
Declinazioni particolari, antecedente pronominale e prolessi del relativo latino
28 Dicembre 2019
La morte di Palinuro Eneide, V, vv. 816-871
28 Dicembre 2019Analisi del Testo di Nedda di Giovanni Verga (“Vita dei Campi” (1880), focalizzandoci sui primi paragrafi significativi, che ci introducono alla cornice narrativa e al personaggio di Nedda.
Analisi del Testo: “Nedda” di Giovanni Verga
Introduzione al Testo e alla Voce Narrante
Il brano inizia con una lunga e dettagliata digressione sul focolare domestico, elemento che apparentemente si discosta dalla narrazione principale ma che, in realtà, funge da cruciale cornice narrativa e tematica. La voce narrante, che si rivela essere quella dell’autore o di un suo alter ego, espone una riflessione personale e quasi filosofica sul rapporto con il fuoco, trasformandolo da mera figura retorica a un “amico” ambivalente, “necessario, a volte uggioso e dispotico”. Questa introduzione è fondamentale per diverse ragioni:
- Impostazione Verista: Nonostante l’inizio sembri soggettivo e lirico, il modo in cui il narratore si “inizia” ai misteri del focolare e ne descrive le sensazioni (“voluttuosa pigrizia”, “faville fuggenti… come farfalle innamorate”) è un modo per connettere il mondo interiore, intellettuale, con la realtà più materiale e sensoriale. Il “passatempo di stuzzicare la legna” e l’osservazione delle fiamme diventano un espediente per l’introspezione e la meditazione.
- Tecnica del Regresso e dell’Impersonalità: Il narratore si cala gradualmente in un’ottica più umile e quotidiana. La sua iniziale distanza intellettuale dal “focolare domestico” (“figura rettorica”) viene superata dall’esperienza diretta. Questa discesa nell’umano e nel concreto prepara il terreno per l’immersione nel mondo dei personaggi, rappresentando un primo passo verso quella che sarà la tecnica dell’impersonalità verghiana, dove l’autore tende a “scomparire” per lasciare che i fatti parlino da sé.
- Funzione di Incipit: La descrizione del focolare non è fine a se stessa. Il passaggio “E in una di coteste peregrinazioni vagabonde dello spirito, la fiamma che scoppiettava, troppo vicina forse, mi fece rivedere un’altra fiamma gigantesca che avevo visto ardere nell’immenso focolare della fattoria del Pino, alle falde dell’Etna” segna il transito dalla riflessione personale alla rievocazione di un’esperienza passata e collettiva. È qui che si apre la finestra sul mondo rurale e sulla vita di Nedda.
Il Focolare della Fattoria del Pino: Scena Corale e Contesto
La scena si sposta bruscamente, ma con una transizione giustificata dal filo conduttore della fiamma, al “focolare della fattoria del Pino, alle falde dell’Etna”. Qui, il fuoco non è più un oggetto di contemplazione solitaria, ma il centro vitale di una comunità contadina durante una serata di pioggia e vento.
- Ambiente e Condizioni: “Pioveva, e il vento urlava incollerito”. L’ambiente è ostile, la pioggia e il vento simboleggiano le difficoltà e la durezza della vita contadina. Il fuoco diventa rifugio e necessità primordiale per le “venti o trenta donne che raccoglievano le olive”.
- Coro delle Olive: Le donne sono presentate come un gruppo eterogeneo, ma unito dalla fatica e dalla povertà. La distinzione tra “le allegre, quelle che avevano dei soldi in tasca, o quelle che erano innamorate” e “le altre” (che “ciarlavano della raccolta delle olive, che era stata cattiva, dei matrimoni della parrocchia, o della pioggia che rubava loro il pane di bocca”) è un primo indizio della stratificazione sociale ed economica e della varietà di fortune all’interno della comunità, un microcosmo della società verghiana.
- Dettagli Realistici: La “vecchia castalda filava”, il “grosso cane color di lupo allungava il muso”, il “pecoraio si mise a suonare certa arietta montanina”. Questi dettagli contribuiscono a creare un quadro vivido e realistico della vita contadina, ricca di particolari visivi e uditivi che immergono il lettore nell’ambiente.
- Scene di Vita Quotidiana: Il “ballo sull’ammattonato sconnesso della vasta cucina affumicata” e le “canzonette” introducono elementi di vitalità e spensieratezza, che tuttavia si riveleranno effimeri o superficiali rispetto alle reali condizioni di vita. L’immagine dei “cenci svolazzavano allegramente, e le fave ballavano anch’esse nella pentola” crea un parallelismo tra il movimento gioioso delle persone e l’ebollizione del cibo, un’armonia che precede il dramma.
L’Apparizione di Nedda: Silenzio e Rivelazione
È in questo contesto di allegria effimera e chiacchiere che emerge la figura di Nedda. La sua apparizione è graduale e contrastante rispetto al baccano generale.
- L’Invito e la Risposta: Le compagne la cercano: “Nedda! Nedda la varannisa!” Il soprannome “varannisa” (della Varegna, ovvero del paese di Vareno, una località montuosa) la identifica immediatamente con la sua origine e con il mondo rurale più aspro. La sua risposta è “una voce breve dall’angolo più buio, dove s’era accoccolata una ragazza su di un fascio di legna”. Il suo posizionamento fisico (“angolo più buio”, “accoccolata”) suggerisce fin da subito un senso di marginalità, solitudine e vulnerabilità.
- Silenzio e Rifiuto: Alle domande delle compagne (“O che fai tu costà?”, “Perché non hai ballato?”, “Cantaci una delle tue belle canzonette?”) Nedda risponde con monosillabi e rifiuti (“Nulla”, “Perché son stanca”, “No, non voglio cantare”). Questo silenzio ostinato e la sua apparente passività la distinguono nettamente dalle altre donne, rivelando un peso interiore che la isola.
- La Rivelazione del Dolore: La verità sul suo stato è rivelata da una compagna in modo brusco e quasi indifferente: “Ha la mamma che sta per morire, – rispose una delle sue compagne, come se avesse detto che aveva male ai denti.” Questa frase è un esempio lampante dell’indifferenza crudele e della durezza del vivere che caratterizza il mondo verghiano. La sofferenza è così diffusa e quotidiana da essere banalizzata, quasi normalizzata.
- Gli Occhi di Nedda: La reazione di Nedda è significativa: “alzò su quella che aveva parlato certi occhioni neri, scintillanti, ma asciutti, quasi impassibili, e tornò a chinarli, senza aprir bocca, sui suoi piedi nudi.” Gli occhi, “scintillanti ma asciutti”, rivelano una sofferenza così profonda da non potersi esprimere con le lacrime. L’impassibilità apparente è una maschera di fronte a un dolore troppo grande per essere manifestato apertamente, simbolo di una dignità muta e di una rassegnazione.
Il Dialogo e l’Espressione della Sofferenza
Il dialogo successivo con le compagne e poi con lo zio Giovanni approfondisce il dramma di Nedda.
- Il Sacrificio: “O allora perché hai lasciato tua madre? – Per trovar del lavoro.” Questa battuta rivela il sacrificio compiuto da Nedda: ha abbandonato la madre morente per cercare di guadagnare il pane, una scelta dettata dalla disperazione e dalla necessità impellente.
- L’Indifferenza Sociale: La battuta della “spiritosa”, la figlioccia del castaldo, “Eh! non è lontano! la cattiva nuova dovrebbe recartela proprio l’uccello”, è un esempio di cinismo e insensibilità tipici di un ambiente dove la lotta per la sopravvivenza rende le persone egoiste e indifferenti alla sofferenza altrui. La reazione di Nedda, “un’occhiata simile a quella che il cane accovacciato dinanzi al fuoco lanciava agli zoccoli che minacciavano la sua coda”, la paragona a un animale ferito che difende la sua vulnerabilità, sottolineando la sua condizione quasi bestiale, primitiva, nella lotta per la sopravvivenza.
- L’Onere Economico e la Frustrazione: Nedda rivela la sua situazione economica disperata: “Lo zio Giovanni non è ricco, e gli dobbiamo diggià dieci lire! E il medico? e le medicine? e il pane di ogni giorno? Ah! si fa presto a dire!” Qui la sua voce rude si fa “più dolente”, e per la prima volta si lascia andare a uno sfogo che rivela la tragica realtà della povertà. La sua descrizione di “vader tramontare il sole dall’uscio, pensando che non c’è pane nell’armadio, né olio nella lucerna, né lavoro per l’indomani” è una delle prime, potenti, rappresentazioni verghiane della miseria come condizione esistenziale che annienta la speranza.
- Dolore Inespresso: Nonostante lo sfogo, Nedda continua a scuotere il capo “senza guardar nessuno, con occhi aridi, asciutti, che tradivano tale inconscio dolore, quale gli occhi più abituati alle lagrime non s’aprebbero esprimere.” Questa è una descrizione chiave del Verismo: il dolore è così profondo da essere “inconscio”, al di là della capacità di espressione emotiva, reso muto dalla rassegnazione e dalla durezza della vita. Non c’è spazio per il lamento estetizzante.
La Fisionomia di Nedda: Il Segno della Miseria
La descrizione fisica di Nedda è uno degli elementi più rappresentativi della poetica verghiana, in particolare per il suo rapporto con l’ambiente e la condizione sociale.
- Bellezza Negata: “Era una ragazza bruna, vestita miseramente; aveva quell’attitudine timida e ruvida che danno la miseria e l’isolamento. Forse sarebbe stata bella, se gli stenti e le fatiche non ne avessero alterato profondamente non solo le sembianze gentili della donna, ma direi anche la forma umana.” La bellezza potenziale di Nedda è stata cancellata, “alterata profondamente” dalla miseria. Il corpo non è più solo il veicolo dell’anima, ma la mappa visibile delle sofferenze e delle privazioni. La frase “ma direi anche la forma umana” è potentissima: la miseria la deforma al punto da renderla quasi meno che umana, un’entità schiacciata dalla vita.
- Dettagli Rivelatori:
- Capelli: “neri, folti, arruffati, appena annodati con dello spago”: segno di trascuratezza forzata dalla miseria.
- Denti: “bianchi come avorio”: un unico elemento di bellezza naturale che contrasta con la deformazione generale.
- Occhi: “neri, grandi, nuotanti in un fluido azzurrino, quali li avrebbe invidiati una regina… se non fossero stati offuscati dall’ombrosa timidezza della miseria, o non fossero sembrati stupidi per una triste e continua rassegnazione.” Gli occhi, specchio dell’anima, sono qui l’unica finestra su una bellezza non del tutto sopita, ma offuscata. Il “fluido azzurrino” suggerisce una profondità, ma l’offuscamento e la “triste e continua rassegnazione” ne annullano la vitalità, rendendoli quasi “stupidi”, privi di espressione a causa dell’abitudine al dolore.
- Membri: “schiacciate da pesi enormi, o sviluppate violentemente da sforzi penosi, erano diventate grossolane, senza esser robuste.” La descrizione del corpo di Nedda è impietosa. La fatica non ha generato forza, ma solo deformazione. Le sue mani e i suoi piedi, nonostante la fatica, non avrebbero potuto essere “belli”, sono induriti e lacerati.
- Il Lavoro e la Condizione Femminile: Nedda “faceva da manovale”, “trasportare sassi”, “portava dei carichi in città”, “faceva di quegli altri lavori più duri che da quelle parti stimansi inferiori al còmpito dell’uomo”. Questo sottolinea non solo la sua estrema povertà, ma anche la sua posizione di emarginazione nel mondo del lavoro, costretta a svolgere mansioni maschili o considerate infime per guadagnare pochi soldi. Le vendemmie, la messe, le raccolte delle olive, che per altri sono “feste”, per lei fruttano “appena la metà di una buona giornata estiva da manovale”, sottolineando la sproporzione tra fatica e guadagno.
- Miseria Ereditaria: “Nessuno avrebbe potuto dire quanti anni avesse cotesta creatura umana; la miseria l’aveva schiacciata da bambina… – Così era stato di sua madre, così di sua nonna, così sarebbe stato di sua figlia.” Questa è una delle affermazioni più potenti e premonitrici del Verismo. La miseria non è un incidente, ma una condizione genetica, ereditaria, che si tramanda di generazione in generazione, deformando “corpo, anima e intelligenza”. È un destino ineluttabile che schiaccia l’individuo.
Il Pasto e la Solidarietà Negata
La scena del pasto è un altro momento significativo di rivelazione delle condizioni e delle dinamiche sociali.
- La Scodella di Fave: La distribuzione delle fave è un atto di “paziente parsimonia”. Nedda “aspettava ultima, colla sua scodelletta sotto il braccio”, sottolineando ancora una volta la sua posizione di inferiorità e marginalità. La battuta della castalda (“Non sai che gli ultimi hanno quel che avanza?”) è una conferma della logica di sopravvivenza in cui il più debole è sempre penalizzato.
- La Dieta della Miseria: Nedda si accontenta della “broda nera” e della “sola minestra” perché “ci sono avvezza”. Questa abitudine alla privazione è un’ulteriore conferma della sua condizione disperata.
- L’Impossibilità della Solidarietà: La compagna che “aveva miglior cuore” vorrebbe darle delle sue fave, ma subito si ritrae per la paura del “domani”: “se domani continuasse a piovere… davvero!… oltre a perdere la mia giornata non vorrei anche mangiare tutto il mio pane.” Questo episodio è cruciale: mostra come, nonostante una possibile buona intenzione, la durezza della vita impedisca una vera solidarietà tra pari. La paura di perdere il proprio “pane” prevale sulla compassione, un altro aspetto chiave del Verismo dove l’egoismo è dettato dalla necessità di sopravvivere. Nedda stessa, con un “triste sorriso”, afferma “non ho questo timore! […] Perché non ho pane di mio.” La sua rassegnazione è tale che non ha nulla da perdere.
La Preghiera e il Cammino Solitario
La preghiera del rosario e il successivo ritorno di Nedda a casa sono momenti di profonda introspezione e ulteriore rivelazione.
- Fede e Rassegnazione: Le “avemarie si seguirono col loro monotono brontolio, accompagnate da qualche sbadiglio”. La fede, pur presente, si mescola alla stanchezza e alla routine. Gli occhi di Nedda si riempiono di lacrime solo quando si prega per i vivi e per i morti, associando la preghiera al dolore personale. La sua dimenticanza di rispondere “amen” e la spiegazione successiva (“Pensava alla mia povera mamma che è tanto lontana”) rivelano la sua costante preoccupazione per la madre, che sovrasta ogni altro pensiero o rituale.
- Il Viaggio Notturno: La decisione di Nedda di tornare a casa subito, nonostante l’oscurità e la paura (“Sì, ho paura per questi soldi che ho in tasca; ma la mamma sta male”), evidenzia la sua incrollabile devozione filiale e la sua determinazione. Il suo viaggio è solitario e pericoloso: cammina “a capo chino”, canta “come un uccelletto spaventato”, si ferma “tutta tremante, come una capretta sbrancata”. Le presenze amichevoli (l’assiolo che la “seguiva d’albero in albero col suo canto lamentoso”) e i brevi momenti di conforto (la cappelletta, il “lumicino” che le dà coraggio e la fa pregare) servono a sottolineare la sua fragilità e la sua ricerca di appigli in un mondo ostile.
- Allucinazioni e Speranze: La fatica e la preoccupazione le fanno “inciampare in una scheggia di lava”, ma il suono dell’orologio di Punta le infonde coraggio, quasi un “amico l’avesse chiamata per nome”. Questo è un momento di speranza fugace, quasi una breve allucinazione uditiva che le permette di proseguire. I quaranta soldi stretti in mano sono il simbolo concreto del suo sacrificio e della sua speranza di salvare la madre.
Incontro con Janu e l’Epilogo Immediato
L’incontro con Janu e la scena che segue la morte della madre concludono questa prima parte.
- Janu, il Fidanzato: La voce nota di Janu porta una momentanea distensione. Il loro dialogo è breve, quasi telegrafico, tipico del linguaggio essenziale dei contadini. La conferma che la madre “sta al solito” è una magra consolazione per Nedda, ma la sua reazione (“Che Dio ti benedica! – esclamò la ragazza come se avesse temuto il peggio”) rivela la sua costante ansia.
- La Morte della Madre: Il ritorno a casa e la scena della morte sono gestiti con la tipica asciuttezza verghiana. La visita del medico, del curato, del sagrestano e delle comari sono descritte con un distacco che ne enfatizza la ritualità e la loro impotenza di fronte alla miseria e alla morte. La preoccupazione di Nedda di nascondere la mancanza delle lenzuola e di piegare il grembiule più bello sul deschetto zoppo è un dettaglio che rivela una dignità estrema nella povertà.
- Lo Zio Giovanni: La figura dello zio Giovanni è complessa. Inizialmente “economo e brontolone”, quasi cinico (“Ancora medicine!… loro fanno a metà collo speziale, per dissanguare la povera gente!”), si rivela poi un personaggio di rara umanità e solidarietà. Il suo gesto di andare dallo speziale al posto di Nedda e di portare il pane sono atti di vera carità, una luce di speranza e aiuto in un mondo dominato dalla durezza. La scena in cui Nedda non vuole dargli i soldi subito, e lui rimanda il pagamento, è un momento di grande delicatezza e mutuo rispetto.
- L’Ultima Toccante Immagine: “Quando Nedda ebbe acconciato la morta nella bara, coi suoi migliori abiti, le mise tra le mani un garofano che aveva fiorito dentro una pentola fessa, e la più bella treccia dei suoi capelli”. Questo gesto è di una poeticità straziante. Il garofano nato in una “pentola fessa” simboleggia la bellezza che può nascere anche nella miseria più desolante, e la treccia di capelli è l’estremo sacrificio di sé per onorare la madre.
- Il Pettirosso e la Rassegnazione Finale: Nedda si siede sulla soglia “guardando il cielo”. Il pettirosso che canta e le gazze che beccano le olive, prima scacciate, ora sono osservate con impassibilità. Questo indica una rassegnazione profonda. Il suono dell’Avemaria e la stella della sera, che prima la spingevano a correre per la medicina, ora non hanno più quello scopo: “non aveva più bisogno d’accendere il lume”. La morte della madre, pur lacerante, ha portato anche la fine di una corsa disperata.
Il Giudizio Sociale e la Forza di Nedda
Gli ultimi paragrafi analizzati rivelano la durezza del giudizio sociale e la straordinaria forza interiore di Nedda.
- Il Giudizio del Villaggio: Le ragazze del villaggio “sparlarono di lei perché andò a lavorare subito il giorno dopo la morte della sua vecchia, e perché non aveva messo il bruno”. Anche il curato la sgrida per non aver rispettato le convenzioni del lutto e del riposo festivo. Questo evidenzia l’ipocrisia di una società più attenta alle apparenze e alle tradizioni che alla reale sofferenza o alle necessità economiche. La povertà di Nedda non le permette di rispettare queste norme sociali, ed è per questo che viene giudicata.
- L’Umile Sacrificio per la Fede: Per “farsi perdonare il suo grosso peccato” (quello di lavorare di domenica), Nedda lavora due giorni nel campo del curato. Questo gesto è un ulteriore segno della sua profonda religiosità popolare e della sua volontà di conformarsi, per quanto possibile, alle aspettative, anche se a costo di ulteriore fatica.
- La Dignità nella Sofferenza: Nonostante le derisioni delle ragazze e le “facezie grossolane” dei giovanotti, Nedda “si stringeva nella sua mantellina tutta lacera, e affrettava il passo, chinando gli occhi, senza che un pensiero amaro venisse a turbare la serenità della sua preghiera”. Questo è un punto culminante della sua caratterizzazione. La sua preghiera è autentica, non turbata dalla cattiveria altrui. Le sue repliche (“Son così povera!” o “Benedetto il Signore che me le ha date!”) mostrano una dignità rassegnata, una coscienza della propria condizione e una forza d’animo quasi sovrumana, che le permette di sorridere anche nella miseria più nera, benedendo le sue braccia, uniche sue risorse.
L’Amore con Janu: Una Breve Illusione
L’incontro con Janu e l’inizio del loro rapporto d’amore sono un breve raggio di luce nella vita di Nedda, ma già intrisi di presagi negativi.
- Il Ritornello d’Amore: La canzone di Janu, “Picca cci voli ca la vaju’ a viju. A la mi’ amanti di l’arma mia!”, è un classico stornello popolare che evoca la passione e la ricerca dell’amata. La reazione di Nedda (“il cuore le balzava dal petto come un uccello spaventato”) rivela la sua emozione, ma anche una certa paura o incertezza.
- Il Ritratto di Janu: Janu è presentato come un giovane robusto, con il “bel vestito nuovo di fustagno” e il “fazzoletto di seta nuova fiammante”, che indicano un tentativo di apparire al meglio, un piccolo segno di civetteria e di benessere (seppur modesto). I suoi “occhioni neri e vispi” e le “grosse mani nere e incallite al lavoro” lo identificano immediatamente come un uomo del popolo, dedito alla fatica.
- La Disoccupazione: La prima battuta significativa di Janu è: “Il padrone m’ha licenziato. […] Perché avevo preso le febbri laggiù, e non potevo più lavorare che tre giorni per settimana.” Questa è una delle prime, chiare, manifestazioni della logica spietata del mondo del lavoro verghiano: la debolezza fisica, la malattia, sono causa immediata di licenziamento. La terra non perdona la fragilità umana. Questo getta un’ombra fin dall’inizio sulla possibilità di un futuro sereno per la coppia.
- L’Idillio Turbato: La scena dell’orticello, con i mandorli fioriti e la passera che “schiamazzava” e “minacciava a suo modo Janu”, è un esempio di paesaggio naturalistico che riflette e talvolta preannuncia lo stato d’animo dei personaggi. La bellezza della natura è contrapposta alla dura realtà della vita umana.
- La Scodella e il Fazzoletto: L’episodio del fazzoletto di seta è un momento di grande delicatezza. Janu lo offre a Nedda come segno del suo affetto, un “dono” che “non ti costa nulla”. La reazione di Nedda (“Oh! com’è bello! ma questo non fa per me! […] Ella si fece rossa, come se la grossa spesa le avesse dato idea dei caldi sentimenti del giovane, gli lanciò, sorridente, un’occhiata fra carezzevole e selvaggia, e scappò in casa”) rivela la sua pudicizia, la sua consapevolezza della propria miseria che la rende restia ad accettare un lusso così superfluo, ma anche la sua emozione e la sua accettazione del sentimento di Janu. L’occhiata “fra carezzevole e selvaggia” riprende la dualità della sua natura già vista all’inizio, mostrando come, anche nell’amore, la sua essenza rimanga legata alla sua condizione.
Questo incipit di “Nedda” è un capolavoro di Verga, che riesce a presentare in pochi paragrafi il contesto, i personaggi, le dinamiche sociali e i temi fondamentali della sua poetica: la miseria, la rassegnazione, la durezza della vita, l’indifferenza sociale, e la dignità umana che resiste nonostante tutto.