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ESAMI DI STATO DI ISTRUZIONE SECONDARIA SUPERIORE PRIMA PROVA SCRITTA – PROVA DI ITALIANO – Sessione Suppletiva 2019
TRACCIA
TIPOLOGIA B – ANALISI E PRODUZIONE DI UN TESTO ARGOMENTATIVO
PROPOSTA B2 – Pier Aldo Rovatti, “Siamo diventati analfabeti della riflessione, ecco perché la solitudine ci spaventa”
Testo: «Una delle più celebri poesie di Francesco Petrarca comincia con questi versi: “Solo e pensoso i più deserti campi / vo mesurando a passi tardi e lenti”. Quelli della mia età li hanno imparati a memoria, e poi sono rimasti stampati nella nostra mente. Non saprei dire delle generazioni più giovani, dubito però che ne abbiano una famigliarità quasi automatica. Bisogna riavvolgere la pellicola del tempo di circa ottocento anni per collocarli nella storia della nostra letteratura e nella cultura che vi si rispecchia, eppure è come se questi versi continuassero a parlarci con il loro elogio della solitudine […]. Dunque l’elogio di Petrarca resta così attuale?
No e sì. No, perché intanto la solitudine è diventata una malattia endemica che affligge quasi tutti e alla quale evitiamo di pensare troppo. Ma anche sì, perché non riusciamo a vivere oppressi come siamo dalla mancanza di pensiero e di riflessione in una società dove c’è sempre meno tempo e spazio per indugi e pause. Anzi, dove la pausa per riflettere viene solitamente considerata dannosa e perdente, e lo stesso modo di dire “una pausa di riflessione” di solito è usato come un trucco gentile per prendere congedo da chi insiste per starci vicino.
Non sentiamo il bisogno di “deserti tascabili”, cioè individuali, maneggiabili, personalizzati, per il semplice fatto che li abbiamo in casa, nella nostra stanza, nella nostra tasca, resi disponibili per ciascuno da una ormai generalizzata tecnologia della solitudine. Perché mai dovremmo uscire per andare a misurare a passi lenti campi lontani (o inventarci una qualche siepe leopardiana al di là della quale figurarci spazi infiniti), a portata di clic, una tranquilla solitudine prêt-à-porter di dimensioni incalcolabili, perfezionabile e potenziabile di anno in anno?
Non c’è dubbio che oggi la nostra solitudine, il nostro deserto artificiale, stia realizzandosi in questo modo, che sia proprio una fuga dai rumori e dall’ansia attraverso una specie di ritiro spirituale ben protetto in cui la solitudine con i suoi morsi (ecco il punto!) viene esorcizzata da una incessante fornitura di socialità fantasmatica. Oggi ci sentiamo terribilmente soli, di fatto lo siamo, e cerchiamo riparo non in una relazione sociale che ormai ci appare barrata, ma nell’illusione di essere presenti sempre e ovunque grazie a un congegno che rappresenta effettivamente il nostro essere soli con noi stessi. Un circolo vizioso.
Stiamo popolando o desertificando le nostre vite? La domanda è alquanto retorica.
È accaduto che parole come “solitudine”, “deserto”, “lentezza”, cioè quelle che risuonano negli antichi versi di Petrarca, hanno ormai cambiato rotta, sono diventate irriconoscibili e non possiedono più alcuna prensione sulla nostra realtà. Eppure ci parlano ancora e vorremmo che producessero echi concreti nelle nostre pratiche.
[…] Ma allora di cosa ci parlano quei versi che pure sembrano ancora intrisi di senso? È scomparso il nesso tra le prime due parole, “solo” e “pensoso”. Oggi siamo certo soli, come possiamo negarlo nonostante ogni artificio, ogni stampella riparatrice? […] Siamo soli ma senza pensiero, solitari e incapaci di riflettere.
[…] Di solito non ce ne accorgiamo, ci illudiamo che non esista o sia soltanto una brutta sensazione magari prodotta da una giornata storta. E allora si tratta di decidere se sia meglio continuare a vivere in una sorta di sonnambulismo oppure tentare di svegliarci, di guardare in faccia la nostra condizione, di scuoterci dal comodo letargo in cui stiamo scivolando. Per farlo, per muovere un passo verso questo scomodo risveglio, occorrerebbe una difficile operazione che si chiama pensiero. In primo luogo, accorgersi che stiamo disimparando a pensare giorno dopo giorno e che invertire il cammino non è certo qualcosa di semplice.
Ma non è impossibile. Ci servirebbero uno scarto, un cambiamento di direzione. Smetterla di attivarsi per rimpinzare le nostre ore, al contrario tentare di liberare noi stessi attraverso delle pause e delle distanze. […]
Siamo infatti diventati degli analfabeti della riflessione. Per riattivare questa lingua che stiamo smarrendo non dovremmo continuare a riempire il sacco del nostro io, bensì svuotarlo. Ecco forse il segreto della solitudine che non siamo più capaci di utilizzare.»
da “L’espresso” del 6/3/2018, Pier Aldo Rovatti, “Siamo diventati analfabeti della riflessione, ecco perché la solitudine ci spaventa”
Comprensione e analisi del testo
- Riassumi il contenuto del testo, evidenziandone gli snodi argomentativi.
- Qual è il significato del riferimento ai versi di Petrarca?
- Nel testo ricorre frequentemente il termine “deserto”, in diverse accezioni; analizzane il senso e soffermati in particolare sull’espressione “deserti tascabili” (riga 12).
- Commenta il passaggio presente nel testo: “la solitudine con i suoi morsi (ecco il punto!) viene esorcizzata da una incessante fornitura di socialità fantasmatica” (righe 18-19).
Produzione
Sulla base delle conoscenze acquisite, delle tue letture personali e della tua sensibilità, elabora un testo nel quale sviluppi il tuo ragionamento sul tema della solitudine e dell’attitudine alla riflessione nella società contemporanea. Argomenta in modo tale che gli snodi del tuo ragionamento siano organizzati in un testo coerente e coeso.
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Durata massima della prova: 6 ore.
È consentito l’uso del dizionario italiano e del dizionario bilingue (italiano-lingua del paese di provenienza) per i candidati
di madrelingua non italiana.
Non è consentito lasciare l’Istituto prima che siano trascorse 3 ore dalla consegna delle tracce.
SVOLGIMENTO del tema argomentativo su: “Siamo diventati analfabeti della riflessione, ecco perché la solitudine ci spaventa”
COMPRENSIONE E ANALISI
1. Riassunto del contenuto e snodi argomentativi
Il saggio di Pier Aldo Rovatti sviluppa una riflessione critica sulla trasformazione del concetto di solitudine nella società contemporanea, partendo dai celebri versi petrarcheschi “Solo e pensoso i più deserti campi”.
Snodi argomentativi principali:
- Il paradosso della solitudine contemporanea: L’autore constata come la solitudine sia diventata “una malattia endemica” nell’epoca moderna, pur essendo apparentemente esorcizzata dalla tecnologia.
- La perdita del nesso solitudine-pensiero: Mentre Petrarca univa inscindibilmente l’essere “solo” e “pensoso”, oggi siamo “soli ma senza pensiero, solitari e incapaci di riflettere”.
- La tecnologia come falsa soluzione: I dispositivi tecnologici offrono “deserti tascabili” che creano l’illusione di una solitudine controllabile, ma in realtà alimentano una “socialità fantasmatica”.
- L’analfabetismo della riflessione: La società contemporanea ha perduto la capacità di utilizzare produttivamente la solitudine come spazio di pensiero e introspezione.
- La proposta di rimedio: Rovatti suggerisce la necessità di “svuotare” piuttosto che “riempire” il nostro io, recuperando pause e distanze autentiche.
2. Il significato del riferimento ai versi di Petrarca
Il richiamo ai versi “Solo e pensoso i più deserti campi / vo mesurando a passi tardi e lenti” funge da contrappunto storico e culturale alla condizione contemporanea. Petrarca rappresenta un modello di solitudine feconda, in cui l’isolamento fisico si accompagna necessariamente all’attività riflessiva (“pensoso”).
Questi versi incarnano un ideale di solitudine cercata e vissuta consapevolmente, caratterizzata dalla lentezza (“passi tardi e lenti”) e dalla ricerca di spazi deserti che favoriscano l’introspezione. Rovatti utilizza questo riferimento per evidenziare la frattura tra la tradizione culturale occidentale, che valorizzava la solitudine contemplativa, e la modernità tecnologica che l’ha svuotata di significato.
3. Analisi del termine “deserto” e dell’espressione “deserti tascabili”
Il termine “deserto” ricorre nel testo con diverse accezioni simboliche:
- Deserto petrarchesco: Spazio fisico e mentale di raccoglimento, sinonimo di purificazione e concentrazione spirituale.
- Deserto artificiale: La solitudine tecnologicamente mediata della contemporaneità.
- Deserti tascabili: Metafora efficace per descrivere gli spazi di isolamento virtuale offerti dai dispositivi digitali.
L’espressione “deserti tascabili” è particolarmente significativa perché evidenzia la contraddizione della solitudine moderna: questi spazi sono “individuali, maneggiabili, personalizzati”, quindi apparentemente su misura per i nostri bisogni, ma rimangono artificiali e incapaci di generare autentica riflessione. La portabilità (“tascabili”) simboleggia la mercificazione della solitudine, ridotta a prodotto di consumo “prêt-à-porter”.
4. Commento sul passaggio “socialità fantasmatica”
Il passaggio chiave “la solitudine con i suoi morsi (ecco il punto!) viene esorcizzata da una incessante fornitura di socialità fantasmatica” cattura l’essenza del paradosso contemporaneo.
I “morsi” della solitudine rappresentano quella componente di disagio e inquietudine che, nella concezione tradizionale, spingeva alla riflessione e alla crescita interiore. Oggi invece questo disagio viene “esorcizzato” – termine che evoca pratiche magiche di allontanamento del male – attraverso una socialità “fantasmatica”, cioè illusoria, priva di sostanza reale.
Questa socialità fantasmatica, alimentata dai social network e dalle connessioni digitali, crea l’illusione di essere sempre in compagnia pur rimanendo sostanzialmente soli. È un circolo vizioso perché impedisce di affrontare costruttivamente la solitudine, mantenendoci in una condizione di dipendenza da stimoli esterni.
PRODUZIONE
La solitudine perduta: riflessioni su un’epoca senza pause
La diagnosi impietosa di Pier Aldo Rovatti sulla nostra condizione di “analfabeti della riflessione” tocca uno dei nervi più esposti della contemporaneità. In un’epoca caratterizzata da un’accelerazione senza precedenti dei ritmi di vita e da un’iperconnessione globale, abbiamo paradossalmente smarrito l’arte più antica e necessaria dell’umanità: quella di stare soli con noi stessi in modo produttivo.
Il paradosso dell’iperconnessione
Viviamo immersi in quello che Sherry Turkle ha definito “alone together”, soli insieme: fisicamente isolati ma digitalmente iperconnessi. Questa condizione genera un paradosso esistenziale profondo. Da un lato, non siamo mai stati così collegati con il mondo; dall’altro, non siamo mai stati così incapaci di collegarci con noi stessi. La tecnologia, che doveva liberarci dall’isolamento, ha finito per imprigionarci in una forma più sottile ma altrettanto alienante di solitudine.
I “deserti tascabili” di cui parla Rovatti sono diventati i nostri rifugi abituali: smartphone, tablet, social network che promettono compagnia istantanea e distrazione immediata. Ma questi strumenti, proprio mentre ci connettono al mondo esterno, ci disconnettono dalla nostra interiorità. Siamo costantemente raggiungibili ma irraggiungibili a noi stessi, sempre disponibili per gli altri ma indisponibili per la riflessione personale.
La perdita dell’arte del pensare
La riflessione richiede tempo, silenzio, vuoto. Nella società dell’informazione continua e della stimolazione costante, questi elementi sono diventati intollerabili. Abbiamo sviluppato una vera e propria “fobia del vuoto” che ci spinge a riempire ossessivamente ogni momento di pausa con input esterni: notifiche, messaggi, contenuti multimediali.
Questa compulsione al riempimento ha conseguenze profonde sulla qualità del nostro pensiero. Come osservava già Pascal nel Seicento, “tutti i problemi dell’uomo derivano dalla sua incapacità di stare seduto da solo in una stanza”. Oggi questa incapacità si è moltiplicata esponenzialmente. Non riusciamo più a sostenere il peso del silenzio, l’inquietudine feconda della solitudine, la fatica necessaria del pensiero che deve farsi strada attraverso la complessità dell’esperienza.
Le conseguenze esistenziali dell’analfabetismo riflessivo
L’incapacità di stare soli con noi stessi ha ripercussioni che vanno ben oltre la dimensione individuale. Una società di individui incapaci di riflessione profonda è una società vulnerabile alla manipolazione, alla superficialità, al pensiero unico. Senza la capacità di elaborare criticamente le informazioni e le esperienze, diventiamo facilmente preda di mode intellettuali, slogan pubblicitari, polarizzazioni ideologiche.
Inoltre, la perdita della dimensione contemplativa impoverisce la nostra capacità di dare senso all’esistenza. La vita diventa una successione frenetica di eventi senza un filo conduttore, un accumulo di esperienze senza una sintesi interpretativa. Ci muoviamo in una perenne superficialità che ci impedisce di raggiungere quella profondità necessaria per comprendere chi siamo e cosa vogliamo davvero dalla vita.
La solitudine come risorsa: verso un nuovo umanesimo della pausa
Recuperare l’arte della solitudine produttiva non significa tornare nostalgicamente al passato, ma reimparare a utilizzare una risorsa antropologica fondamentale. La solitudine, quella autentica, non è isolamento sociale ma incontro con se stessi. È lo spazio in cui possiamo elaborare le esperienze, confrontarci con le nostre contraddizioni, dare forma ai nostri progetti di vita.
Come suggerisce Rovatti, il segreto sta nel “svuotare” piuttosto che “riempire” il nostro io. Questo svuotamento non è rinuncia ma purificazione, non è perdita ma essenzializzazione. Significa imparare a distinguere tra il rumore e il suono, tra l’informazione e la conoscenza, tra la stimolazione e la crescita.
Proposte per una rivoluzione della lentezza
Riappropriarsi della solitudine riflessiva richiede un cambio di paradigma culturale. Dovremmo iniziare a considerare la pausa non come perdita di tempo ma come investimento esistenziale. La lentezza non come inefficienza ma come qualità. Il silenzio non come vuoto da riempire ma come spazio da abitare.
Concretamente, questo potrebbe tradursi in pratiche semplici ma rivoluzionarie: momenti quotidiani di disconnessione digitale, passeggiate senza destinazione, letture che richiedono tempo e concentrazione, dialoghi interiori senza fretta di arrivare a conclusioni. Si tratta di ricreare quelle condizioni che permettevano ai nostri predecessori di essere “soli e pensosi”, di misurare a “passi tardi e lenti” i deserti necessari dell’anima.
Conclusione: il coraggio della solitudine
La sfida che abbiamo davanti non è tecnologica ma antropologica. Non si tratta di demonizzare gli strumenti digitali ma di ritrovare la capacità di governarli invece di esserne governati. Il vero coraggio richiesto dalla nostra epoca non è quello di essere sempre connessi, ma quello di disconnettersi quando necessario. Non quello di essere sempre disponibili, ma quello di ritagliarsi spazi di indisponibilità creativa.
Solo recuperando il coraggio della solitudine potremo tornare a essere, come Petrarca, non solo “soli” ma anche “pensosi”. Solo così potremo trasformare il deserto digitale che ci circonda in quello spazio fecondo di riflessione che ogni epoca, compresa la nostra, ha il diritto e il dovere di coltivare.