Testo Latino
Postquam altum tenuere rates nec iam amplius ullae
apparent terrae, caelum undique et undique pontus,
tum mihi caeruleus supra caput astitit imber
noctem hiememque ferens, et inhorruit unda tenebris. 195
continuo uenti uoluunt mare magnaque surgunt
aequora, dispersi iactamur gurgite uasto;
inuoluere diem nimbi et nox umida caelum
abstulit, ingeminant abruptis nubibus ignes,
excutimur cursu et caecis erramus in undis. 200
ipse diem noctemque negat discernere caelo
nec meminisse uiae media Palinurus in unda.
tris adeo incertos caeca caligine soles
erramus pelago, totidem sine sidere noctes.
quarto terra die primum se attollere tandem 205
uisa, aperire procul montis ac uoluere fumum.
uela cadunt, remis insurgimus; haud mora, nautae
adnixi torquent spumas et caerula uerrunt.
seruatum ex undis Strophadum me litora primum
excipiunt. Strophades Graio stant nomine dictae 210
insulae Ionio in magno, quas dira Celaeno
Harpyiaeque colunt aliae, Phineia postquam
clausa domus mensasque metu liquere priores.
tristius haud illis monstrum, nec saeuior ulla
pestis et ira deum Stygiis sese extulit undis. 215
uirginei uolucrum uultus, foedissima uentris
proluuies uncaeque manus et pallida semper
ora fame.
huc ubi delati portus intrauimus, ecce
laeta boum passim campis armenta uidemus 220
caprigenumque pecus nullo custode per herbas.
inruimus ferro et diuos ipsumque uocamus
in partem praedamque Iouem; tum litore curuo
exstruimusque toros dapibusque epulamur opimis.
at subitae horrifico lapsu de montibus adsunt 225
Harpyiae et magnis quatiunt clangoribus alas,
diripiuntque dapes contactuque omnia foedant
immundo; tum uox taetrum dira inter odorem.
rursum in secessu longo sub rupe cauata
[arboribus clausam circum atque horrentibus umbris] 230
instruimus mensas arisque reponimus ignem;
rursum ex diuerso caeli caecisque latebris
turba sonans praedam pedibus circumuolat uncis,
polluit ore dapes. sociis tunc arma capessant
edico, et dira bellum cum gente gerendum. 235
haud secus ac iussi faciunt tectosque per herbam
disponunt ensis et scuta latentia condunt.
ergo ubi delapsae sonitum per curua dedere
litora, dat signum specula Misenus ab alta
aere cauo. inuadunt socii et noua proelia temptant, 240
obscenas pelagi ferro foedare uolucris.
sed neque uim plumis ullam nec uulnera tergo
accipiunt, celerique fuga sub sidera lapsae
semesam praedam et uestigia foeda relinquunt.
una in praecelsa consedit rupe Celaeno, 245
infelix uates, rumpitque hanc pectore uocem;
‘bellum etiam pro caede boum stratisque iuuencis,
Laomedontiadae, bellumne inferre paratis
et patrio Harpyias insontis pellere regno?
accipite ergo animis atque haec mea figite dicta, 250
quae Phoebo pater omnipotens, mihi Phoebus Apollo
praedixit, uobis Furiarum ego maxima pando.
Italiam cursu petitis uentisque uocatis:
ibitis Italiam portusque intrare licebit.
sed non ante datam cingetis moenibus urbem 255
quam uos dira fames nostraeque iniuria caedis
ambesas subigat malis absumere mensas.’
dixit, et in siluam pennis ablata refugit.
at sociis subita gelidus formidine sanguis
deriguit: cecidere animi, nec iam amplius armis, 260
sed uotis precibusque iubent exposcere pacem,
siue deae seu sint dirae obscenaeque uolucres.
et pater Anchises passis de litore palmis
numina magna uocat meritosque indicit honores:
‘di, prohibete minas; di, talem auertite casum 265
et placidi seruate pios.’ tum litore funem
deripere excussosque iubet laxare rudentis.
tendunt uela Noti: fugimus spumantibus undis
qua cursum uentusque gubernatorque uocabat. |
Traduzione Italiana
Dopo che le nostre navi ebbero lasciato il largo e nessuna terra
appariva più all’orizzonte, intorno era solo cielo e mare da ogni parte,
ecco sopra il mio capo abbattersi una pioggia oscura
che portava notte e inverno, e l’onda rabbrividì nell’oscurità. (195)
Subito i venti sollevano il mare e onde immense si alzano;
siamo sballottati qua e là nel vasto vortice.
Le nuvole avvolsero il giorno e la notte bagnata coprì il cielo,
lampi gemelli squarciano le nubi aperte,
siamo scossi dal vento e vaghiamo alla cieca tra le onde. (200)
Lo stesso cielo non distingue giorno e notte,
e neppure Palinuro ricorda la rotta in mezzo al mare.
Tre giorni interi, avvolti nella nebbia fitta,
errammo sul mare, e tre notti senza stelle.
Il quarto giorno, finalmente, la terra si levò all’orizzonte, (205)
vedemmo da lontano i monti aprirsi e alzarsi il fumo.
Caliamo le vele, remiamo forte; i marinai non esitano,
spingono le navi con forza, solcando schiuma e onde azzurre.
Le spiagge delle Strofadi furono le prime a salvarmi dal mare.
Le Strofadi sono isole così chiamate in greco, (210)
poste nel gran mare ionio, dove la crudele Celaeno
e altre Arpie vivono, dopo che uscirono dalla casa di Fineo
e abbandonarono i banchetti per timore.
Nessun mostro fu mai più triste né alcuna peste
più crudele mostrò la sua ira divina dalle acque dello Stige. (215)
Hanno sembianze di uccelli vergini, ma viscere orrende,
mani artigliate e sempre volti pallidi per la fame.
Giunti qui, entrati nel porto, ecco
che vediamo pascolare liberamente nelle pianure
armenti e greggi caprini, senza alcun pastore. (220)
Ci precipitiamo su di essi con le armi e invochiamo addirittura
Giove come partecipe del bottino; lungo la costa curva
allestiamo i banchi e ci godiamo cibi ricchi e abbondanti.
Ma improvvisamente, con fragore orrendo, dalle montagne (225)
giungono le Arpie, agitando ali gigantesche,
rapiscono il cibo e lo contaminano con tocco impuro;
mentre urlano, diffondono un fetore orribile.
Ancora una volta, in un luogo riparato sotto una rupe scavata,
[circondata da alberi e ombre tremende], (230)
apparecchiamo la tavola e riaccendiamo il fuoco sugli altari;
ma di nuovo, da un punto oscuro del cielo,
un nugolo rombante si getta sulla preda,
e con artigli lorda il cibo. Ordino ai compagni di prendere le armi
e di dichiarare guerra a quelle creature spaventose. (235)
Obbediscono e sistemano tra l’erba nascondigli coi ferri,
celando le spade.
Quando poi le Arpie, lanciandosi, fecero echeggiare il suono
sulle coste curve, Misenus diede il segnale dall’alto
con il corno vuoto. I compagni avanzano e tentano nuovi combattimenti, (240)
cercando di macchiare il mare con il ferro contro quegli uccellacci.
Ma esse non ricevono colpi né ferite sul dorso,
e veloci fuggono verso il cielo, lasciando
a metà il bottino e tracce disgustose.
Una, Celeno, si posò su una roccia elevata, (245)
indovina sventurata, e lanciò queste parole dal cuore:
«Voi, discendenti di Laomede, preparate forse guerra
anche per la morte dei buoi e dei giovani tori uccisi,
e volete scacciare noi Arpie innocenti dal nostro regno?
Ebbene, ascoltate e conservate bene le mie parole, (250)
che il padre onnipotente Apollo predisse a lui,
e io, la più grande Furia, rivelo a voi:
Voi cercate l’Italia spinti dai venti:
vi sarà concesso di giungere in Italia e approdare nei suoi porti.
Ma non prima che la fame crudele e l’offesa (255)
per il vostro crimine vi costringa, affamati,
a mangiare persino le mense sotto di voi».
Così disse e, rapida con le ali, fuggì tra le selve.
Ai miei compagni il sangue si gelò per improvvisa paura:
i loro cuori caddero, e non pensarono più alle armi, (260)
ma preghe e voti chiesero per ottenere pace,
fossero dee o spettri o uccelli impuri.
E il padre Anchise, con palme tese verso il mare,
invocò le grandi divinità e promise onori meritati:
«Dèi, fermate questi mali; Dèi, allontanate questo destino (265)
e, placati, salvate chi è devoto.» Poi ordinò
di strappare le funi e sciogliere gli ormeggi.
Le vele si gonfiarono: fuggimmo tra onde schiumanti
là dove il vento e il nocchiero ci guidavano. (269) |