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28 Dicembre 2019đ Capitolo XXXIII dei Promessi Sposi: prima unâAnalisi approfondita e poi il testo di Manzoni đ
Il Capitolo XXXIII dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni è un passo cruciale del romanzo, ricco di temi, simboli e riflessioni morali. Attraverso questa analisi, esploreremo i momenti salienti del capitolo, i personaggi principali, le dinamiche narrative e il significato profondo degli eventi descritti. â¨đâď¸
1. đ Contesto Narrativo: La Peste e la Caduta di Don Rodrigo đ
La Situazione
- Il capitolo si apre in una Milano devastata dalla peste , un contesto che amplifica il senso di morte e disperazione đď¸đ.
- Don Rodrigo , il perfido antagonista della storia, è ormai ridotto a un uomo solo, abbandonato dai suoi seguaci e colpito dal contagio đŚ đ.
- La sua fine è un momento di giustizia poetica, poichĂŠ rappresenta la punizione divina per le sue azioni malvagie âď¸đĽ.
LâAtmosfera
- Lâatmosfera è cupa e angosciante, caratterizzata da immagini di sofferenza, morte e desolazione đđŻď¸.
- Manzoni descrive la peste come una forza implacabile che colpisce tutti, indipendentemente dal loro status sociale o dalle loro azioni passate đđĽ.
2. đš La Fine di Don Rodrigo: Giustizia Divina e Redenzione Mancata đš
La Malattia di Don Rodrigo
- Don Rodrigo, dopo una notte di stravizi e scherno verso il defunto conte Attilio, inizia a manifestare i sintomi della peste đˇđĽ.
- La sua reazione iniziale è quella di negare la gravitĂ della situazione, attribuendo il malessere al vino e alla stanchezza đ¤ˇââď¸đˇ.
- Tuttavia, il suo stato peggiora rapidamente, e il bubbone che appare sul suo corpo segna il destino inevitabile đЏđ.
Il Terrore e la Disperazione
- Quando comprende di essere infetto, Don Rodrigo è invaso dal terrore di essere portato al lazzaretto o ucciso dai monatti đđť.
- Il suo tentativo di nascondere la malattia e salvare sĂŠ stesso fallisce miseramente, sottolineando la sua impotenza di fronte alla giustizia divina đâď¸.
Il Tradimento del Griso
- Il servo Griso , fedele fino allâultimo, tradisce Don Rodrigo consegnandolo ai monatti in cambio di denaro đ°đ¤.
- Questo atto di slealtĂ rappresenta la rottura definitiva dei legami umani in un mondo devastato dalla peste đđ.
3. đĽ La Descrizione della Peste: Un Flagello Universale đĽ
Il Contagio
- La peste è descritta come una forza misteriosa e implacabile, che colpisce senza distinzione di classe o virtĂš đŚ đ.
- Manzoni utilizza dettagli vividi per mostrare gli effetti devastanti della malattia: bubboni, febbre, delirio e morte đЏđĄď¸.
Il Ruolo dei Monatti
- I monatti , figure sinistre e spietate, rappresentano il volto brutale della morte đđ.
- Essi sono descritti come individui corrotti e indifferenti alle sofferenze altrui, pronti a rubare e approfittarsi delle vittime đ¤đ¤.
4. â¤ď¸ Renzo e il Suo Viaggio: Una Ricerca di VeritĂ e Giustizia â¤ď¸
Il Ritorno di Renzo
- Nel frattempo, Renzo decide di tornare nel suo paese natale per cercare notizie di Lucia e Agnese đĄđŁ.
- Dopo aver contratto e superato la peste, Renzo è determinato a scoprire cosa sia accaduto ai suoi cari đđŞ.
La Scoperta del Paese Devastato
- Al suo arrivo, Renzo trova il paese irriconoscibile: case abbandonate, campi incolti e persone decimate dalla peste đď¸đ.
- Incontra vecchi conoscenti, come Tonio e don Abbondio , che confermano la gravitĂ della situazione đ§âŞ.
La Determinazione di Renzo
- Nonostante le avversitĂ , Renzo rimane risoluto nel suo intento di trovare Lucia e chiarire il mistero del voto fatto da lei đđ.
- La sua perseveranza e il suo amore per Lucia simboleggiano la speranza e la resilienza umana in un mondo devastato dalla tragedia đâ¤ď¸.
5. đ Temi Centrali: Giustizia, Redenzione e UmanitĂ đ
Giustizia Divina
- La fine di Don Rodrigo è un chiaro esempio di giustizia divina , poichĂŠ egli viene punito per le sue azioni malvagie âď¸đĽ.
- Manzoni sottolinea che nemmeno il potere e la ricchezza possono proteggere un uomo dal giudizio di Dio đđ.
Redenzione e Fallimento
- Don Rodrigo non ha lâopportunitĂ di redimersi, poichĂŠ la sua morte è preceduta da terrore e disperazione đđ.
- Questo contrasta con il percorso di altri personaggi, come Renzo e Lucia, che trovano la forza di affrontare le avversitĂ con fede e coraggio đđŞ.
UmanitĂ e SolidarietĂ
- Nonostante la crudeltĂ e lâegoismo che emergono durante la peste, ci sono anche momenti di solidarietĂ e compassione tra i personaggi â¤ď¸đ¤.
- Renzo, ad esempio, riceve aiuto e ospitalitĂ da un vecchio amico, dimostrando che lâumanitĂ può sopravvivere anche nei momenti piĂš bui đđ .
6. đ Riflessioni Finali: Un Capitolo Ricco di Significati Universali đ
Il Capitolo XXXIII dei Promessi Sposi è un capolavoro narrativo che combina drammaticitĂ , simbolismo e riflessione morale đâ¨:
- Da un lato, descrive la caduta di Don Rodrigo come un atto di giustizia divina, sottolineando il tema del castigo per il male commesso âď¸đĽ.
- Dallâaltro, celebra la resilienza umana attraverso il viaggio di Renzo, che incarna la speranza e la ricerca della veritĂ đđŞ.
Per Manzoni, la peste è un simbolo del dolore e della fragilitĂ umana, ma anche unâoccasione per riflettere sui valori universali come la fede, la solidarietĂ e la giustizia đâ¤ď¸.
Riassumendo : Il Capitolo XXXIII dei Promessi Sposi đ⨠è un concentrato di temi universali, emozioni intense e riflessioni morali. Un invito a meditare sulla giustizia divina, la fragilitĂ umana e la forza della speranza in un mondo segnato dalla tragedia! đđ
7. đ Testo del trentatreesimo capitolo dei Promessi Sposi di Alessandro ManzoniÂ
CAPITOLO XXXIII.
Una notte, verso la fine dâagosto, proprio nel colmo della peste, tornava don Rodrigo a casa sua, in Milano, accompagnato dal fedel Griso, lâuno deâ tre o quattro che, di tutta la famiglia, gli eran rimasti vivi. Tornava da un ridotto dâamici soliti a straviziare insieme, per passar la malinconia di quel tempo: e ogni volta ce nâeran deâ nuovi, e ne mancava deâ vecchi. Quel giorno, don Rodrigo era stato uno deâ piĂš allegri; e tra lâaltre cose, aveva fatto rider tanto la compagnia, con una specie dâelogio funebre del conte Attilio, portato via dalla peste, due giorni prima.
Camminando però, sentiva un mal essere, un abbattimento, una fiacchezza di gambe, una gravezza di respiro, unâarsione interna, che avrebbe voluto attribuir solamente al vino, alla veglia, alla stagione. Non aprĂŹ bocca, per tutta la strada; e la prima parola, arrivati a casa, fu dâordinare al Griso che gli facesse lume per andare in camera. Quando ci furono, il Griso osservò il viso del padrone, stravolto, acceso, con gli occhi in fuori, e lustri lustri; e gli stava alla lontana: perchè, in quelle circostanze, ogni mascalzone aveva dovuto acquistar, come si dice, lâocchio medico.
âSto bene, veâ,â disse don Rodrigo, che lesse nel fare del Griso il pensiero che gli passava per la mente. âSto benone; ma ho bevuto, ho bevuto forse un poâ troppo. Câera una vernaccia!… Ma, con una buona dormita, tutto se ne va. Ho un gran sonno… Levami un poâ quel lume dinanzi, che mâaccieca… mi dĂ una noia…!â
âScherzi della vernaccia,â disse il Griso, tenendosi sempre alla larga. âMa vada a letto subito, chè il dormire le farĂ bene.â
âHai ragione: se posso dormire… Del resto, sto bene. Metti qui vicino, a buon conto, quel campanello, se per caso, stanotte avessi bisogno di qualche cosa: e staâ attento, veâ, se mai senti sonare. Ma non avrò bisogno di nulla… Porta via presto quel maledetto lume,â riprese poi, intanto che il Griso eseguiva lâordine, avvicinandosi meno che poteva. âDiavolo! che mâabbia a dar tanto fastidio!â
Il Griso prese il lume, e, augurata la buona notte al padrone, se nâandò in fretta, mentre quello si cacciava sotto.
Ma le coperte gli parvero una montagna. Le buttò via, e si rannicchiò, per dormire; chè infatti moriva dal sonno. Ma, appena velato lâocchio, si svegliava con un riscossone, come se uno, per dispetto, fosse venuto a dargli una tentennata; e sentiva cresciuto il caldo, cresciuta la smania. Ricorreva col pensiero allâagosto, alla vernaccia, al disordine; avrebbe voluto poter dar loro tutta la colpa; ma a queste idee si sostituiva sempre da sè quella che allora era associata con tutte, châentrava, per dir cosĂŹ, da tutti i sensi, che sâera ficcata in tutti i discorsi dello stravizio, giacchè era ancor piĂš facile prenderla in ischerzo, che passarla sotto silenzio: la peste.
Dopo un lungo rivoltarsi, finalmente sâaddormentò, e cominciò a fare i piĂš brutti e arruffati sogni del mondo. E dâuno in un altro, gli parve di trovarsi in una gran chiesa, in su, in su, in mezzo a una folla; di trovarcisi, chè non sapeva come ci fosse andato, come gliene fosse venuto il pensiero, in quel tempo specialmente; e nâera arrabbiato. Guardava i circostanti; eran tutti visi gialli, distrutti, con certâocchi incantati, abbacinati, con le labbra spenzolate; tutta gente con certi vestiti che cascavano a pezzi; e daâ rotti si vedevano macchie e bubboni. âLargo canaglia!â gli pareva di gridare, guardando alla porta, châera lontana lontana, e accompagnando il grido con un viso minaccioso, senza però moversi, anzi ristringendosi, per non toccar queâ sozzi corpi, che giĂ lo toccavano anche troppo da ogni parte. Ma nessuno di queglâinsensati dava segno di volersi scostare, e nemmeno dâavere inteso; anzi gli stavan piĂš addosso: e sopra tutto gli pareva che qualcheduno di loro, con le gomita o con altro, lo pigiasse a sinistra, tra il cuore e lâascella, dove sentiva una puntura dolorosa, e come pesante. E se si storceva, per veder di liberarsene, subito un nuovo non so che veniva a puntarglisi al luogo medesimo. Infuriato, volle metter mano alla spada; e appunto gli parve che, per la calca, gli fosse andata in su, e fosse il pomo di quella che lo premesse in quel luogo; ma, mettendoci la mano, non ci trovò la spada, e sentĂŹ in vece una trafitta piĂš forte. Strepitava, era tuttâaffannato, e voleva gridar piĂš forte; quando gli parve che tutti queâ visi si rivolgessero a una parte. Guardò anche lui; vide un pulpito, e dal parapetto di quello spuntar su un non so che di convesso, liscio e luccicante; poi alzarsi e comparir distinta una testa pelata, poi due occhi, un viso, una barba lunga e bianca, un frate ritto, fuor del parapetto fino alla cintola, fra Cristoforo. Il quale, fulminato uno sguardo in giro su tutto lâuditorio, parve a don Rodrigo che lo fermasse in viso a lui, alzando insieme la mano, nellâattitudine appunto che aveva presa in quella sala a terreno del suo palazzotto. Allora alzò anche lui la mano in furia, fece uno sforzo, come per islanciarsi ad acchiappar quel braccio teso per aria; una voce che gli andava brontolando sordamente nella gola, scoppiò in un grandâurlo; e si destò. Lasciò cadere il braccio che aveva alzato davvero; stentò alquanto a ritrovarsi, ad aprir ben gli occhi; chè la luce del giorno giĂ inoltrato gli dava noia, quanto quella della candela, la sera avanti; riconobbe il suo letto, la sua camera; si raccapezzò che tutto era stato un sogno: la chiesa, il popolo, il frate, tutto era sparito; tutto fuorchè una cosa, quel dolore dalla parte sinistra. Insieme si sentiva al cuore una palpitazion violenta, affannosa, negli orecchi un ronzĂŹo, un fischĂŹo continuo, un fuoco di dentro, una gravezza in tutte le membra, peggio di quando era andato a letto. Esitò qualche momento, prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprĂŹ, ci diede unâocchiata paurosa; e vide un sozzo bubbone dâun livido paonazzo.
Lâuomo si vide perduto: il terror della morte lâinvase, e, con un senso per avventura piĂš forte, il terrore di diventar preda deâ monatti, dâesser portato, buttato al lazzeretto. E cercando la maniera dâevitare questâorribile sorte, sentiva i suoi pensieri confondersi e oscurarsi, sentiva avvicinarsi il momento che non avrebbe piĂš testa, se non quanto bastasse per darsi alla disperazione. Afferrò il campanello, e lo scosse con violenza. Comparve subito il Griso, il quale stava allâerta. Si fermò a una certa distanza dal letto; guardò attentamente il padrone, e sâaccertò di quello che, la sera, aveva congetturato.
âGriso!â disse don Rodrigo, rizzandosi stentatamente a sedere: âtu sei sempre stato il mio fido.â
âSĂŹ, signore.â
âTâho sempre fatto del bene.â
âPer sua bontĂ .â
âDi te mi posso fidare…!â
âDiavolo!â
âSto male, Griso.â
âMe nâero accorto.â
âSe guarisco, ti farò del bene ancor piĂš di quello che te nâho fatto per il passato.â
Il Griso non rispose nulla, e stette aspettando dove andassero a parare questi preamboli.
âNon voglio fidarmi dâaltri che di te,â riprese don Rodrigo: âfammi un piacere, Griso.â
âComandi,â disse questo, rispondendo con la formola solita a quellâinsolita.
âSai dove sta di casa il Chiodo chirurgo?â
âĂ un galantuomo, che, chi lo paga bene, tien segreti gli ammalati. Vaâ a chiamarlo: digli che gli darò quattro, sei scudi per visita, di piĂš, se di piĂš ne chiede; ma che venga qui subito; e faâ la cosa bene, che nessun se nâavveda.â
âBen pensato,â disse il Griso: âvo e torno subito.â
âSenti, Griso: dammi prima un poâ dâacqua. Mi sento unâarsione, che non ne posso piĂš.â
âNo, signore,â rispose il Griso: âniente senza il parere del medico. Son mali bisbetici: non câè tempo da perdere. Stia quieto: in tre salti son qui col Chiodo.â
CosĂŹ detto, uscĂŹ, raccostando lâuscio.
Don Rodrigo, tornato sotto, lâaccompagnava con lâimmaginazione alla casa del Chiodo, contava i passi, calcolava il tempo. Ogni tanto ritornava a guardare il suo bubbone; ma voltava subito la testa dallâaltra parte, con ribrezzo. Dopo qualche tempo, cominciò a stare in orecchi, per sentire se il chirurgo arrivava: e quello sforzo dâattenzione sospendeva il sentimento del male, e teneva in sesto i suoi pensieri. Tuttâa un tratto, sente uno squillo lontano, ma che gli par che venga dalle stanze, non dalla strada. Sta attento; lo sente piĂš forte, piĂš ripetuto, e insieme uno stropiccĂŹo di piedi: un orrendo sospetto gli passa per la mente. Si rizza a sedere, e si mette ancor piĂš attento; sente un rumor cupo nella stanza vicina, come dâun peso che venga messo giĂš con riguardo; butta le gambe fuor del letto, come per alzarsi, guarda allâuscio, lo vede aprirsi, vede presentarsi e venire avanti due logori e sudici vestiti rossi, due facce scomunicate, due monatti, in una parola; vede mezza la faccia del Griso che, nascosto dietro un battente socchiuso, riman lĂŹ a spiare.
âAh traditore infame!… Via, canaglia! Biondino! Carlotto! aiuto! son assassinato!â grida don Rodrigo; caccia una mano sotto il capezzale, per cercare una pistola; lâafferra, la tira fuori; ma al primo suo grido, i monatti avevan preso la rincorsa verso il letto; il piĂš pronto gli è addosso, prima che lui possa far nulla; gli strappa la pistola di mano, la getta lontano, lo butta a giacere, e lo tien lĂŹ, gridando, con un versaccio di rabbia insieme e di scherno: âah birbone! contro i monatti! contro i ministri del tribunale! contro quelli che fanno lâopere di misericordia!â
âTienlo bene, fin che lo portiam via,â disse il compagno, andando verso uno scrigno. E in quella il Griso entrò, e si mise con colui a scassinar la serratura.
âScellerato!â urlò don Rodrigo, guardandolo per di sotto allâaltro che lo teneva, e divincolandosi tra quelle braccia forzute. âLasciatemi ammazzar quellâinfame,â diceva quindi ai monatti, âe poi fate di me quel che volete.â Poi ritornava a chiamar con quanta voce aveva, gli altri suoi servitori; ma era inutile, perchè lâabbominevole Griso gli aveva mandati lontano, con finti ordini del padrone stesso, prima dâandare a fare ai monatti la proposta di venire a quella spedizione, e divider le spoglie.
âStaâ buono, staâ buono,â diceva allo sventurato Rodrigo lâaguzzino che lo teneva appuntellato sul letto. E voltando poi il viso ai due che facevan bottino, gridava: âfate le cose da galantuomini!â
âTu! tu!â mugghiava don Rodrigo verso il Griso, che vedeva affaccendarsi a spezzare, a cavar fuori danaro, roba, a far le parti, â Tu! dopo…! Ah diavolo dellâinferno! Posso ancora guarire! posso guarire! â Il Griso non fiatava, e neppure, per quanto poteva, si voltava dalla parte di dove venivan quelle parole.
â Tienlo forte, â diceva lâaltro monatto: â è fuor di sè. â
Ed era ormai vero. Dopo un grandâurlo, dopo un ultimo e piĂš violento sforzo per mettersi in libertĂ , cadde tuttâa un tratto rifinito e stupido: guardava però ancora, come incantato, e ogni tanto si riscoteva, o si lamentava.
I monatti lo presero, uno per i piedi, e lâaltro per le spalle, e andarono a posarlo sur una barella che avevan lasciata nella stanza accanto; poi uno tornò a prender la preda; quindi, alzato il miserabil peso, lo portaron via.
Il Griso rimase a scegliere in fretta quel di piĂš che potesse far per lui; fece di tutto un fagotto, e se nâandò. Aveva bensĂŹ avuto cura di non toccar mai i monatti, di non lasciarsi toccar da loro; ma, in quellâultima furia del frugare, aveva poi presi, vicino al letto, i panni del padrone, e gli aveva scossi, senza pensare ad altro, per veder se ci fosse danaro. Câebbe però a pensare il giorno dopo, che, mentre stava gozzovigliando in una bettola, gli vennero a un tratto deâ brividi, gli sâabbagliaron gli occhi, gli mancaron le forze, e cascò. Abbandonato daâ compagni, andò in mano deâ monatti, che, spogliatolo di quanto aveva indosso di buono, lo buttarono sur un carro; sul quale spirò, prima dâarrivare al lazzeretto, dovâera stato portato il suo padrone.
Lasciando ora questo nel soggiorno deâ guai, dobbiamo andare in cerca dâun altro, la cui storia non sarebbe mai stata intralciata con la sua, se lui non lâavesse voluto per forza; anzi si può dir di certo che non avrebbero avuto storia nè lâuno nè lâaltro: Renzo, voglio dire, che abbiam lasciato al nuovo filatoio, sotto il nome dâAntonio Rivolta.
Câera stato cinque o sei mesi, salvo il vero; dopo i quali, dichiarata lâinimicizia tra la repubblica e il re di Spagna, e cessato quindi ogni timore di ricerche e dâimpegni dalla parte di qui, Bortolo sâera dato premura dâandarlo a prendere, e di tenerlo ancora con sè, e perchè gli voleva bene, e perchè Renzo, come giovine di talento, e abile nel mestiere, era, in una fabbrica, di grande aiuto al factotum, senza poter mai aspirare a divenirlo lui, per quella benedetta disgrazia di non saper tener la penna in mano. Siccome anche questa ragione câera entrata per qualche cosa, cosĂŹ abbiam dovuto accennarla. Forse voi vorreste un Bortolo piĂš ideale: non so che dire: fabbricatevelo. Quello era cosĂŹ.
Renzo era poi sempre rimasto a lavorare presso di lui. PiĂš dâuna volta, e specialmente dopo aver ricevuta qualcheduna di quelle benedette lettere da parte dâAgnese, gli era saltato il grillo di farsi soldato, e finirla: e lâoccasioni non mancavano; chè, appunto in quellâintervallo di tempo, la repubblica aveva avuto bisogno di far gente. La tentazione era qualche volta stata per Renzo tanto piĂš forte, che sâera anche parlato dâinvadere il milanese; e naturalmente a lui pareva che sarebbe stata una bella cosa, tornare in figura di vincitore a casa sua, riveder Lucia, e spiegarsi una volta con lei. Ma Bortolo, con buona maniera, aveva sempre saputo smontarlo da quella risoluzione.
â Se ci hanno da andare, â gli diceva, â ci anderanno anche senza di te, e tu potrai andarci dopo, con tuo comodo; se tornano col capo rotto, non sarĂ meglio essere stato a casa tua? Disperati che vadano a far la strada, non ne mancherĂ . E, prima che ci possan mettere i piedi…! Per me, sono eretico: costoro abbaiano; ma sĂŹ; lo stato di Milano non è un boccone da ingoiarsi cosĂŹ facilmente. Si tratta della Spagna, figliuolo mio: sai che affare è la Spagna? San Marco è forte a casa sua; ma ci vuol altro. Abbi pazienza: non istai bene qui?… Vedo cosa vuoi dire; ma, se è destinato lassĂš che la cosa riesca, staâ sicuro che, a non far pazzie, riuscirĂ anche meglio. Qualche santo tâaiuterĂ . Credi pure che non è mestiere per te. Ti par che convenga lasciare dâincannar seta, per andare a ammazzare? Cosa vuoi fare con quella razza di gente? Ci vuol degli uomini fatti apposta.â
Altre volte Renzo si risolveva dâandar di nascosto, travestito, e con un nome finto. Ma anche da questo, Bortolo seppe svolgerlo ogni volta, con ragioni troppo facili a indovinarsi.
Scoppiata poi la peste nel milanese, e appunto, come abbiam detto, sul confine del bergamasco, non tardò molto a passarlo; e… non vi sgomentate, châio non vi voglio raccontar la storia anche di questa: chi la volesse, la câè, scritta per ordine pubblico da un certo Lorenzo Ghirardelli: libro raro però e sconosciuto, quantunque contenga forse piĂš roba che tutte insieme le descrizioni piĂš celebri di pestilenze: da tante cose dipende la celebritĂ de’ libri! Quel châio volevo dire è che Renzo prese anche lui la peste, si curò da sè, cioè non fece nulla; ne fu in fin di morte, ma la sua buona complessione vinse la forza del male: in pochi giorni, si trovò fuor di pericolo. Col tornar della vita, risorsero piĂš che mai rigogliose nellâanimo suo le memorie, i desidèri, le speranze, i disegni della vita; val a dire che pensò piĂš che mai a Lucia. Cosa ne sarebbe di lei, in quel tempo, che il vivere era come unâeccezione? E, a cosĂŹ poca distanza, non poterne saper nulla? E rimaner, Dio sa quanto, in una tale incertezza! E quandâanche questa si fosse poi dissipata, quando, cessato ogni pericolo, venisse a risaper che Lucia fosse in vita; câera sempre quellâaltro mistero, quellâimbroglio del voto. â Anderò io, anderò a sincerarmi di tutto in una volta, – disse tra sè, e lo disse prima dâessere ancora in caso di reggersi. – Purchè sia viva! Trovarla, la troverò io; sentirò una volta da lei proprio, cosa sia questa promessa, le farò conoscere che non può stare, e la conduco via con me, lei e quella povera Agnese, se è viva! che mâha sempre voluto bene, e son sicuro che me ne vuole ancora. La cattura? eh! adesso hanno altro da pensare, quelli che son vivi. Giran sicuri, anche qui, certa gente, che nâhannâaddosso… Ci ha a esser salvocondotto solamente per i birboni? E a Milano, dicono tutti che lâè una confusione peggio. Se lascio scappare una occasion cosĂŹ bella, – (La peste! Vedete un poco come ci fa qualche volta adoprar le parole quel benedetto istinto di riferire e di subordinar tutto a noi medesimi!) – non ne ritorna piĂš una simile!
Giova sperare, caro il mio Renzo.
Appena potè strascicarsi, andò in cerca di Bortolo, il quale, fino allora, aveva potuto scansar la peste, e stava riguardato. Non gli entrò in casa, ma, datogli una voce dalla strada, lo fece affacciare alla finestra.
â Ah ah! â disse Bortolo: â lâhai scampata, tu. Buon per te!â
â Sto ancora un poâ male in gambe, come vedi, ma, in quanto al pericolo, ne son fuori.â
â Eh! vorrei esser io neâ tuoi piedi. A dire: sto bene, le altre volte, pareva di dir tutto; ma ora conta poco. Chi può arrivare a dire: sto meglio; quella sĂŹ è una bella parola!â
Renzo, fatto al cugino qualche buon augurio, gli comunicò la sua risoluzione.
â Vaâ, questa volta, che il cielo ti benedica, â rispose quello: â cerca di schivar la giustizia, comâio cercherò di schivare il contagio; e, se Dio vuole che la ci vada bene a tuttâe due, ci rivedremo.â
â Oh! torno sicuro: e se potessi non tornar solo! Basta; spero.â
â Torna pure accompagnato; chè, se Dio vuole, ci sarĂ da lavorar per tutti, e ci faremo buona compagnia. Purchè tu mi ritrovi, e che sia finito questo diavolo dâinflusso!â
â Ci rivedremo, ci rivedremo; ci dobbiam rivedere!â
â Torno a dire: Dio voglia!â
Per alquanti giorni, Renzo si tenne in esercizio, per esperimentar le sue forze, e accrescerle; e appena gli parve di poter far la strada, si dispose a partire. Si mise sotto panni una cintura, con dentro queâ cinquanta scudi, che non aveva mai intaccati, e deâ quali non aveva mai fatto parola, neppur con Bortolo; prese alcuni altri pochi quattrini, che aveva messi da parte giorno per giorno, risparmiando su tutto; prese sotto il braccio un fagottino di panni; si mise in tasca un benservito, che sâera fatto fare a buon conto, dal secondo padrone, sotto il nome dâAntonio Rivolta; in un taschino deâ calzoni si mise un coltellaccio, châera il meno che un galantuomo potesse portare a queâ tempi; e sâavviò, agli ultimi dâagosto, tre giorni dopo che don Rodrigo era stato portato al lazzeretto. Prese verso Lecco, volendo, per non andar cosĂŹ alla cieca a Milano, passar dal suo paese, dove sperava di trovare Agnese viva, e di cominciare a saper da lei qualcheduna delle tante cose che si struggeva di sapere.
I pochi guariti dalla peste erano, in mezzo al resto della popolazione, veramente come una classe privilegiata. Una gran parte dellâaltra gente languiva o moriva; e quelli châerano stati fin allora illesi dal morbo, ne vivevano in continuo timore; andavan riservati, guardinghi, con passi misurati, con visi sospettosi, con fretta ed esitazione insieme: chè tutto poteva esser contro di loro arme di ferita mortale. Quegli altri allâopposto, sicuri a un di presso del fatto loro (giacchè aver due volte la peste era caso piuttosto prodigioso che raro), giravano per mezzo al contagio franchi e risoluti; come i cavalieri dâunâepoca del medio evo, ferrati fin dove ferro ci poteva stare, e sopra palafreni accomodati anchâessi, per quanto era fattibile, in quella maniera, andavano a zonzo (donde quella loro gloriosa denominazione dâerranti), a zonzo e alla ventura, in mezzo a una povera marmaglia pedestre di cittadini e di villani, che, per ribattere e ammortire i colpi, non avevano indosso altro che cenci. Bello, savio ed utile mestiere! mestiere, proprio, da far la prima figura in un trattato dâeconomia politica.
Con una tale sicurezza, temperata però dallâinquietudini che il lettore sa, e contristata dallo spettacolo frequente, dal pensiero incessante della calamitĂ comune, andava Renzo verso casa sua, sotto un bel cielo e per un bel paese, ma non incontrando, dopo lunghi tratti di tristissima solitudine, se non qualche ombra vagante piuttosto che persona viva, o cadaveri portati alla fossa, senza onor dâesequie, senza canto, senza accompagnamento. A mezzo circa della giornata, si fermò in un boschetto, a mangiare un poâ di pane e di companatico che aveva portato con sè. Frutte, nâaveva a sua disposizione, lungo la strada, anche piĂš del bisogno: fichi, pesche, susine, mele, quante nâavesse volute; bastava châentrasse neâ campi a coglierne, o a raccattarle sotto gli alberi, dove ce nâera come se fosse grandinato; giacchè lâanno era straordinariamente abbondante, di frutte specialmente; e non câera quasi chi se ne prendesse pensiero: anche lâuve nascondevano, per dir cosĂŹ, i pampani, ed eran lasciate in balĂŹa del primo occupante.
Verso sera, scoprĂŹ il suo paese. A quella vista, quantunque ci dovesse esser preparato, si sentĂŹ dare come una stretta al cuore: fu assalito in un punto da una folla di rimembranze dolorose, e di dolorosi presentimenti: gli pareva dâaver negli orecchi queâ sinistri tocchi a martello che lâavevan come accompagnato, inseguito, quandâera fuggito da queâ luoghi; e insieme sentiva, per dir cosĂŹ, un silenzio di morte che ci regnava attualmente. Un turbamento ancor piĂš forte provò allo sboccare sulla piazzetta davanti alla chiesa; e ancora peggio sâaspettava al termine del cammino: chè dove aveva disegnato dâandare a fermarsi, era a quella casa châera stato solito altre volte di chiamar la casa di Lucia. Ora non poteva essere, tuttâal piĂš, che quella dâAgnese; e la sola grazia, che sperava dal cielo era di trovarcela in vita e in salute. E in quella casa si proponeva di chiedere alloggio, congetturando bene che la sua non dovesse esser piĂš abitazione che da topi e da faine.
Non volendo farsi vedere, prese per una viottola di fuori, quella stessa per cui era venuto in buona compagnia, quella notte cosĂŹ fatta, per sorprendere il curato. A mezzo circa, câera da una parte la vigna, e dallâaltra la casetta di Renzo; sicchè, passando, potrebbe entrare un momento nellâuna e nellâaltra, a vedere un poco come stesse il fatto suo.
Andando, guardava innanzi, ansioso insieme e timoroso di veder qualcheduno; e, dopo pochi passi, vide infatti un uomo in camicia, seduto in terra, con le spalle appoggiate a una siepe di gelsomini, in unâattitudine dâinsensato: e, a questa, e poi anche alla fisonomia, gli parve di raffigurar quel povero mezzo scemo di Gervaso châera venuto per secondo testimonio alla sciagurata spedizione. Ma essendosegli avvicinato, dovette accertarsi châera in vece quel Tonio cosĂŹ sveglio che ce lâaveva condotto. La peste, togliendogli il vigore del corpo insieme e della mente, gli aveva svolto in faccia e in ogni suo atto un piccolo e velato germe di somiglianza che aveva con lâincantato fratello.
â Oh Tonio! â gli disse Renzo, fermandosegli davanti: â sei tu?â
Tonio alzò gli occhi, senza mover la testa.
â Tonio! non mi riconosci? â
â A chi la tocca, la tocca, â rispose Tonio, rimanendo poi con la bocca aperta.

â A chi la tocca, la tocca, â replicò quello, con un certo sorriso sciocco. Renzo, vedendo che non ne caverebbe altro, seguitò la sua strada, piĂš contristato. Ed ecco spuntar da una cantonata, e venire avanti una cosa nera, che riconobbe subito per don Abbondio. Camminava adagio adagio, portando il bastone come chi nâè portato a vicenda; e di mano in mano che sâavvicinava, sempre piĂš si poteva conoscere nel suo volto pallido e smunto, e in ogni atto, che anche lui doveva aver passata la sua burrasca. Guardava anche lui; gli pareva e non gli pareva: vedeva qualcosa di forestiero nel vestiario; ma era appunto forestiero di quel di Bergamo.
â E’ lui senzâaltro! â disse tra sè, e alzò le mani al cielo, con un movimento di maraviglia scontenta, restandogli sospeso in aria il bastone che teneva nella destra; e si vedevano quelle povere braccia ballar nelle maniche, dove altre volte stavano appena per lâappunto. Renzo gli andò incontro, allungando il passo, e gli fece una riverenza; chè, sebbene si fossero lasciati come sapete, era però sempre il suo curato.
â Siete qui, voi? â esclamò don Abbondio.
â Son qui, come lei vede. Si sa niente di Lucia?â
â Che volete che se ne sappia? Non se ne sa niente. Ă a Milano, se pure è ancora in questo mondo. Ma voi…â
âE Agnese, è viva? â
â Può essere; ma chi volete che lo sappia? non è qui. Ma…â
â Dovâè? â
â Ă andata a starsene nella Valsassina, da queâ suoi parenti, a Pasturo, sapete bene; chè lĂ dicono che la peste non faccia il diavolo come qui. Ma voi, dico…â
â Questa la mi dispiace. E il padre Cristoforo…?â
â Ă andato via che è un pezzo. Ma…â
â Lo sapevo; me lâhanno fatto scrivere: domandavo se per caso fosse tornato da queste parti.â
â Oh giusto! non se nâè piĂš sentito parlare. Ma voi…â
â La mi dispiace anche questa.â
â Ma voi, dico, cosa venite a far da queste parti, per lâamor del cielo? Non sapete che bagattella di cattura…?â
â Cosa mâimporta? Hanno altro da pensare. Ho voluto venire anchâio una volta a vedere i fatti miei. E non si sa proprio…?â
â Cosa volete vedere? che or ora non câè piĂš nessuno, non câè piĂš niente. E dico, con quella bagattella di cattura, venir qui, proprio in paese, in bocca al lupo, câè giudizio? Fate a modo dâun vecchio che è obbligato ad averne piĂš di voi, e che vi parla per lâamore che vi porta; legatevi le scarpe bene, e, prima che nessuno vi veda, tornate di dove siete venuto; e se siete stato visto, tanto piĂš tornatevene di corsa. Vi pare che sia aria per voi, questa? Non sapete che sono venuti a cercarvi, che hanno frugato, frugato, buttato sottosopra…â
â Lo so pur troppo, birboni!â
â Ma dunque…!â
â Ma se le dico che non ci penso. E colui, è vivo ancora? è qui?â
â Vi dico che non câè nessuno; vi dico che non pensiate alle cose di qui; vi dico che…â
â Domando se è qui, colui. â
â Oh santo cielo! Parlate meglio. Possibile che abbiate ancora addosso tutto quel fuoco, dopo tante cose!â
â Câè, o non câè? â
â Non câè, via. Ma, e la peste, figliuolo, la peste! Chi è che vada in giro, in questi tempiâ?
â Se non ci fosse altro che la peste in questo mondo… dico per me: lâho avuta, e son franco.â
â Ma dunque! ma dunque! non sono avvisi questi? Quando se nâè scampata una di questa sorte, mi pare che si dovrebbe ringraziare il cielo, e…â
â Lo ringrazio bene. â
â E non andarne a cercar dellâaltre, dico. Fate a modo mio… â
â Lâha avuta anche lei, signor curato, se non mâinganno.â
â Se lâho avuta! Perfida e infame è stata: son qui per miracolo: basta dire che mâha conciato in questa maniera che vedete. Ora avevo proprio bisogno dâun poâ di quiete, per rimettermi in tono: via, cominciavo a stare un poâ meglio… In nome del cielo, cosa venite a far qui? Tornate…â
â Sempre lâha con questo tornare, lei. Per tornare, tanto nâavevo a non movermi. Dice: cosa venite? cosa venite? Oh bella! vengo, anchâio, a casa mia.â
â Casa vostra… â
â Mi dica; ne son morti molti qui?…â
â Eh eh! â esclamò don Abbondio; e, cominciando da Perpetua, nominò una filastrocca di persone e di famiglie intere. Renzo sâaspettava pur troppo qualcosa di simile; ma al sentir tanti nomi di persone che conosceva, dâamici, di parenti, stava addolorato, col capo basso, esclamando ogni momento: – poverino! poverina! poverini!
â Vedete! âcontinuò don Abbondio: â e non è finita. Se quelli che restano non metton giudizio questa volta, e scacciar tutti i grilli dalla testa, non câè piĂš altro che la fine del mondo.â
â Non dubiti; che giĂ non fo conto di fermarmi qui.â
â Ah! sia ringraziato il cielo, che la vâè entrata! E, giĂ sâintende, fate ben conto di ritornar sul bergamasco.â
â Di questo non si prenda pensiero. â
â Che! non vorreste giĂ farmi qualche sproposito peggio di questo?â
â Lei non ci pensi, dico; tocca a me: non son piĂš bambino: ho lâuso della ragione. Spero che, a buon conto, non dirĂ a nessuno dâavermi visto. Ă sacerdote; sono una sua pecora: non mi vorrĂ tradire.â
â Ho inteso, â disse don Abbondio, sospirando stizzosamente: â ho inteso. Volete rovinarvi voi, e rovinarmi me. Non vi basta di quelle che avete passate voi; non vi basta di quelle che ho passate io. Ho inteso, ho inteso. â E, continuando a borbottar tra i denti questâultime parole, riprese per la sua strada.
Renzo rimase lĂŹ tristo e scontento, a pensar dove anderebbe a fermarsi. In quella enumerazion di morti fattagli da don Abbondio, câera una famiglia di contadini portata via tutta dal contagio, salvo un giovinotto, dellâetĂ di Renzo a un di presso, e suo compagno fin da piccino; la casa era pochi passi fuori del paese. Pensò dâandar lĂŹ.
E andando, passò davanti alla sua vigna; e giĂ dal di fuori potè subito argomentare in che stato la fosse. Una vetticciola, una fronda dâalbero di quelli che ci aveva lasciati, non si vedeva passare il muro; se qualcosa si vedeva, era tutta roba venuta in sua assenza. Sâaffacciò allâapertura (del cancello non câeran piĂš neppure i gangheri);

Ma questo non si curava dâentrare in una tal vigna; e forse non istette tanto a guardarla, quanto noi a farne questo poâ di schizzo. Tirò di lungo: poco lontano câera la sua casa; attraversò lâorto, camminando fino a mezza gamba tra lâerbacce di cui era popolato, coperto, come la vigna. Mise piede sulla soglia dâuna delle due stanze che câera a terreno: al rumore deâ suoi passi, al suo affacciarsi, uno scompiglĂŹo, uno scappare incrocicchiato di topacci, un cacciarsi dentro il sudiciume che copriva tutto il pavimento: era ancora il letto deâ lanzichenecchi. Diede unâocchiata alle pareti: scrostate, imbrattate, affumicate. Alzò gli occhi al palco: un parato di ragnateli. Non câera altro. Se nâandò anche di lĂ , mettendosi le mani neâ capelli; tornò indietro, rifacendo il sentiero che aveva aperto lui, un momento prima; dopo pochi passi, prese unâaltra straducola a mancina, che metteva neâ campi; e senza veder nè sentire anima vivente, arrivò vicino alla casetta dove aveva pensato di fermarsi. GiĂ principiava a farsi buio. Lâamico era sullâuscio, a sedere sur un panchetto di legno, con le braccia incrociate, con gli occhi fissi al cielo, come un uomo sbalordito dalle disgrazie, e insalvatichito dalla solitudine. Sentendo un calpestĂŹo, si voltò a guardar chi fosse, e, a quel che gli parve di vedere cosĂŹ al barlume, tra i rami e le fronde, disse, ad alta voce, rizzandosi e alzando le mani: ânon ci son che io? non ne ho fatto abbastanza ieri? Lasciatemi un poâ stare, che sarĂ anche questa unâopera di misericordia.â
Renzo, non sapendo cosa volesse dir questo, gli rispose chiamandolo per nome.
âRenzo…!â disse quello, esclamando insieme e interrogando.
â Proprio, â disse Renzo; e si corsero incontro.
â Sei proprio tu! â disse lâamico, quando furon vicini: â oh che gusto ho di vederti! Chi lâavrebbe pensato? Tâavevo preso per Paolin deâ morti, che vien sempre a tormentarmi, perchĂŠ vada a sotterrare. Sai che son rimasto solo? solo! solo, come un romito! â
â Lo so pur troppo, â disse Renzo. E cosĂŹ, barattando e mescolando in fretta saluti, domande e risposte, entrarono insieme nella casuccia. E lĂŹ, senza sospendere i discorsi, lâamico si mise in faccende per fare un poâ dâonore a Renzo, come si poteva cosĂŹ allâimprovviso e in quel tempo. Mise lâacqua al fuoco, e cominciò a far la polenta; ma cedĂŠ poi il matterello a Renzo, perchĂŠ la dimenasse; e se nâandò dicendo: â son rimasto solo; ma! son rimasto solo!â
Tornò con un piccol secchio di latte, con un poâ di carne secca,

Certo, nessuno poteva tenere presso di Renzo il luogo dâAgnese, nè consolarlo della di lei assenza, non solo per quellâantica e speciale affezione, ma anche perchè, tra le cose che a lui premeva di decifrare, ce nâera una di cui essa sola aveva la chiave. Stette un momento tra due, se dovesse continuare il suo viaggio, o andar prima in cerca dâAgnese, giacchè nâera cosĂŹ poco lontano; ma, considerato che della salute di Lucia, Agnese non ne saprebbe nulla, restò nel primo proposito dâandare addirittura a levarsi questo dubbio, a aver la sua sentenza, e di portar poi lui le nuove alla madre. Però, anche dallâamico seppe molte cose che ignorava, e di molte venne in chiaro che non sapeva bene, sui casi di Lucia, e sulle persecuzioni che gli avevan fatte a lui, e come don Rodrigo se nâera andato con la coda tra le gambe, e non sâera piĂš veduto da quelle parti; insomma su tutto quellâintreccio di cose. Seppe anche (e non era per Renzo cognizione di poca importanza) come fosse proprio il casato di don Ferrante: chè Agnese gliel aveva bensĂŹ fatto scrivere dal suo segretario; ma sa il cielo comâera stato scritto; e lâinterprete bergamasco, nel leggergli la lettera, nâaveva fatta una parola tale, che, se Renzo fosse andato con essa a cercar ricapito di quella casa in Milano, probabilmente non avrebbe trovato persona che indovinasse di chi voleva parlare. Eppure quello era lâunico filo che avesse, per andar in cerca di Lucia. In quanto alla giustizia, potè confermarsi sempre piĂš châera un pericolo abbastanza lontano, per non darsene gran pensiero: il signor podestĂ era morto di peste: chi sa quando se ne manderebbe un altro; anche la sbirraglia se nâera andata la piĂš parte; quelli che rimanevano, avevan tuttâaltro da pensare che alle cose vecchie.
Raccontò anche lui allâamico le sue vicende, e nâebbe in contraccambio cento storie, del passaggio dellâesercito, della peste, dâuntori, di prodigi. – Son cose brutte, – disse lâamico, accompagnando Renzo in una camera che il contagio aveva resa disabitata; – cose che non si sarebbe mai creduto di vedere; cose da levarvi lâallegria per tutta la vita; ma però, a parlarne tra amici, è un sollievo.
Allo spuntar del giorno, eran tuttâe due in cucina; Renzo in arnese da viaggio, con la sua cintura nascosta sotto il farsetto, e il coltellaccio nel taschino deâ calzoni: il fagottino, per andar piĂš lesto, lo lasciò in deposito presso allâospite. â Se la mi va bene, â gli disse, â se la trovo in vita, se… basta… ripasso di qui; corro a Pasturo, a dar la buona nuova a quella povera Agnese, e poi, e poi… Ma se, per disgrazia, per disgrazia che Dio non voglia… allora, non so quel che farò, non so dovâanderò: certo, da queste parti non mi vedete piĂš. â E cosĂŹ parlando, ritto sulla soglia dellâuscio, con la testa per aria, guardava con un misto di tenerezza e dâaccoramento, lâaurora del suo paese che non aveva piĂš veduta da tanto tempo. Lâamico gli disse, come sâusa, di sperar bene; volle che prendesse con sè qualcosa da mangiare; lâaccompagnò per un pezzetto di strada, e lo lasciò con nuovi augĂšri.
Renzo, sâincamminò con la sua pace, bastandogli dâarrivar vicino a Milano in quel giorno, per entrarci il seguente, di buonâora, e cominciar subito la sua ricerca. Il viaggio fu senza accidenti e senza nulla che potesse distrar Renzo daâ suoi pensieri, fuorchè le solite miserie e malinconie. Come aveva fatto il giorno avanti, si fermò a suo tempo, in un boschetto a mangiare un boccone, e a riposarsi. Passando per Monza, davanti a una bottega aperta, dove câera deâ pani in mostra, ne chiese due, per non rimanere sprovvisto, in ogni caso. Il fornaio, glâintimò di non entrare, e gli porse sur una piccola pala una scodelletta, con dentro acqua e aceto, dicendogli che buttasse lĂŹ i danari; e fatto questo, con certe molle, gli porse, lâuno dopo lâaltro, i due pani, che Renzo si mise uno per tasca.
Verso sera, arriva a Greco, senza però saperne il nome; ma, tra un poâ di memoria deâ luoghi, che gli era rimasta dellâaltro viaggio, e il calcolo del cammino fatto da Monza in poi, congetturando che doveva esser poco lontano dalla cittĂ , uscĂŹ dalla strada maestra, per andar neâ campi in cerca di qualche cascinotto, e lĂŹ passar la notte; chè con osterie non si voleva impicciare. Trovò meglio di quel che cercava: vide unâapertura in una siepe che cingeva il cortile dâuna cascina; entrò a buon conto. Non câera nessuno: vide da un canto un gran portico, con sotto del fieno ammontato, e a quello appoggiata una scala a mano; diede unâocchiata in giro, e poi salĂŹ alla ventura; sâaccomodò per dormire, e infatti sâaddormentò subito, per non destarsi che allâalba. Allora, andò carpon carponi verso lâorlo di quel gran letto; mise la testa fuori, e non vedendo nessuno, scese di dovâera salito, uscĂŹ di dovâera entrato, sâincamminò per viottole, prendendo per sua stella polare il duomo; e dopo un brevissimo cammino, venne a sbucar sotto le mura di Milano, tra porta Orientale e porta Nuova, e molto vicino a questa.