
Introduzione a Omero
28 Dicembre 2019
Poetica classicista e poetica romantica
28 Dicembre 2019“Osservando una selce lavorata” è un breve racconto-riflessione di Daniel-Rops che esplora il mistero dell’origine dell’uomo e della sua coscienza, partendo dall’osservazione di un semplice oggetto preistorico: un’ascia di selce.
Il racconto si sviluppa su più livelli, mescolando osservazione concreta, riflessione storica ed esistenziale, fino ad arrivare a profonde domande filosofiche e religiose.
1. Il simbolo della selce lavorata
L’oggetto al centro del racconto, l’ascia di selce, è molto più di un semplice fermacarte:
- È una testimonianza del passato, un collegamento fisico tra il narratore e un uomo vissuto migliaia di anni prima.
- Rappresenta l’intelligenza umana, la capacità di progettare, innovare e migliorare la propria condizione.
- È un simbolo della continuità della storia, un elemento che collega gli uomini preistorici con l’uomo moderno.
📝 “Mi capita spesso di pensare a quell’antenato che in tempi immemorabili tenne fra le sue mani quest’oggetto che io tengo oggi fra le mie.”
Il narratore si immedesima nell’antico artigiano e si interroga sul mistero della trasformazione dell’essere umano da semplice animale a creatore di strumenti e cultura.
2. L’origine dell’uomo e della coscienza
Una delle domande fondamentali del testo riguarda quando e come l’uomo è diventato “uomo”.
- L’autore si chiede se il passaggio sia avvenuto in modo repentino o graduale.
- Riflette sulla differenza tra l’uomo e gli altri animali: la capacità di pensare, creare, immaginare e prevedere il futuro.
- Si interroga sull’origine della coscienza e dell’anima, suggerendo che essa sia frutto di un atto divino.
📝 “Avvenne forse per una repentina comparsa dell’intelligenza e della coscienza? Avvenne secondo la legge spontanea di una lenta maturazione, di una fioritura? Chi può saperlo?”
L’autore sottolinea che nessuna spiegazione puramente scientifica sembra essere sufficiente a chiarire questa “metamorfosi prodigiosa”.
3. Il rapporto tra passato e futuro dell’umanità
Daniel-Rops collega il passato preistorico al presente e al futuro dell’umanità:
- Così come l’uomo preistorico non sapeva cosa sarebbe diventato l’uomo moderno, noi oggi non sappiamo quale sarà il destino dell’umanità futura.
- L’autore immagina un’umanità migliore, più giusta e più consapevole.
- Cita l’abate Breuil: “Noi siamo gli ultimi neolitici”, per suggerire che siamo ancora in una fase di transizione evolutiva.
📝 “Non ci accade forse talora di avere il presentimento di un’altra umanità che si cela nel futuro e vuol nascere, un’umanità più chiaroveggente, più giusta, più perfetta?”
L’autore sembra suggerire che l’umanità sia in costante progresso, guidata da una forza misteriosa che la spinge sempre più in alto.
4. La scoperta della morte e la spiritualità
Un altro tema centrale del racconto è il rapporto dell’uomo con la morte:
- La consapevolezza della morte distingue l’uomo dagli altri animali.
- Già nella preistoria, le sepolture e i riti funebri dimostrano che l’uomo credeva in un “oltre”.
- L’autore ipotizza che proprio la scoperta della morte abbia dato origine alla spiritualità e alla ricerca del divino.
📝 “Dall’istante in cui fu uomo, cioè da quando ebbe un’intelligenza e una coscienza, l’uomo dovette trovarsi di fronte a due grandi leggi fondamentali della vita: che la libertà umana è limitata, e che si nasce per morire.”
Questa consapevolezza porta angoscia, ma allo stesso tempo diventa un impulso alla creazione e al progresso.
5. Il parallelismo tra uomo preistorico e uomo moderno
Il finale del racconto crea un parallelo tra l’uomo della preistoria e l’uomo moderno:
- Entrambi vivono nell’incertezza, interrogandosi sul significato della vita e della morte.
- Entrambi creano, lavorano, inventano, seguendo un impulso che li spinge oltre la semplice sopravvivenza.
- Entrambi sognano e immaginano il futuro, anche senza comprenderlo pienamente.
📝 “Ha interrotto il lavoro. L’uomo ha alzato la testa, medita, pensa, sogna: certo in modo confuso, ma forse più del mio?”
L’autore suggerisce che, nonostante tutti i progressi tecnologici e scientifici, le grandi domande dell’umanità restano le stesse.
Conclusione
🔹 “Osservando una selce lavorata” è un racconto che parte da un oggetto concreto per riflettere su temi profondi:
✅ L’origine dell’uomo e la sua distinzione dagli animali.
✅ Il progresso e il futuro dell’umanità.
✅ La scoperta della morte e la spiritualità.
✅ Il legame tra passato, presente e futuro.
Alla fine, il racconto lascia il lettore con una domanda: Noi, oggi, siamo davvero più consapevoli dell’uomo preistorico? O stiamo ancora cercando le stesse risposte? 😊
Testo del racconto Osservando una selce lavorata di Daniel Rops
Quando d’estate mi metto a lavorare all’aria aperta, il fermacarte, sul mio tavolo, che impedisce al vento del lago di rubarmi il foglio su cui scrivo, è un’ascia di pietra. Nel suo genere è un bell’oggetto: dell’epoca delle caverne, a quanto mi dicono. Il suo costruttore lo ha fatto evidentemente con molta cura, anche con arte. Ha una forma armoniosa, larga a un’estremità, affilata
all’altra. Le schegge sono state staccate con una regolarità tanto perfetta da far supporre molta pazienza ed abilità. Al tatto questa pietra sembra di seta, da quanto si è levigata al contatto delle palme.
Mi capita spesso di pensare a quell’antenato che in tempi immemorabili tenne fra le sue mani quest’oggetto che io tengo oggi fra le mie: era un uomo, un uomo come me, un uomo e non soltanto in virtù di una certa conformazione delle membra e di una certa struttura dello scheletro, ma anche per quella forza misteriosa, inesplicabile, che gli permise di fabbricare un’arma simile –
che nessuna scimmia superiore aveva mai saputo fare – la stessa forza che suscita intorno a me le più strabilianti meraviglie della tecnica, certo la stessa che fa correre la mia penna sulla carta.
Donde veniva quella forza? Da cosa promanava quel potere che centinaia di migliaia di anni fa causò invenzioni portentose, più portentose di tutte le nostre, perché partivano dal nulla, come il primo utensile e il primo fuoco?
Quando sulle rive della Dordogna o del Vézère un cacciatore di belve tagliava, un colpo dopo l’altro, un masso di selce per trarne la mia arma, già da molto tempo l’umanità esisteva, già da molto tempo un animale simile in apparenza agli altri, era stato trasformato da un misterioso potere in questo essere capace di riflettere, di legare insieme le idee, di creare, l’artefice dell’opera che è oggi sul mio tavolino. Perché e come era accaduto questo cambiamento? Perché e come l’uomo divenne uomo? Questa selce lavorata m’interroga, ripropone la domanda nella notte dei tempi.
Si vorrebbe poter risalire – attraverso la tenebra impenetrabile – fino al momento sublime, che durò forse qualche migliaio di anni, in cui si operò la prodigiosa metamorfosi. Avvenne forse per una repentina comparsa dell’intelligenza e della coscienza? Avvenne secondo la legge spontanea di una lenta maturazione, di una fioritura? Chi può saperlo? Che forma aveva, in realtà, la mano che Dio Padre tende al primo uomo sul soffitto della Sistina?
Di qual natura era il soffio che immise un’anima nell’organismo umano?
Domande senza risposta. Sappiamo e possiamo dire soltanto che fu un avvenimento senza pari, lo spostamento su un nuovo piano, un abisso varcato. Nessun processo evolutivo riesce a spiegarlo in modo soddisfacente: fu un vero atto di creazione.
Lo capiva, quel remoto antenato? Si rendeva conto di ciò che differenziava lui e tutti i suoi simili dalle bestie fra cui viveva, ora cacciatore ora cacciato, lottando come loro, per garantirsi la possibilità di sopravvivere e di riprodursi? Sapeva lui, così debole, il più nudo e inerme di tutti gli animali, di possedere un’arma invisibile, più efficace di tutte, l’intelligenza, che gli
avrebbe permesso di affermare il suo dominio sul mondo vivente e sulla materia inorganica? Fino a che punto giungeva in quel cervello ancora confuso e ottenebrato la coscienza della sua condizione, dei suoi rischi e delle sue possibilità? Un portentoso avvenire era in lui, ed egli non lo sapeva.
Forse è così anche per noi. Proprio quando osserviamo con angoscia lo spettacolo di un’umanità straziata, sopraffatta dal dolore e dalle miserie, inconscia dei pericoli cui va incontro e da questi stessi affascinata, non ci accade forse talora di avere il presentimento, per indefinibili segni interiori, per indefinibili richiami segreti, di un’altra umanità che si cela nel futuro e
vuol nascere, un’umanità più chiaroveggente, più giusta, più perfetta, più fedele insomma alla forza che è in lei e che fin dalla preistoria la spinge sempre verso l’alto?
“Noi siamo gli ultimi neolitici”, disse l’abate Breuil. Chi sa che nel profondo della sua anima ancora incerta il cacciatore di belve che fece la mia ascia di selce non presentisse l’umanità futura, in attesa di nascere, solo per il fatto che pensando, operando, lavorando egli ubbidiva alla forza creatrice, alla divina potenza che era stata messa in lui?
Mistero, domanda senza risposta. Senza risposta? Forse non del tutto: forse le scoperte degli studiosi di preistoria e degli archeologi contengono i germi di una soluzione. Se è vero che le figure di animali, di un realismo impressionante, che si trovano sulle pareti di grotte che fanno pensare piuttosto a templi che ad abitazioni, furono eseguite con un intento simbolico, se è vero che dovevano esercitare un’azione occulta sulla selvaggina a cui si dava la caccia, non abbiamo forse la prova che i loro autori credevano già ad una realtà ultra-sensoriale, che ammettevano letteralmente
un soprannaturale, non importa se ancora grossolano, elementare? E quei resti di tombe, quegli scheletri a cui evidentemente si era data sepoltura nella terra, quegli oggetti familiari messi accanto ai morti, non significano forse che già per quegli uomini la vita non cessava completamente con la morte, ma che una sopravvivenza, anche questa elementare e rudimentale, doveva essere ammessa, un presentimento dell’esistenza dell’anima esisteva già in quelle coscienze ancora tanto annebbiate?
Difficile immaginare cosa rappresentò quella terribile scoperta. Dall’istante in cui fu uomo, cioè da quando ebbe un’intelligenza e una coscienza, l’uomo dovette trovarsi di fronte a due grandi leggi fondamentali della vita: che la libertà umana è limitata, e che si nasce per morire. Quando fu divenuto lui solo, “l’animale che sa di dover morire”, l’uomo cominciò a portare in sé un dolore senza rimedio. Quale fu la sua reazione? Ira, ribellione, acquiescenza, fede? La risposta è nei fatti. Nonostante tutti gli errori e i brancolamenti, questa umanità che scopriva davanti a sé la morte seppe vivere. Non ha sradicato l’angoscia, ma l’ha dominata: ne ha fatto il suo più potente impulso di vita. La forza di creazione, d’invenzione, di progresso, di continua realizzazione, è stata infine più decisiva di tutte le sollecitazioni di morte.
Doveva davvero essere opera di Dio.
Nelle sere di estate, in quelle ore immote in cui gli uomini provano in cuore un’angoscia segreta per l’avvicinarsi della fine di un bel giorno, penso talvolta al cacciatore antichissimo che fabbricò la mia ascia, e lo immagino in un momento simile.
Ha interrotto il lavoro. L’eco delle rocce non rimanda più il batter dei colpi di selce. L’uomo ha alzato la testa, medita, pensa, sogna: certo in modo confuso, ma forse più del mio? Si domanda che cosa significhi il mondo che lo circonda; il fatto di vivere; la morte che lo attende. Sa formulare una risposta?
E io, la so formulare?