
Il capitolo terzo dei Promessi Sposi
28 Dicembre 2019
I discendenti di Enea, prima parte, Eneide, VI, 752-797
28 Dicembre 2019
Analisi del brano dal capitolo III dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, che riguarda il racconto della molestia subita da Lucia da parte di don Rodrigo, il turbamento di Renzo e Agnese, e la decisione di rivolgersi a un “avvocato” – il dottor Azzecca-garbugli.
📚 Contesto
Il brano si colloca nel cuore del capitolo III, quando Lucia, tornata dalla visita al convento di padre Cristoforo, racconta finalmente a Renzo e Agnese la ragione della sua preoccupazione: l’interesse malevolo di don Rodrigo, potente signorotto del luogo, nei suoi confronti. Questo è il primo vero snodo della trama e segna il passaggio da una situazione idilliaca a una di tensione narrativa.
🧩 Temi principali
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Oppressione e ingiustizia sociale
Il potere di don Rodrigo è tale che nessuno osa opporglisi apertamente. La violenza che può esercitare, anche solo potenziale, basta a generare paura, prudenza e segretezza. Lucia infatti non confida nulla nemmeno alla madre. -
La fragilità dei poveri e l’impotenza della legge
Lucia dice: “Il Signore c’è anche per i poveri” – ma lo Stato, la giustizia terrena, non c’è. La stessa decisione di rivolgersi al dottor Azzecca-garbugli si accompagna a offerte (i capponi) e timori di gaffe verbali (“non lo chiamate così!”). -
La tensione tra verità e silenzio
Lucia ha taciuto per prudenza e rispetto: è il tema manzoniano della parola negata, del dolore trattenuto per proteggere gli altri. -
Il ruolo delle donne
Agnese è qui la vera “regista” pratica della situazione: consiglia, media, individua la via d’uscita (o almeno crede). Lucia è delicata ma ferma nei valori. La femminilità è raffigurata come spazio morale e spirituale, mentre Renzo incarna l’impulsività e il desiderio di giustizia violenta.
✍️ Analisi stilistica e narrativa
1. Narrazione vivace e polifonica
Manzoni alterna:
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Narratore onnisciente (es. “tutt’e due si volsero a chi ne sapeva più di loro…”)
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Discorsi diretti e indiretti (si passa con naturalezza da riflessioni narrative a battute drammatiche, esclamative)
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Ironia leggera e amara (vedi la descrizione dei capponi, o la figura dell’Azzecca-garbugli)
2. Realismo psicologico
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Lucia è delicata e razionale: racconta con pudore e rispetto, arrossisce, cerca di non accusare nessuno apertamente.
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Renzo è viscerale e impulsivo: grida, agita il coltello, corre nella stanza.
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Agnese è pratica e concreta: usa proverbi (“il diavolo non è brutto quanto si dipinge”), ha un piano, riconosce il valore delle relazioni sociali.
3. Figure retoriche e stile manzoniano
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Apostrofi ed esclamazioni: “Ah birbone! ah dannato! ah assassino!” → tono emotivo diretto.
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Antitesi: tra la festa dei vestiti da nozze e la tristezza del momento → “faceva un tristo contrapposto alla pompa festiva de’ loro abiti”.
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Metafore e paragoni popolari: es. “più impicciato che un pulcin nella stoppa”, “le matasse paion più imbrogliate”.
🔎 Simboli e motivi ricorrenti
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La paura della strada → esprime la perdita dell’innocenza e la minaccia che incombe.
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Il padre Cristoforo → figura spirituale e protettiva, simbolo della chiesa buona.
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I capponi → metafora tragicomica dei poveri che, legati e spenzolanti, litigano tra loro invece di unirsi contro l’oppressore.
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Il coltello di Renzo → simbolo dell’istinto di giustizia che può sfociare in vendetta.
🧠 Interpretazione critica
Questo brano è fondamentale perché:
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Segna l’innesco del conflitto centrale tra i protagonisti e l’oppressore.
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Mostra come il male non agisce apertamente, ma per allusioni, scommesse, intimidazioni.
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Rivela il dislivello tra potere e giustizia: i poveri, per difendersi, devono confidare in parentele, espedienti, favori, capponi, santi e avvocati.
Manzoni riesce a coniugare dramma, umorismo e pathos in un capitolo che ha il sapore del teatro e la precisione della cronaca, ma è anche un affresco umano di straordinaria ricchezza.
Testo della prima parte del terzo capitolo dei Promessi Sposi

CAPITOLO III.
Lucia entrò nella stanza terrena, mentre Renzo stava angosciosamente informando Agnese, la quale angosciosamente lo ascoltava. Tutt’e due si volsero a chi ne sapeva più di loro, e da cui aspettavano uno schiarimento, il quale non poteva essere che doloroso: tutt’e due, lasciando travedere, in mezzo al dolore, e con l’amore diverso che ognun d’essi portava a Lucia, un cruccio pur diverso perché avesse taciuto loro qualche cosa, e una tal cosa. Agnese, benché ansiosa di sentir parlare la figlia, non poté tenersi di non farle un rimprovero. “A tua madre non dir niente d’una cosa simile!”
“Ora vi dirò tutto,” rispose Lucia, asciugandosi gli occhi col grembiule.
“Parla, parla! — Parlate, parlate!” gridarono a un tratto la madre e lo sposo.
“Santissima Vergine!” esclamò Lucia: “chi avrebbe creduto che le cose potessero arrivare a questo segno!” E, con voce rotta dal pianto, raccontò come, pochi giorni prima, mentre tornava dalla filanda, ed era rimasta indietro dalle sue compagne, le era passato innanzi don Rodrigo, in compagnia d’un altro signore; che il primo aveva cercato di trattenerla con chiacchiere, com’ella diceva, non punto belle; ma essa, senza dargli retta, aveva affrettato il passo, e raggiunte le compagne; e intanto aveva sentito quell’altro signore rider forte, e don Rodrigo dire: scommettiamo. Il giorno dopo, coloro s’eran trovati ancora sulla strada; ma Lucia era nel mezzo delle compagne, con gli occhi bassi; e l’altro signore sghignazzava, e don Rodrigo diceva: vedremo, vedremo. “Per grazia del cielo,” continuò Lucia, “quel giorno era l’ultimo della filanda. Io raccontai subito….”
“A chi hai raccontato?” domandò Agnese, andando incontro, non senza un po’ di sdegno, al nome del confidente preferito.
“Al padre Cristoforo, in confessione, mamma,” rispose Lucia, con un accento soave di scusa. “Gli raccontai tutto, l’ultima volta che siamo andate insieme alla chiesa del convento: e, se vi ricordate, quella mattina, io andava mettendo mano ora a una cosa, ora a un’altra, per indugiare, tanto che passasse altra gente del paese avviata a quella volta, e far la strada in compagnia con loro; perché, dopo quell’incontro, le strade mi facevan tanta paura…”
Al nome riverito del padre Cristoforo, lo sdegno d’Agnese si raddolcì. “Hai fatto bene,” disse, “ma perché non raccontar tutto anche a tua madre?”
Lucia aveva avute due buone ragioni: l’una, di non contristare né spaventare la buona donna, per cosa alla quale essa non avrebbe potuto trovar rimedio; l’altra, di non metter a rischio di viaggiar per molte bocche una storia che voleva essere gelosamente sepolta: tanto più che Lucia sperava che le sue nozze avrebber troncata, sul principiare, quell’abbominata persecuzione. Di queste due ragioni però, non allegò che la prima.
“E a voi,” disse poi, rivolgendosi a Renzo, con quella voce che vuol far riconoscere a un amico che ha avuto torto: “e a voi doveva io parlar di questo? Pur troppo lo sapete ora!”
“E che t’ha detto il padre?” domandò Agnese.
“M’ha detto che cercassi d’affrettar le nozze il più che potessi, e intanto stessi rinchiusa; che pregassi bene il Signore; e che sperava che colui, non vedendomi, non si curerebbe più di me. E fu allora che mi sforzai,” proseguì, rivolgendosi di nuovo a Renzo, senza alzargli però gli occhi in viso, e arrossendo tutta, “fu allora che feci la sfacciata, e che vi pregai io che procuraste di far presto, e di concludere prima del tempo che s’era stabilito. Chi sa cosa avrete pensato di me! Ma io facevo per bene, ed ero stata consigliata, e tenevo per certo… e questa mattina, ero tanto lontana da pensare…” Qui le parole furon troncate da un violento scoppio di pianto.
“Ah birbone! ah dannato! ah assassino!” gridava Renzo, correndo innanzi e indietro per la stanza, e stringendo di tanto in tanto il manico del suo coltello.
“Oh che imbroglio, per amor di Dio!” esclamava Agnese. Il giovine si fermò d’improvviso davanti a Lucia che piangeva; la guardò con un atto di tenerezza mesta e rabbiosa, e disse: “questa è l’ultima che fa quell’assassino.”
“Ah! no, Renzo, per amor del cielo!” gridò Lucia. “No, no, per amor del cielo! Il Signore c’è anche per i poveri; e come volete che ci aiuti, se facciam del male?”
“No, no, per amor del cielo!” ripeteva Agnese.
“Renzo,” disse Lucia, con un’aria di speranza e di risoluzione più tranquilla: “voi avete un mestiere, e io so lavorare: andiamo tanto lontano, che colui non senta più parlar di noi.”
“Ah Lucia! e poi? Non siamo ancora marito e moglie! Il curato vorrà farci la fede di stato libero? Un uomo come quello? Se fossimo maritati, oh allora…!”
Lucia si rimise a piangere: e tutt’e tre rimasero in silenzio, e in un abbattimento che faceva un tristo contrapposto alla pompa festiva de’ loro abiti.
“Sentite, figliuoli; date retta a me,” disse, dopo qualche momento, Agnese. “Io son venuta al mondo prima di voi; e il mondo lo conosco un poco. Non bisogna poi spaventarsi tanto: il diavolo non è brutto quanto si dipinge. A noi poverelli le matasse paion più imbrogliate, perché non sappiam trovarne il bandolo; ma alle volte un parere, una parolina d’un uomo che abbia studiato… so ben io quel che voglio dire. Fate a mio modo, Renzo; andate a Lecco; cercate del dottor Azzecca-garbugli, raccontategli… Ma non lo chiamate così, per amor del cielo: è un soprannome. Bisogna dire il signor dottor… Come si chiama, ora? Oh to’! non lo so il nome vero: lo chiaman tutti a quel modo. Basta, cercate di quel dottore alto, asciutto, pelato, col naso rosso, e una voglia di lampone sulla guancia.”

“Lo conosco di vista,” disse Renzo.
“Bene,” continuò Agnese: “quello è una cima d’uomo! Ho visto io più d’uno ch’era più impicciato che un pulcin nella stoppa, e non sapeva dove batter la testa, e, dopo essere stato un’ora a quattr’occhi col dottor Azzecca-garbugli (badate bene di non chiamarlo così!), l’ho visto, dico, ridersene. Pigliate quei quattro capponi, poveretti! a cui dovevo tirare il collo, per il banchetto di domenica, e portateglieli; perché non bisogna mai andar con le mani vote da que’ signori. Raccontategli tutto l’accaduto; e vedrete che vi dirà, su due piedi, di quelle cose che a noi non verrebbero in testa, a pensarci un anno.”
Renzo abbracciò molto volentieri questo parere; Lucia l’approvò; e Agnese, superba d’averlo dato, levò, a una a una, le povere bestie dalla stia, riunì le loro otto gambe, come se facesse un mazzetto di fiori, le avvolse e le strinse con uno spago, e le consegnò in mano a Renzo; il quale, date e ricevute parole di speranza, uscì dalla parte dell’orto, per non esser veduto da’ ragazzi, che gli correrebber dietro, gridando: lo sposo! lo sposo! Così, attraversando i campi o, come dicon colà, i luoghi, se n’andò per viottole, fremendo, ripensando alla [p. 51 modifica]sua disgrazia, e ruminando il discorso da fare al dottor Azzecca-garbugli. Lascio poi pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all’in giù, nella mano d’un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora l’alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per minaccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intanto s’ingegnavano a beccarsi l’una con l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura.

Continua con la Seconda parte del terzo capitolo dei Promessi Sposi
🎤🎧 Audio Lezioni, ascolta il podcast su Alessandro Manzoni del prof. Gaudio