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8 Giugno 2025Analisi del testo della novella “Nedda” , pubblicata su rivista nel 1874, di Giovanni Verga
ESAMI DI STATO DI ISTRUZIONE SECONDARIA SUPERIORE PRIMA PROVA SCRITTA – PROVA DI ITALIANO – Sessione Ordinaria 2022
TIPOLOGIA A – ANALISI E INTERPRETAZIONE DI UN TESTO LETTERARIO ITALIANO
PROPOSTA A2
Giovanni Verga, Nedda. Bozzetto siciliano, Arnoldo Mondadori, Milano, 1977, pp. 40-41 e 58-59.
Contesto:
Nella novella Nedda la protagonista intreccia una relazione con Janu, un giovane contadino che ha contratto la malaria. Quando Nedda resta incinta, Janu promette di sposarla; poi, nonostante sia indebolito per la febbre, si reca per la rimondatura degli olivi a Mascalucia, dove è vittima di un incidente sul lavoro. Nel brano qui proposto Verga, dopo aver tratteggiato la condizione di vita di Nedda, narra della morte di Janu e della nascita della loro figlia.
Testo:
«Era una ragazza bruna, vestita miseramente; aveva quell’attitudine timida e ruvida che danno la miseria e l’isolamento. Forse sarebbe stata bella, se gli stenti e le fatiche non ne avessero alterato profondamente non solo le sembianze gentili della donna, ma direi anche la forma umana. I suoi capelli erano neri, folti, arruffati, appena annodati con dello spago; aveva denti bianchi come avorio, e una certa grossolana avvenenza di lineamenti che rendeva attraente il suo sorriso. Gli occhi erano neri, grandi, nuotanti in un fluido azzurrino, quali li avrebbe invidiati una regina a quella povera figliuola raggomitolata sull’ultimo gradino della scala umana, se non fossero stati offuscati dall’ombrosa timidezza della miseria, o non fossero sembrati stupidi per una triste e continua rassegnazione. Le sue membra schiacciate da pesi enormi, o sviluppate violentemente da sforzi penosi erano diventate grossolane, senza esser robuste. Ella faceva da manovale, quando non aveva da trasportare sassi nei terreni che si andavano dissodando, o portava dei carichi in città per conto altrui, o faceva di quegli altri lavori più duri che da quelle parti stimansi¹ inferiori al còmpito dell’uomo. La vendemmia, la messe², la raccolta delle olive, per lei erano delle feste, dei giorni di baldoria, un passatempo, anziché una fatica. È vero bensì che fruttavano appena la metà di una buona giornata estiva da manovale, la quale dava 13 bravi soldi! I cenci sovrapposti in forma di vesti rendevano grottesca quella che avrebbe dovuto essere la delicata bellezza muliebre. L’immaginazione più vivace non avrebbe potuto figurarsi che quelle mani costrette ad un’aspra fatica di tutti i giorni, a raspar fra il gelo, o la terra bruciante, o i rovi e i crepacci, che quei piedi abituati ad andar nudi nella neve e sulle roccie infuocate dal sole, a lacerarsi sulle spine, o ad indurirsi sui sassi, avrebbero potuto esser belli. Nessuno avrebbe potuto dire quanti anni avesse cotesta creatura umana; la miseria l’aveva schiacciata da bambina con tutti gli stenti che deformano e induriscono il corpo, l’anima e l’intelligenza. – Così era stato di sua madre, così di sua nonna, così sarebbe stato di sua figlia. […]
Tre giorni dopo [Nedda] udì un gran cicaleccio per la strada. Si affacciò al muricciolo, e vide in mezzo ad un crocchio di contadini e di comari Janu disteso su di una scala a piuoli, pallido come un cencio lavato, e colla testa fasciata da un fazzoletto tutto sporco di sangue. Lungo la via dolorosa, prima di giungere al suo casolare, egli, tenendola per mano, le narrò come, trovandosi così debole per le febbri, era caduto da un’alta cima, e s’era concio³ a quel modo. – Il cuore te lo diceva – mormorava con un triste sorriso. – Ella l’ascoltava coi suoi grand’occhi spalancati, pallida come lui, e tenendolo per mano. Il domani egli morì. […]
Adesso, quando cercava del lavoro, le ridevano in faccia, non per schernire la ragazza colpevole, ma perché la povera madre non poteva più lavorare come prima. Dopo i primi rifiuti, e le prime risate, ella non osò cercare più oltre, e si chiuse nella sua casipola⁴, al pari di un uccelletto ferito che va a rannicchiarsi nel suo nido. Quei pochi soldi raccolti in fondo alla calza se ne andarono l’un dopo l’altro, e dietro ai soldi la bella veste nuova, e il bel fazzoletto di seta. Lo zio Giovanni la soccorreva per quel poco che poteva, con quella carità indulgente e riparatrice senza la quale la morale del curato è ingiusta e sterile, e le impedì così di morire di fame. Ella diede alla luce una bambina rachitica e stenta; quando le dissero che non era un maschio pianse come aveva pianto la sera in cui aveva chiuso l’uscio del casolare dietro al cataletto⁵ che se ne andava, e s’era trovata senza la mamma; ma non volle che la buttassero alla Ruota⁶.»
Giovanni Verga, Nedda. Bozzetto siciliano, Arnoldo Mondadori, Milano, 1977, pp. 40-41 e 58-59.
Note:
¹ stimansi: si stima, si considera.
² messe: il raccolto dei cereali.
³ concio: conciato, ridotto.
⁴ casipola: casupola, piccola casa.
⁵ cataletto: il sostegno della bara durante il trasporto.
⁶ Ruota: meccanismo girevole situato nei conventi o negli ospedali dove venivano posti i neonati abbandonati.
Comprensione e Analisi
Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte.
- Sintetizza il contenuto del brano proposto.
- Individua nel brano i principali elementi riferibili al Verismo, di cui l’autore è stato in Italia il principale esponente.
- Quali espedienti narrativi e stilistici utilizza l’autore nella descrizione fisica della protagonista e quali effetti espressivi sono determinati dal suo procedimento descrittivo?
- Quali sono le conseguenze della morte di Janu per Nedda?
- Le caratteristiche psicologiche della protagonista divengono esplicite nelle sue reazioni alla nascita della figlia. Prova a individuarle, commentando la conclusione del brano.
Interpretazione
Il tema degli “ultimi” è ricorrente nella letteratura e nelle arti già nel XIX secolo. Si può affermare che Nedda sia la prima di quelle dolenti figure di “vinti” che Verga ritrarrà nei suoi romanzi; prova a collegare e confrontare questo personaggio e la sua drammatica storia con uno o più dei protagonisti del Ciclo dei vinti. In alternativa, esponi le tue considerazioni sulla tematica citata facendo ricorso ad altri autori ed opere a te noti.
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Durata massima della prova: 6 ore.
È consentito l’uso del dizionario italiano e del dizionario bilingue (italiano-lingua del paese di provenienza) per i candidati
di madrelingua non italiana.
Non è consentito lasciare l’Istituto prima che siano trascorse 3 ore dalla consegna delle tracce.
SVOLGIMENTO DELLA Analisi e Interpretazione di “Nedda” di Giovanni Verga
Analisi di ‘Nedda. Bozzetto siciliano’ di Giovanni Verga
La novella “Nedda. Bozzetto siciliano” (1874) di Giovanni Verga segna un momento cruciale nella sua evoluzione stilistica e tematica, preannunciando il Verismo e il celebre “Ciclo dei Vinti”. Il brano proposto ci introduce alla protagonista, una figura emblematica della miseria contadina siciliana, e ne segue il drammatico destino attraverso la relazione con Janu, la sua morte, e la nascita della figlia, in un contesto di sofferenza e prevaricazione sociale.
Comprensione e Analisi
1. Sintetizza il contenuto del brano proposto.
Il brano inizia con la descrizione di Nedda, una ragazza bruna, vestita miseramente, la cui bellezza è stata deformata dalle fatiche e dagli stenti. Viene tratteggiata la sua vita di manovale, dedita ai lavori più duri e spesso considerati maschili, con una paga irrisoria. La sua miseria è un destino ereditario, che si trasmette di generazione in generazione. Successivamente, la narrazione si sposta sulla morte di Janu, il suo compagno: Nedda apprende dell’incidente sul lavoro (una caduta da un’alta cima a causa della debolezza per la febbre malarica) mentre Janu viene trasportato al casolare su una scala. Egli muore il giorno seguente. La parte finale del brano descrive le drammatiche conseguenze della morte di Janu per Nedda: le viene negato il lavoro a causa della gravidanza e della sua ridotta capacità lavorativa. Costretta a chiudersi nella sua casipola, esaurisce i pochi risparmi e i pochi beni. Nonostante la soccorso dello zio Giovanni, dà alla luce una bambina rachitica e stenta. Nedda piange la nascita della figlia non perché non sia un maschio, ma con lo stesso dolore provato alla morte della madre, pur rifiutandosi di abbandonarla alla Ruota degli esposti.
2. Individua nel brano i principali elementi riferibili al Verismo, di cui l’autore è stato in Italia il principale esponente.
Nel brano sono evidenti numerosi elementi che anticipano o sono già pienamente riferibili al Verismo verghiano:
- Realismo crudo e oggettivo: La descrizione della miseria di Nedda non è idealizzata ma cruda e dettagliata: “vestita miseramente”, “membra schiacciate da pesi enormi”, “senza esser robuste”, “cenci sovrapposti”. La deformazione fisica causata dagli stenti e dalle fatiche è resa con precisione quasi scientifica: “non solo le sembianze gentili della donna, ma direi anche la forma umana” (vv. 2-3). La morte di Janu è narrata con distacco quasi cronistico: “disteso su di una scala a piuoli, pallido come un cencio lavato, e colla testa fasciata da un fazzoletto tutto sporco di sangue” (vv. 15-16).
- Adesione alla realtà sociale del Sud Italia: Il “bozzetto siciliano” ritrae la vita dura dei contadini del Sud, le loro condizioni di lavoro estenuanti e mal retribuite (“13 bravi soldi!”), i lavori considerati “inferiori al còmpito dell’uomo” (vv. 9-10), la malaria (Janu “debole per le febbri”), l’uso di spago per annodare i capelli, la “Ruota” per gli orfani.
- Impersonalità (o regressione): Pur non essendo ancora pienamente attuato il canone dell’impersonalità che caratterizzerà i romanzi maggiori, in questo brano si percepisce già la tendenza del narratore a eclissarsi, lasciando che i fatti e le voci dei personaggi parlino da sé. La narrazione è asciutta, priva di interventi emotivi diretti dell’autore.
- Determinismo sociale: La miseria di Nedda è vista come un destino ineluttabile e ereditario: “Così era stato di sua madre, così di sua nonna, così sarebbe stato di sua figlia” (vv. 14-15). L’individuo è schiacciato da un contesto sociale ed economico da cui è impossibile affrancarsi. La povertà deforma il corpo, l’anima e l’intelligenza.
- Linguaggio mimetico e colloquiale: Pur in italiano, il linguaggio tenta di riprodurre la mentalità e la parlata popolare, con espressioni come “cicaleccio per la strada” (v. 15), “come un cencio lavato” (v. 16), “Il cuore te lo diceva” (v. 18), “concìo a quel modo” (v. 17).
- Focus sugli “ultimi” e sui “vinti”: La protagonista stessa è l’emblema degli emarginati, dei diseredati, di coloro che la società schiaccia e condanna a un’esistenza di stenti. La sua storia prefigura le vicende dei “vinti” del ciclo verghiano.
3. Quali espedienti narrativi e stilistici utilizza l’autore nella descrizione fisica della protagonista e quali effetti espressivi sono determinati dal suo procedimento descrittivo?
Nella descrizione fisica di Nedda, Verga utilizza diversi espedienti narrativi e stilistici per ottenere un effetto espressivo di crudo realismo e di profonda pietà (ma non patetismo):
- Antitesi e ossimoro implicito: Viene costantemente sottolineato il contrasto tra la potenziale bellezza (“Forse sarebbe stata bella”, v. 2; “delicata bellezza muliebre”, v. 10; “avrebbe potuto esser belli” per mani e piedi, v. 12) e la deformazione e abbrutimento causati dalla miseria e dalla fatica (“se gli stenti e le fatiche non ne avessero alterato profondamente non solo le sembianze gentili della donna, ma direi anche la forma umana”, vv. 2-4). Le “membra schiacciate da pesi enormi” sono “diventate grossolane, senza esser robuste” (vv. 7-8), evidenziando l’assurdità di una fatica che non fortifica ma distrugge.
- Enumerazione e accumulazione del dolore fisico: Verga elenca le privazioni e i maltrattamenti subiti dal corpo di Nedda: “mani costrette ad un’aspra fatica di tutti i giorni, a raspar fra il gelo, o la terra bruciante, o i rovi e i crepacci”, “piedi abituati ad andar nudi nella neve e sulle roccie infuocate dal sole, a lacerarsi sulle spine, o ad indurirsi sui sassi” (vv. 11-13). Questa accumulazione rende palpabile la sofferenza fisica e la crudeltà delle condizioni di vita.
- Similitudini significative:
- “capelli… annodati con dello spago” (v. 4): sottolinea la povertà estrema e l’assenza di cura per la persona.
- “denti bianchi come avorio” (v. 5): unico elemento di potenziale bellezza pura, che contrasta con la realtà del resto del corpo.
- “occhi… nuotanti in un fluido azzurrino, quali li avrebbe invidiati una regina” (vv. 6-7): questa iperbole sottolinea la bellezza eccezionale degli occhi, immediatamente annullata dal “se non fossero stati offuscati dall’ombrosa timidezza della miseria, o non fossero sembrati stupidi per una triste e continua rassegnazione” (vv. 7-9).
- “raggomitolata sull’ultimo gradino della scala umana” (vv. 7-8): metafora che evidenzia la sua posizione sociale infima e la sua totale marginalizzazione.
- “pallido come un cencio lavato” (v. 16, per Janu): similitudine tipica verghiana, che esprime la consunzione fisica.
- “al pari di un uccelletto ferito che va a rannicchiarsi nel suo nido” (vv. 22-23, per Nedda): una similitudine che evoca la fragilità, la vulnerabilità e il bisogno di rifugio di Nedda dopo il rifiuto del lavoro.
- Focus sulla deformazione e lo svilimento: L’autore non si limita a descrivere la bellezza violata, ma insiste sulla “forma umana” alterata, sulle membra “grossolane”, sulla “miseria [che] l’aveva schiacciata da bambina con tutti gli stenti che deformano e induriscono il corpo, l’anima e l’intelligenza” (vv. 13-14). L’effetto espressivo è quello di una profonda denuncia sociale, che mostra come la povertà non sia solo assenza di beni materiali, ma una forza distruttiva che annienta la dignità e l’essenza stessa dell’individuo.
Il procedimento descrittivo di Verga è finalizzato a creare una figura umana non idealizzata ma veritiera e dolorosa, che incarna la condizione di abbrutimento causata dalla miseria, suscitando nel lettore una pietà profonda e una consapevolezza della drammaticità della realtà sociale dell’epoca.
4. Quali sono le conseguenze della morte di Janu per Nedda?
La morte di Janu ha conseguenze devastanti per Nedda, aggravando ulteriormente la sua già precaria condizione di miseria e solitudine:
- Perdita del sostegno economico e sociale: Janu era il suo compagno e, presumibilmente, una fonte di un sia pur minimo sostegno economico. La sua morte la lascia sola e, soprattutto, priva della possibilità di lavorare. Nedda, incinta e poi madre, diventa ancora meno appetibile come manovale, essendo vista come meno efficiente. Le “ridevano in faccia” (v. 20) quando cercava lavoro, non per scherno morale, ma per la sua ridotta capacità di produzione.
- Isolamento e rifiuto sociale: Dopo i primi rifiuti, Nedda “non osò cercare più oltre, e si chiuse nella sua casipola” (v. 22). Questo indica un ulteriore isolamento dal mondo esterno e un senso di vergogna o rassegnazione. La società la respinge per la sua condizione di madre nubile e di donna indebolita, nonostante la sua estrema povertà.
- Consunzione dei beni: I pochi “soldi raccolti in fondo alla calza” e i pochi “bei” vestiti e fazzoletti che possedeva “se ne andarono l’un dopo l’altro” (vv. 23-24), simbolo della sua progressiva spoliazione di ogni avere.
- Nascita di una figlia con un destino già segnato: La bambina, descritta come “rachitica e stenta” (v. 25), nasce già con i segni della miseria. Nedda, alla sua nascita, piange non per la delusione di non avere un maschio, ma con lo stesso dolore provato alla morte della madre, quasi a riconoscere nella figlia il ripetersi del suo stesso tragico destino di stenti e privazioni (“Così era stato di sua madre, così di sua nonna, così sarebbe stato di sua figlia”, v. 14-15).
- Dipendenza dalla carità: Viene soccorsa solo dallo “zio Giovanni” con “quella carità indulgente e riparatrice senza la quale la morale del curato è ingiusta e sterile” (vv. 25-27), un aiuto che la salva dalla morte per fame ma non dalla miseria.
In definitiva, la morte di Janu condanna Nedda a una discesa ancora più profonda nella povertà, nell’emarginazione e in un isolamento che la priva di quasi ogni speranza.
5. Le caratteristiche psicologiche della protagonista divengono esplicite nelle sue reazioni alla nascita della figlia. Prova a individuarle, commentando la conclusione del brano.
Le caratteristiche psicologiche di Nedda, già intuibili dalla sua “timida e ruvida” attitudine iniziale e dalla sua “triste e continua rassegnazione” (vv. 1-2, 9), divengono pienamente esplicite e toccanti nelle sue reazioni alla nascita della figlia, soprattutto nella conclusione del brano:
- Profonda rassegnazione e fatalismo: Nedda è una figura che ha interiorizzato la sua miseria come un destino ineluttabile. Il pianto alla nascita della figlia, “come aveva pianto la sera in cui aveva chiuso l’uscio del casolare dietro al cataletto che se ne andava, e s’era trovata senza la mamma” (vv. 26-28), non è un pianto di gioia o di delusione per il sesso del neonato, ma un dolore per la vita di stenti e sofferenze che la bambina è destinata a vivere. È la rassegnazione di fronte a un ciclo di miseria e perdita che si ripete.
- Istinto materno e dignità disperata: Nonostante tutta la sofferenza e la disperazione, Nedda mostra un istinto materno indomito e una dignità estrema. L’ultima frase, “ma non volle che la buttassero alla Ruota” (v. 28), è cruciale. La Ruota era il luogo dell’abbandono per i neonati non voluti o che le famiglie non potevano mantenere. Il rifiuto di Nedda, pur nella sua condizione di estrema povertà e di prospettive nulle, è un gesto di amore e di resistenza disperata. Significa che, nonostante tutto, ella sceglie di tenere con sé la figlia, di accettare il suo destino e di non rinunciare a quel minimo di legame affettivo che le rimane. È una forma di dignità che si oppone alla crudele logica della sopravvivenza.
- Silenziosa accettazione del dolore: Nedda è un personaggio che non si ribella esplicitamente, ma accetta il suo destino con un silenzio carico di sofferenza. Anche la narrazione della morte di Janu è priva di enfasi drammatica, e il suo dolore è espresso più attraverso la sua pallida reazione e i suoi “grand’occhi spalancati” (v. 19) che attraverso parole o gesti eclatanti.
La conclusione del brano è estremamente potente perché riassume la tragedia della condizione di Nedda: una vita segnata dalla miseria, dalla perdita e dalla rassegnazione, ma che trova un barlume di umanità e dignità nel rifiuto di abbandonare la propria prole al destino della Ruota, in un gesto di amore silenzioso e disperato che eleva la sua figura al di là della semplice condizione di “vinta”.
Interpretazione
La figura di Nedda, “ragazza bruna, vestita miseramente”, è senza dubbio la prima di quelle “dolenti figure di vinti” che Giovanni Verga ritrarrà con maestria nel suo celebre ciclo romanzesco. Pubblicata nel 1874, Nedda anticipa pienamente i temi e lo stile che caratterizzeranno opere monumentali come I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo, fungendo da prototipo per l’universo verghiano degli “ultimi” e dei diseredati.
Nedda incarna la condizione di un’umanità schiacciata da un destino ineluttabile di miseria e fatica. La sua “bellezza muliebre” è “alterata profondamente” dalle fatiche, le sue mani e i suoi piedi sono deturpati dalla dura realtà del lavoro agricolo. La sua è una vita di stenti, dove il “cencio lavato” e lo “spago” per i capelli sono simboli di una povertà estrema che non concede spazio alla dignità o all’aspirazione a una vita migliore. Questa descrizione fisica, cruda e realistica, serve a veicolare la tesi verista del determinismo sociale: la miseria non è una condizione temporanea, ma un marchio ereditario, un destino che si trasmette di generazione in generazione (“Così era stato di sua madre, così di sua nonna, così sarebbe stato di sua figlia”).
Questa visione di un destino segnato dalla miseria è centrale in tutte le figure dei “vinti”. Si pensi ai personaggi de I Malavoglia, la famiglia di pescatori di Aci Trezza che, attraverso una serie di sventure (il naufragio della Provvidenza, la morte dei figli, le difficoltà economiche), vede i suoi sforzi per migliorare la propria condizione fallire miseramente. Padron ‘Ntoni, Luca, Mena, ‘Ntoni: tutti lottano per mantenere il “nido” familiare e per superare la loro condizione, ma sono inesorabilmente sconfitti dalla logica spietata del progresso, del caso e di una società che non perdona i deboli. La loro “religione dell’ostrica”, ovvero l’attaccamento al proprio scoglio per paura di essere divorati dal “pesce grosso”, è l’espressione di questa rassegnazione.
Analogamente, in Mastro-don Gesualdo, il protagonista Gesualdo Motta, pur partendo da una condizione di povertà e riuscendo ad accumulare un’ingente fortuna attraverso il lavoro duro e l’ingegno, finisce per essere un “vinto” della propria stessa ambizione. Il suo successo materiale non si traduce in felicità o riconoscimento sociale; la sua ricchezza non gli apre le porte dell’aristocrazia (il “don” nel titolo è ironico), e muore solo, disprezzato dalla figlia e abbandonato da tutti. La sua è la sconfitta di chi crede nel progresso individuale in una società in cui le distinzioni di classe sono incolmabili, e dove il valore del lavoro non è sufficiente a garantire la vera integrazione.
Nedda condivide con questi personaggi la rassegnazione profonda e l’assenza di ribellione attiva. Come i Malavoglia e Gesualdo, ella non si lamenta, non si ribella con forza contro il suo destino. Il suo dolore è espresso in modo silenzioso, attraverso il pianto, gli occhi spalancati, il rifiuto di abbandonare la figlia alla Ruota. Questo silenzio, lungi dall’essere passività, è la dignità dei vinti, una forma di resistenza muta di fronte all’ingiustizia.
Tuttavia, Nedda si distingue dai “vinti” del ciclo per la sua natura più primordiale, per una certa elementarità che la rende quasi un archetipo della sofferenza contadina. Il suo è un “bozzetto”, un affresco rapido, che non ha la complessità epica dei romanzi maggiori. Ma è proprio in questa essenzialità che risiede la sua forza: ella rappresenta la purezza di un’anima semplice, che si aggrappa all’amore e alla vita, anche quando tutto sembra perduto. Il suo rifiuto di gettare la figlia alla Ruota, un atto di estrema abnegazione, è un barlume di speranza e di umanità in un contesto di desolazione.
Al di là di Verga, il tema degli “ultimi” attraversa gran parte della letteratura e delle arti del XIX secolo, e oltre. Autori come Émile Zola, con il suo naturalismo francese, hanno ritratto le miserie del proletariato industriale (Germinal, L’ammazzatoio), mostrando come l’ambiente e la genetica condizionino il destino degli individui. In campo artistico, pittori come i realisti francesi (Courbet, Millet) o, in Italia, i Macchiaioli, hanno rappresentato la vita dei contadini e dei lavoratori con un’attenzione alla verità del quotidiano, spesso con un’aura di dignitosa sofferenza. Si pensi a opere come “Le spigolatrici” di Millet, che evocano la fatica e la povertà delle donne nei campi.
In conclusione, Nedda è una figura tragica ma profondamente umana, che con la sua storia anticipa e incarna l’essenza del Verismo verghiano. La sua vicenda ci ricorda che la letteratura, attraverso il ritratto degli “ultimi” e dei “vinti”, ha il potere di gettare luce sulle ingiustizie sociali e di commuovere il lettore, spingendolo a riflettere sulla fragilità della condizione umana e sulla necessità di una maggiore compassione e giustizia.