qualche cosa, tanto io, come la mia famiglia, per i nostri buoni padri cappuccini…”
“Conosciamo per prova la bontà della casa,” disse il padre provinciale, alzatosi anche lui, e avviandosi verso l’uscio, dietro al suo vincitore.
“Abbiamo spento una favilla,” disse questo, soffermandosi, “una favilla, padre molto reverendo, che poteva destare un grand’incendio. Tra buoni amici, con due parole s’accomodano di gran cose.”
Arrivato all’uscio, lo spalancò, e volle assolutamente che il padre provinciale andasse avanti: entrarono nell’altra stanza, e si riunirono al resto della compagnia.

Un grande studio, una grand’arte, di gran parole, metteva quel signore nel maneggio d’un affare; ma produceva poi anche effetti corrispondenti. Infatti, col colloquio che abbiam riferito, riuscì a far andar fra Cristoforo a piedi da Pescarenico a Rimini, che è una bella passeggiata.
Una sera, arriva a Pescarenico un cappuccino di Milano, con un plico per il padre guardiano. C’è dentro l’obbedienza per fra Cristoforo, di portarsi a Rimini, dove predicherà la quaresima. La lettera al guardiano porta l’istruzione d’insinuare al detto frate che deponga ogni pensiero d’affari che potesse avere avviati nel paese da cui deve partire, e che non vi mantenga corrispondenze: il frate latore dev’ essere il compagno di viaggio. Il guardiano non dice nulla la sera; la mattina, fa chiamar fra Cristoforo, gli fa vedere l’obbedienza, gli dice che vada a prender la sporta, il bastone, il sudario e la cintura, e con quel padre compagno che gli presenta, si metta poi subito in viaggio.
Se fu un colpo per il nostro frate, lo lascio pensare a voi. Renzo, Lucia, Agnese, gli vennero subito in mente; e esclamò, per dir così, dentro di sè: — oh Dio! cosa faranno que’ meschini, quando io non sarò più qui! — Ma alzò gli occhi al cielo, e s’accusò d’aver mancato di fiducia, d’essersi creduto necessario a qualche cosa. Mise le mani in croce sul petto, in segno d’ubbidienza, e chinò la testa davanti al padre guardiano; il quale lo tirò poi in disparte, e gli diede quell’altro avviso, con parole di consiglio, e con significazione di precetto.

Fra Cristoforo andò alla sua cella, prese la sporta, vi ripose il breviario, il suo quaresimale, e il pane del perdono, s’allacciò la tonaca con la sua cintura di pelle, si licenziò da’ suoi confratelli che si trovavano in convento, andò da ultimo a prender la benedizione del guardiano, e col compagno, prese la strada che gli era stata prescritta.
Abbiamo detto che don Rodrigo, intestato più che mai di venire a fine della sua bella impresa, s’era risoluto di cercare il soccorso d’un terribile uomo. Di costui non possiam dare nè il nome, nè il cognome, nè un titolo, e nemmeno una congettura sopra nulla di tutto ciò: cosa tanto più strana, che del personaggio troviamo memoria in più d’un libro (libri stampati, dico) di quel tempo. Che il personaggio sia quel medesimo, l’identità de’ fatti non lascia luogo a dubitarne; ma per tutto un grande studio a scansarne il nome, quasi avesse dovuto bruciar la penna, la mano dello scrittore. Francesco Rivola, nella vita del cardinal Federigo Borromeo, dovendo parlar di quell’uomo, lo chiama “un signore altrettanto potente per ricchezze, quanto nobile per nascita,” e fermi lì. Giuseppe Ripamonti, che, nel quinto libro della quinta decade della sua Storia Patria, ne fa più distesa menzione, lo nomina uno, costui, colui, quest’uomo, quel personaggio. “Riferirò,” dice, nel suo bel latino, da cui traduciamo come ci riesce, “il caso d’un tale che, essendo de’ primi tra i grandi della città, aveva stabilita la sua dimora in una campagna, situata sul confine; e lì, assicurandosi a forza di delitti, teneva per niente i giudizi, i giudici, ogni magistratura, la sovranità; menava una vita affatto indipendente; ricettatore di forusciti, foruscito un tempo anche lui; poi tornato, come se niente fosse…” Da questo scrittore prenderemo qualche altro passo, che ci venga in taglio per confermare e per dilucidare il racconto del nostro anonimo; col quale tiriamo avanti.
Fare ciò ch’era vietato dalle leggi, o impedito da una forza qualunque; esser arbitro, padrone negli affari altrui, senz’altro interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da coloro ch’eran soliti averla dagli altri; tali erano state in ogni tempo le passioni principali di costui. Fino dall’adolescenza, allo spettacolo e al rumore di tante prepotenze, di tante gare, alla vista di tanti tiranni, provava un misto sentimento di sdegno e d’invidia impaziente. Giovine, e vivendo in città, non tralasciava occasione, anzi n’andava in cerca, d’aver che dire co’ più famosi di quella professione, d’attraversarli, per provarsi con loro, e farli stare a dovere, o tirarli a cercare la sua amicizia. Superiore di ricchezze e di seguito alla più parte, e forse a tutti d’ardire e di costanza, ne ridusse molti a ritirarsi da ogni rivalità, molti ne conciò male, molti n’ebbe amici; non già amici del pari, ma, come soltanto potevan piacere a lui, amici subordinati, che si riconoscessero suoi inferiori, che gli stessero alla sinistra. Nel fatto però, veniva anche lui a essere il faccendiere, lo strumento di tutti coloro: essi non mancavano di richiedere ne’ loro impegni l’opera d’un tanto ausiliario; per lui, tirarsene indietro sarebbe stato decadere dalla sua riputazione, mancare al suo assunto. Di maniera che, per conto suo, e per conto d’altri, tante ne fece che, non bastando né il nome, né il parentado, né gli amici, né la sua audacia a sostenerlo contro i bandi pubblici, e contro tante animosità potenti, dovette dar luogo, e uscir dallo stato. Credo che a questa circostanza si riferisca un tratto notabile raccontato dal Ripamonti. “Una volta che costui ebbe a sgomberare il paese, la segretezza che usò, il rispetto, la timidezza, furon tali: attraversò la città a cavallo, con un seguito di cani, a suon di tromba; e passando davanti al palazzo di corte, lasciò alla guardia un’imbasciata d’impertinenze per il governatore.”

Nell’assenza, non ruppe le pratiche, né tralasciò le corrispondenze con que’ suoi tali amici, i quali rimasero uniti con lui, per tradurre letteralmente dal Ripamonti, “in lega occulta di consigli atroci, e di cose funeste.” Pare anzi che allora contraesse con più alte persone, certe nuove terribili pratiche, delle quali lo storico summentovato parla con una brevità misteriosa. “Anche alcuni principi esteri,” dice, “si valsero più volte dell’opera sua, per qualche importante omicidio, e spesso gli ebbero a mandar da lontano rinforzi di gente che servisse sotto i suoi ordini.”
Finalmente (non si sa dopo quanto tempo), o fosse levato il bando, per qualche potente intercessione, o l’audacia di quell’uomo gli tenesse luogo d’immunità, si risolvette di tornare a casa, e vi tornò difatti; non però in Milano, ma in un castello confinante col territorio bergamasco, che allora era, come ognun sa, stato veneto. “Quella casa,” cito ancora il Ripamonti, “era come un’officina di mandati sanguinosi: servitori la cui testa era messa a taglia, e che avevan per mestiere di troncar teste: né cuoco, né sguattero dispensati dall’omicidio: le mani de’ ragazzi insanguinate.” Oltre questa bella famiglia domestica, n’aveva, come afferma lo stesso storico, un’altra di soggetti simili, dispersi e posti come a quartiere in vari luoghi de’ due stati sul lembo de’ quali viveva, e pronti sempre a’ suoi ordini.
Tutti i tiranni, per un bel tratto di paese all’intorno, avevan dovuto, chi in un’occasione e chi in un’altra, scegliere tra l’amicizia e l’inimicizia di quel tiranno straordinario. Ma ai primi che avevano voluto provar di resistergli, la gli era andata così male, che nessuno si sentiva più di mettersi a quella prova. E neppur col badare a’ fatti suoi, con lo stare a sé, uno non poteva rimanere indipendente da lui. Capitava un suo messo a intimargli che abbandonasse la tale impresa, che cessasse di molestare il tal debitore, o cose simili: bisognava rispondere sì o no. Quando una parte, con un omaggio vassallesco, era andata a rimettere in lui un affare qualunque, l’altra parte si trovava a quella dura scelta, o di stare alla sua sentenza, o di dichiararsi suo nemico; il che equivaleva a esser, come si diceva altre volte, tisico in terzo grado. Molti, avendo il torto, ricorrevano a lui per aver ragione in effetto; molti anche, avendo ragione, per preoccupare un così gran patrocinio, e chiuderne l’adito all’avversario: gli uni e gli altri divenivano più specialmente suoi dipendenti. Accadde qualche volta che un debole oppresso, vessato da un prepotente, si rivolse a lui; e lui, prendendo le parti del debole, forzò il prepotente a finirla, a riparare il mal fatto, a chiedere scusa; o, se stava duro, gli mosse tal guerra, da costringerlo a sfrattar dai luoghi che aveva tiranneggiati, o gli fece anche pagare un più pronto e più terribile fio. E in quei casi, quel nome tanto temuto e abborrito era stato benedetto un momento: perché, non dirò quella giustizia, ma quel rimedio, quel compenso qualunque, non si sarebbe potuto, in que’ tempi, aspettarlo da nessun’altra forza né privata, né pubblica. Più spesso, anzi per l’ordinario, la sua era stata ed era ministra di voleri iniqui, di soddisfazioni atroci, di capricci superbi. Ma gli usi così diversi di quella forza producevan sempre l’effetto medesimo, d’imprimere negli animi una grand’idea di quanto egli potesse volere e eseguire in onta dell’equità e dell’iniquità, quelle due cose che metton tanti ostacoli alla volontà degli uomini, e li fanno così spesso tornare indietro. La fama de’ tiranni ordinari rimaneva per lo più ristretta in quel piccolo tratto di paese dov’erano i più ricchi e i più forti: ogni distretto aveva i suoi; e si rassomigliavan tanto, che non c’era ragione che la gente s’occupasse di quelli che non aveva a ridosso. Ma la fama di questo nostro era già da gran tempo diffusa in ogni parte del milanese: per tutto, la sua vita era un soggetto di racconti popolari; e il suo nome significava qualcosa d’irresistibile, di strano, di favoloso. Il sospetto che per tutto s’aveva de’ suoi collegati e de’ suoi sicari, contribuiva anch’esso a tener viva per tutto la memoria di lui. Non eran più che sospetti; giacché chi avrebbe confessata apertamente una tale dipendenza? ma ogni tiranno poteva essere un suo collegato, ogni malandrino, uno de’ suoi; e l’incertezza stessa rendeva più vasta l’opinione, e più cupo il terrore della cosa. E ogni volta che in qualche parte si vedessero comparire figure di bravi sconosciute e più brutte dell’ordinario, a ogni fatto enorme di cui non si sapesse alla prima indicare o indovinar l’autore, si proferiva, si mormorava il nome di colui che noi, grazie a quella benedetta, per non dir altro, circospezione de’ nostri autori, saremo costretti a chiamare l’innominato.
Dal castellaccio di costui al palazzotto di don Rodrigo, non c’era più di sette miglia: e quest’ultimo, appena divenuto padrone e tiranno, aveva dovuto vedere che, a così poca distanza da un tal personaggio, non era possibile far quel mestiere senza venire alle prese, o andar d’accordo con lui. Gli s’era perciò offerto e gli era divenuto amico, al modo di tutti gli altri, s’intende; gli aveva reso più d’un servizio (il manoscritto non dice di più); e n’aveva riportate ogni volta promesse di contraccambio e d’aiuto, in qualunque occasione. Metteva però molta cura a nascondere una tale amicizia, o almeno a non lasciare scorgere quanto stretta, e di che natura fosse. Don Rodrigo voleva bensì fare il tiranno, ma non il tiranno salvatico: la professione era per lui un mezzo, non uno scopo: voleva dimorar liberamente in città, godere i comodi, gli spassi, gli onori della vita civile; e perciò bisognava che usasse certi riguardi, tenesse di conto parenti, coltivasse l’amicizia di persone alte, avesse una mano sulle bilance della giustizia, per farle a un bisogno traboccare dalla sua parte, o per farle sparire, o per darle anche, in qualche occasione, sulla testa di qualcheduno che in quel modo si potesse servir più facilmente che con l’armi della violenza privata. Ora, l’intrinsichezza, diciam meglio, una lega con un uomo di quella sorte, con un aperto nemico della forza pubblica, non gli avrebbe certamente fatto buon gioco a ciò, specialmente presso il conte zio. Però quel tanto d’una tale amicizia che non era possibile di nascondere, poteva passare per una relazione indispensabile con un uomo la cui inimicizia era troppo pericolosa; e così ricevere scusa dalla necessità: giacché chi ha l’assunto di provvedere, e non n’ha la volontà, o non ne trova il verso, alla lunga acconsente che altri provveda da sé, fino a un certo segno, a’ casi suoi; e se non acconsente espressamente, chiude un occhio.
Una mattina, don Rodrigo uscì a cavallo, in treno da caccia, con una piccola scorta di bravi a piedi; il Griso alla staffa, e quattro altri in coda; e s’avviò al castello dell’innominato.
