
L’Apogeo della civiltà della polis e lo splendore di Atene
28 Dicembre 2019
Indicativo futuro semplice dei verbi attivi e passivi
28 Dicembre 2019La struggente e malinconica narrazione di Gianni Celati, intitolata “Bambini pendolari che si sono perduti”, è un gioiello della raccolta Narratori delle pianure.
L’autore, con il suo stile essenziale, ci regala un racconto simbolico e toccante che riflette su temi profondi come lo smarrimento esistenziale, la disillusione dell’infanzia e la ricerca di senso in un mondo di adulti spesso assenti o alienanti.
📌 Trama in sintesi
👦👧 Due bambini, costretti a viaggiare ogni fine settimana tra Codogno e Milano a causa della separazione dei genitori o per cure psicologiche, cominciano a esplorare la città nel tentativo di trovare qualcuno che non sia noioso. Con il tempo, però, la loro delusione cresce: tutti gli adulti, nelle loro pose, nei loro gesti, nelle loro parole, sembrano banali, egocentrici, vuoti.
🔍 Si lasciano guidare dalla curiosità: seguono sconosciuti per strada, registrano scommesse in un taccuino, assistono a episodi inquietanti (la morte di un vecchio, una sparatoria in un quartiere degradato, molestie da parte di un adulto apparentemente colto). Ogni evento conferma la loro idea che gli adulti siano “cretini”, incapaci di offrire autenticità.
🌫️ Il racconto culmina nella simbolica scena finale: insieme a una donna smarrita nella nebbia milanese, i due bambini si perdono in un paesaggio sempre più indistinto, sino a restare bloccati nel bianco totale, freddo e vuoto, incapaci di tornare indietro o di andare avanti.
🎯 Temi principali
-
🧭 Smarrimento e spaesamento: i bambini sono pendolari, ma anche erranti nella vita e nelle emozioni.
-
🧊 Alienazione metropolitana: la Milano descritta è fredda, anonima, fatta di individui che si ignorano o si ostentano.
-
🎭 Falsità degli adulti: gli adulti sono maschere, egocentrici o ipocriti; anche chi sembra simpatico si rivela meschino o pericoloso.
-
🌫️ La nebbia come simbolo: rappresenta la perdita di orientamento, l’opacità dell’esistenza, l’impossibilità di vedere un senso.
-
💭 Il dubbio esistenziale: “Allora è venuto loro il sospetto che la vita potesse essere tutta così”: il pensiero finale è il cuore della riflessione di Celati.
🗣️ Stile e tono
✍️ Lo stile di Celati è scarno, piano, quasi orale, con frasi brevi e un lessico quotidiano.
💬 Il tono è dimesso ma profondamente poetico, sospeso tra il realismo e la fiaba metropolitana, senza giudizi morali ma con una tristezza sottile e onnipresente.
🧩 Simboli e metafore
-
🚂 Il pendolarismo: simboleggia il passaggio, l’instabilità, l’assenza di un centro familiare solido.
-
📒 Il taccuino delle scommesse: illusione infantile di trovare verità attraverso un gioco, poi abbandonata.
-
👥 La donna perduta: specchio dei bambini stessi, simbolo della fragilità adulta e della confusione interiore.
-
🌫️ La nebbia: metafora potentissima dell’incomunicabilità, dell’assenza di senso, del perdersi nel nulla.
-
🏘️ I quartieri identici: metafora della ripetitività, della perdita dell’unicità, della spersonalizzazione moderna.
🧠 Commento finale
Celati ci racconta l’infanzia non come età spensierata, ma come tempo di grande lucidità, in cui i bambini vedono il vuoto che gli adulti cercano di nascondere con ruoli e maschere.
La loro è una ricerca di autenticità, che fallisce sempre, fino a culminare in un bianco totale, gelido e senza via d’uscita. In quella nebbia finale, non c’è più nulla da vedere, da dire, da sperare. Solo un freddo sospetto che il mondo degli adulti, e forse la vita stessa, possa essere tutta così. 🧊🌫️
Riflessione e giudizio finale
Un racconto che fa male ma illumina, che lascia addosso il gelo e la tenerezza di chi si è perso cercando semplicemente un po’ di verità.👦👧
📜 Testo di “Bambini pendolari che si sono perduti” dalla raccolta “Narratori delle pianure” di Gianni Celati
BAMBINI PENDOLARI CHE SI SONO PERDUTI
Salivano in treno a Codogno tutti i venerdì.
Il bambino andava a Milano perché i suoi genitori erano separati; doveva passare cinque giorni col padre a Codogno e il fine settimana a Milano con la madre.
La bambina andava a Milano perché era in cura da uno psicanalista, per un suggerimento di qualche dottore, che suo padre aveva trovato giustissimo.
Lei forse aveva 13 anni, lui forse 11.
Siccome a casa entrambi si annoiavano sempre a sentir parlare i loro genitori, s’erano formati l’idea che i genitori sono tutti noiosi.
Poi hanno sviluppato l’idea, giungendo alla conclusione che tutti gli adulti sono noiosi.
Infine alcune circostanze li hanno portati a credere che genitori e adulti, più che noiosi, sono cretini: veramente così cretini che non val la pena di badare a ciò che dicono o fanno.
È successo così.
Durante il fine settimana a Milano, i due bambini andavano in giro per vedere se riuscivano a individuare per strada qualcuno che non fosse noioso.
Ad esempio seguivano qualcuno sugli autobus o in metropolitana facendo scommesse:
“Scommettiamo che quello lì non è noioso.”
E tenevano i conteggi delle scommesse scritti su un taccuino.
Però poi si annoiavano moltissimo, soprattutto in metropolitana a osservare la gente che non sa mai dove mettersi perché ha sempre paura che gli altri la guardino.
O quelli che vogliono far capire agli altri che loro se ne infischiano di tutto.
O quelli che vogliono far capire agli altri che loro sono stanchissimi di tutto.
Queste cose facevano venir loro la malinconia.
Poi facevano venir loro la malinconia gli automobilisti che suonano il claxon per far vedere che loro hanno fretta.
Quelli per strada che spingono per far vedere che vanno per i fatti loro.
Quelli nei bar che discutono di cose che non interessano a nessuno, solo per far vedere come sanno parlare.
Quelli che ridono quando non c’è niente da ridere, solo per far vedere che hanno capito tutto.
Quelli nei negozi che guardano da un’altra parte, per far vedere che loro non hanno tempo da perdere.
Le donne che guardano da un’altra parte per far vedere che si lasciano ammirare.
In pratica tutto quello che vedevano andando in giro faceva venir loro la malinconia.
Ed era la stessa malinconia che veniva loro quando erano a casa e sentivano parlare i loro genitori o parenti.
A forza di annotare scommesse, hanno consumato il taccuino senza che nessuno dei due ne avesse mai vinta una, perché tutti gli adulti che vedevano erano noiosi.
Hanno seguito un vecchio che sembrava simpatico, fino in fondo a viale Corsica.
Ad un tratto il vecchio è crollato a terra.
Loro sono corsi a sollevarlo, ma il vecchio non li ascoltava ed era solo preoccupato per il suo cappotto:
“Mi sarò sporcato il cappotto di dietro,” diceva.
E siccome non badava a loro che gli chiedevano come stava e se poteva camminare, e invece pensava solo al suo cappotto, l’hanno piantato lì.
Dopo pochi passi il vecchio è crollato a terra di nuovo, e dei passanti hanno detto che era morto d’infarto.
Anche quel vecchio era noioso.
Un’altra volta hanno seguito per corso Magenta una donna tutta vestita di nero con grandi occhiali da sole, che al bambino sembrava simpatica.
Ma quando è arrivata a un posteggio e ha dato dei soldi al posteggiatore dicendo: “Tenga”, da come ha detto quell’unica parola loro hanno capito che era una donna noiosissima.
Tanto che al bambino è venuto il disgusto in bocca a pensarci.
Un’altra volta ancora hanno visto un tizio con l’aria da ubriaco, e l’hanno seguito in metropolitana fino a un quartiere di cui non dirò il nome.
In quel posto il tizio s’è andato a sedere su un gradino assieme ad altri che sembravano ubriachi come lui, e stavano lì tutti seduti con la testa che penzolava in avanti.
In quel momento si sono sentiti degli spari.
Poi qualcuno indicava una macchina che fuggiva e anche i bambini sono scappati a più non posso, temendo che sparassero ancora.
Mentre correvano una macchina s’è affiancata e un uomo ha detto: “Salite in fretta.”
In macchina hanno spiegato l’accaduto e l’uomo ha raccontato che in quel quartiere succedeva spesso che, quando quelli della mafia dovevano provare delle armi, passavano di lì e sparavano ai drogati seduti sul gradino.
L’uomo sembrava simpatico, e li ha invitati a cena a casa sua.
Abitava in un posto molto lontano ma bello, a ovest dell’aeroporto della Malpensa, dove c’è una centrale elettrica e intorno boschi dappertutto, case isolate tra i boschi.
I bambini hanno pensato fosse un professore, per i libri che riempivano quasi tutto un salone.
A tavola ha parlato per due ore di cose che loro non capivano, ed è parso loro più intelligente del normale.
Si sono addormentati mentre quello continuava ancora a parlare.
Un’ora dopo stavano scappando nella notte attraverso i boschi, perché quando s’erano addormentati quello aveva cominciato a toccare le gambe della bambina.
E dopo quando gli tiravano dei libri in testa lui faceva finta di ridere, dicendo: “Era uno scherzo.”
I due bambini mi hanno raccontato che quella volta sono scappati più che altro perché quell’adulto sembrava loro così cretino, da far venire anche lui il disgusto in bocca a pensarci.
Adesso erano già cambiati, dopo queste avventure.
Non facevano più il gioco delle scommesse scritte sul taccuino, ma andavano sempre a far dei giri nel fine settimana a Milano.
E una domenica di dicembre, andando a far dei giri in un quartiere di grandi palazzi condominiali appena costruiti, credo dalle parti di Monza, tra folate di nebbia hanno incontrato una donna che s’era perduta.
Era una donna di mezz’età, in tuta sportiva, con berretto di lana in testa.
Quella mattina era uscita a correre, e non riusciva più a trovare la strada per tornare a casa.
Faceva domande a tutti quelli che incontrava, dicendo di abitare in un lungo caseggiato come quelli che si vedevano in distanza, identici in tutto il quartiere.
I due bambini capitati lì per caso hanno sentito che ripeteva a tutti il nome della sua strada, aggiungendo ogni volta: “Fabbricato G, interno 38.”
S’era formato attorno a lei un capannello, e alcuni ragazzi indicavano una fila di caseggiati bianchi, come se sapessero dov’era il fabbricato G.
Subito dopo la donna si avviava in quella direzione, seguita da un corteo di ragazzi, signori col cane, gente in tenuta sportiva.
Anche i due bambini si sono accodati a quel corteo di soccorritori.
Arrivati sotto il peristilio d’un grandissimo fabbricato, che era effettivamente il fabbricato G, i soccorritori constatavano che il nome sul campanello dell’interno 38 non corrispondeva al nome della donna.
Così tutti hanno cominciato ad andarsene, sia perché la ricerca era finita, sia perché era ora di pranzo.
I due bambini si sono ritrovati soli con la donna perduta, e seguendola sono usciti dal peristilio.
Hanno attraversato un prato pieno di nebbia e dopo man mano che procedevano la nebbia aumentava.
Erano in altri quartieri di palazzoni grandissimi, e ormai anche loro avevano perso la strada.
Attraversavano larghi viali dove non passava nessuno.
Poi si ritrovavano in aperta campagna.
E di nuovo in altri quartieri come i precedenti, dove la donna vagava senza meta.
Ogni tanto la donna chiedeva loro delle informazioni sui cartelli stradali che vedeva, sui nomi delle località che attraversavano.
E i bambini rispondevano: “Non siamo di Milano.”
Appena fuori da un altro quartiere non vedevano più niente.
Dovevano essere in aperta campagna.
Stavano attraversando campi gelati, e intorno era tutto bianco: una nebbia così bianca come non l’avevano mai vista, ma anche così fitta che dovevano frugare col piede il terreno davanti a loro prima di fare un passo, perché non vedevano niente oltre il loro naso.
Hanno dovuto fermarsi.
Nella nebbia voltandosi vedevano attorno a sé dovunque una grande parete bianca.
In cui non riuscivano più a ritrovarsi l’un con l’altro, e neanche a vedere il proprio corpo, né a percepire bene un richiamo.
Avevano freddo e si sentivano soli, ma non potevano andare né avanti né indietro, e dovevano restar lì, in quello stranissimo posto dove s’erano perduti.
Avevano fatto tanta strada venendo da lontano in cerca di qualcosa che non fosse noioso, senza mai trovar niente.
E adesso per giunta chissà quanto tempo ancora avrebbero dovuto restare nella nebbia, col freddo e la malinconia, prima di poter tornare a casa dai loro genitori.
Allora è venuto loro il sospetto che la vita potesse essere tutta così.