
Turno irrompe nel campo troiano, Eneide, IX 672-761
28 Dicembre 2019
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28 Dicembre 2019Axolotl di Julio Cortázar: un viaggio nell’identità e nella percezione
“Axolotl” è un celebre racconto dello scrittore argentino Julio Cortázar (1914-1984), pubblicato per la prima volta nella raccolta Final del juego (La fine del gioco) nel 1956. Questo racconto è un esempio paradigmatico della narrativa fantastica di Cortázar, dove il confine tra realtà e immaginazione si dissolve, e il quotidiano si tinge di elementi inquietanti e surreali, spingendo il lettore a interrogarsi sulla natura dell’identità, della percezione e della conoscenza.
1. Trama: L’Ossessione e la Metamorfosi
Il racconto è narrato in prima persona da un protagonista senza nome che sviluppa un’ossessione per gli axolotl, strane creature anfibie messicane, che va a osservare quotidianamente nell’acquario del Jardin des Plantes a Parigi. Inizialmente attratto dalla loro immobilità e dal loro aspetto misterioso – piccole figure rosa, quasi traslucide, con occhi dorati e branchie simili a corallo – il narratore si sente sempre più legato a loro, percependo una connessione profonda e inspiegabile.
La sua osservazione diventa un rito quasi mistico. Si china sul vetro, cercando di penetrare il mistero dei loro sguardi, sentendosi contemporaneamente un intruso e un iniziato. La sua fascinazione si trasforma gradualmente in una convinzione che gli axolotl soffrano, che siano prigionieri di un’antica condanna, e che lo stiano chiamando, chiedendo di essere salvati.
Il culmine del racconto è la trasformazione del narratore in uno degli axolotl. Questo passaggio avviene in modo improvviso e senza transizione: mentre il suo viso è incollato al vetro dell’acquario, egli vede il proprio riflesso al di fuori, e contemporaneamente si rende conto di essere diventato uno degli axolotl all’interno della vasca. La sua coscienza umana rimane, ma è intrappolata nel corpo dell’anfibio.
Il racconto si conclude con la prospettiva dell’axolotl, che osserva l’uomo (il suo ex-sé) tornare all’acquario, sempre meno frequentemente, e sempre più distante. L’axolotl, pur pensando ancora con una mente umana (o forse, ogni axolotl pensa come un uomo, come suggerisce), comprende l’impossibilità di comunicare la sua nuova condizione e si consola con l’idea che l’uomo, scrivendo un racconto su di loro, stia in realtà scrivendo la verità della loro trasformazione.
2. Temi Principali: Il Disfacimento dei Confini
“Axolotl” è un’opera densa di significati, che esplora temi complessi:
- Identità e Trasformazione: Il tema centrale è la fluidità e la fragilità dell’identità. La metamorfosi del protagonista solleva interrogativi sulla natura dell’essere: cosa definisce un individuo? Il corpo, la coscienza, la percezione? La storia suggerisce che l’identità non è fissa, ma può dissolversi o trasferirsi.
- Alienazione e Solitudine: Il protagonista è un uomo solo, la cui ossessione lo isola dal mondo esterno. Dopo la trasformazione, l’alienazione si acuisce: è prigioniero in un corpo diverso, incapace di comunicare la sua condizione, osservato da quello che era il suo sé precedente, ora irraggiungibile.
- Percezione e Realtà: Il racconto sfida la nostra comprensione della realtà. La trasformazione è reale o è una proiezione psicologica dell’ossessione del narratore? Cortázar gioca con l’ambiguità, suggerendo che la realtà è soggettiva e può essere alterata da una percezione intensa e ossessiva.
- L’Ossessione e la Conoscenza Profonda: L’ossessione del narratore per gli axolotl non è mera curiosità, ma un desiderio di conoscenza profonda, di penetrare un mistero. Questa conoscenza, tuttavia, non è razionale o scientifica, ma intuitiva, empatica, quasi mistica, che porta a una fusione con l’oggetto dell’ossessione.
- Il Limite e l’Incomunicabilità: Il vetro dell’acquario è una metafora potente del limite invalicabile tra mondi diversi, tra l’umano e l’animale, tra la libertà e la prigionia, tra la comprensione e l’incomunicabilità.
- La Natura del Tempo: Gli axolotl vivono in un’immobilità quasi minerale, in un tempo che sembra sospeso. La loro esistenza è “infinitamente lenta e distante”, un contrasto con il tempo umano, e la loro percezione del giorno e della notte è diversa (“per loro il giorno non finiva mai”).
3. Stile e Tecniche Narrative: Il Fantastico Cortazariano
Cortázar utilizza il suo stile distintivo per creare un’atmosfera unica:
- Narrazione in Prima Persona: Il racconto è interamente in prima persona, il che permette al lettore di immergersi nella mente del protagonista e di vivere la sua ossessione e la sua trasformazione dall’interno, amplificando il senso di inquietudine.
- Atmosfera Surreale e Fantastica: Il fantastico di Cortázar non è mai esplicito o sovrannaturale in modo tradizionale. Si insinua nel quotidiano, rendendo l’evento straordinario quasi plausibile, e creando un senso di straniamento e ambiguità.
- Linguaggio Preciso e Dettagliato: Nonostante la natura surreale della trama, la descrizione degli axolotl è estremamente dettagliata e scientificamente accurata (le branchie, le zampe, gli occhi), il che conferisce credibilità all’esperienza del narratore e rende la metamorfosi ancora più perturbante.
- Struttura Circolare/A Specchio: Il racconto inizia con l’affermazione “Ora sono un axolotl” e si conclude con l’axolotl che riflette sull’uomo che lo osserva, chiudendo il cerchio della trasformazione e della percezione. Questa struttura a specchio enfatizza la reversibilità e la ciclicità dell’esperienza.
- Ambiguità Voluta: Cortázar mantiene deliberatamente l’ambiguità sulla natura della trasformazione. È un evento fisico reale o una profonda identificazione psicologica che porta a una percezione alterata della realtà? Il lettore è lasciato a interrogarsi.
4. Significato e Interpretazioni
“Axolotl” si presta a molteplici interpretazioni:
- Allegoria dell’Atto Creativo: Alcuni critici vedono nel racconto un’allegoria dell’atto creativo o dell’empatia artistica. L’artista (il narratore) si immerge così profondamente nell’oggetto della sua osservazione da fondersi con esso, perdendo la propria identità per acquisire una nuova prospettiva, che poi cerca di comunicare attraverso la scrittura.
- Critica all’Antropocentrismo: Il racconto può essere letto come una critica alla visione antropocentrica del mondo. L’uomo non è l’unica forma di coscienza valida; altre forme di vita, apparentemente “inferiori” o “insensibili”, possono possedere una propria, profonda consapevolezza.
- Esplorazione del Subconscio: La metamorfosi può essere interpretata come un viaggio nel subconscio, dove le paure, le ossessioni e i desideri più reconditi prendono forma, alterando la percezione della realtà.
Conclusione
“Axolotl” di Julio Cortázar è un racconto ipnotico e inquietante che continua a esercitare un forte fascino. Con la sua prosa elegante e la sua trama surreale, Cortázar ci invita a guardare oltre le apparenze, a mettere in discussione i confini della nostra identità e della realtà stessa. È una meditazione profonda sull’ossessione, sull’empatia e sulla solitudine, che ci lascia con il dubbio persistente sulla natura di ciò che siamo e di ciò che percepiamo.
Testo del racconto Axolotl di Julio Cortázar
C’è stato un tempo in cui pensavo molto agli axolotl. Andavo a vederli all’acquario del Jardin des Plantes e rimanevo per ore a fissarli, osservando la loro immobilità, i loro movimenti oscuri e misteriosi. Ora sono un axolotl.
Il caso mi ci ha portato una mattina di primavera, quando Parigi si apriva come una coda di pavone dopo il lungo inverno. Scesi lungo il boulevard de Port-Royal, imboccai rue Saint-Marcel e L’Hôpital, vidi il verde spuntare tra il grigiore della città e mi ricordai dei leoni. Ero sempre stato attratto dai leoni e dalle pantere, ma non ero mai entrato in quell’edificio umido e buio che ospitava gli acquari. Appoggiai la bicicletta alla cancellata e andai a vedere i tulipani. I leoni erano brutti e tristi, la mia pantera dormiva. Allora scelsi gli acquari, oltrepassai pesci comuni e colorati, finché non mi imbattei, quasi per caso, negli axolotl. Rimasi un’ora a guardarli e poi uscii come stordito.
Alla biblioteca Saint-Geneviève consultai un dizionario e scoprii che gli axolotl sono forme larvali, dotate di branchie, di una specie di anfibi del genere Ambystoma . Che fossero messicani lo sapevo già, a vederli: quelle loro faccine rosa, quasi azteche, e la scritta sopra l’acquario me lo confermavano. Lessi che esemplari simili erano stati trovati in Africa, capaci di vivere sulla terraferma durante i periodi di siccità e di tornare in acqua con l’arrivo delle piogge. Trovai il loro nome in spagnolo, ajolote , accompagnato da una nota che li indicava come commestibili e che il loro olio, una volta, era usato, come quello di fegato di merluzzo.
Non volli consultare testi specialistici, ma tornai il giorno seguente al Jardin des Plantes. Cominciai ad andarci ogni mattina, a volte anche nel pomeriggio. Il guardiano dell’acquario sorrideva, perplesso, ogni volta che mi vedeva pagare il biglietto. Mi appoggiavo alla sbarra di ferro che circonda le vasche e li guardavo. Non c’era nulla di strano in questo, perché fin dal primo istante avevo capito che esisteva un legame tra noi, qualcosa di infinitamente distante eppure presente. Mi era bastato fermarmi, quella prima mattina, davanti al vetro, dove alcune bolle salivano nell’acqua. Gli axolotl si ammassavano in un fondo angusto e squallido (solo io posso sapere quanto), fatto di pietra e muschio.
Ce n’erano nove e la maggior parte teneva la testa appoggiata al vetro, fissando con i loro occhi dorati chiunque si avvicinasse. Turbato, quasi imbarazzato, mi sentivo come un invadente avvicinandomi a quelle figure silenziose e immobili sul fondo della vasca. Ne isolai mentalmente una, un po’ distaccata dalle altre, per osservarla meglio. Vidi un corpicino rosa, quasi traslucido (pensai a quelle statuette cinesi di vetro opalescente), simile a un piccolo lucertolone di quindici centimetri, con una coda di pesce straordinariamente delicata, la parte più sensibile del loro corpo. Lungo il dorso aveva una pinna trasparente che si univa alla coda, ma ciò che mi colpì furono le zampe, sottilissime, terminate in minuscole dita, con unghie quasi umane.
E poi vidi i loro occhi. Due puntini minuscoli, completamente dorati, privi di espressione ma intensi, come se mi guardassero e mi lasciassero entrare con lo sguardo, fino a perdersi in un mistero trasparente. Un sottile alone nero circondava l’occhio, incastonandolo nella carne rosa, nella pietra rosa della testa, vagamente triangolare, con i bordi curvi e irregolari, che gli dava l’aspetto di una statuetta consumata dal tempo. La bocca era quasi invisibile, nascosta dal profilo triangolare del muso; solo di profilo si intuiva la sua ampiezza. Di fronte, era solo una sottile fenditura. Ai lati della testa, dove ci si aspetterebbe le orecchie, avevano tre rametti rossi, simili a corallo — delle escrescenze vegetali, supposi fossero le branchie. Era l’unica parte visibilmente viva: ogni dieci o quindici secondi si irrigidivano e si abbassavano. A volte una zampa si muoveva appena, e vedevo le piccole dita posarsi con delicatezza sul muschio.
Non ci piace muoverci molto, e l’acquario è così piccolo. Appena avanziamo un poco, ci scontriamo con la coda o la testa di uno dei nostri simili. Nascono difficoltà, litigi, stanchezza. Il tempo passa meno pesante se stiamo fermi.
Fu questa loro quiete a catturarmi la prima volta che li vidi. In qualche modo oscuro, sentii di capire la loro volontà segreta: abolire lo spazio e il tempo con un’immobilità indifferente. Poi imparai meglio: la contrazione delle branchie, il movimento esplorativo delle zampine, la nuotata improvvisa (alcuni nuotano solo ondeggiando leggermente il corpo) mi mostrarono che potevano uscire da quel torpore minerale in cui sembravano sprofondati. Ma furono soprattutto i loro occhi a ossessionarmi. Accanto a loro, negli altri acquari, i pesci mostravano la banale stupidità dei loro occhi, simili ai nostri. Gli occhi degli axolotl, invece, parlavano di una vita diversa, di un altro modo di guardare.
Appoggiavo il viso al vetro (il guardiano tossiva nervoso, a volte) per vedere meglio quei punti dorati, l’ingresso a un mondo infinitamente lento e distante. Picchiare col dito sul vetro era inutile: non reagivano mai. I loro occhi continuavano a brillare con una luce dolce e terribile, fissandomi da una profondità insondabile che mi faceva girare la testa.
Eppure, nonostante la loro stranezza, sapevo che erano vicini. Lo sapevo già prima di diventare un axolotl. Lo capii il primo giorno che li vidi. I tratti antropomorfici delle scimmie rivelano, paradossalmente, quanto esse siano distanti da noi. L’assoluta mancanza di somiglianza tra gli axolotl e l’uomo confermava che il mio sentimento era autentico, non basato su analogie superficiali. Forse era la testa, quella forma triangolare rosa con gli occhietti dorati. Era qualcosa che guardava, che sapeva. Che reclamava. Non erano animali.
Sarebbe stato facile, quasi ovvio, cadere nella mitologia. Cominciai a immaginarli coscienti, prigionieri del loro corpo, condannati per sempre al silenzio e a una riflessione disperata. Il loro sguardo cieco, quel minuscolo disco dorato privo di espressione eppure terribilmente lucido, mi trapassava come un messaggio: “Salvaci, salvaci”. Mi sorprendevo a mormorare parole di conforto, a trasmettere speranze infantili. Loro continuavano a fissarmi immobili; a volte, improvvisamente, le ramette rosse delle branchie si irrigidivano. In quei momenti sentivo un dolore sordo: forse mi vedevano, percepivano il mio tentativo di entrare nella loro insondabile esistenza.
Non erano umani, ma in nessun animale avevo mai trovato un legame così profondo. Erano testimoni di qualcosa, e a volte giudici spietati. Mi sentivo indegno davanti a loro, quasi impuro. C’era una purezza spaventosa in quegli occhi trasparenti. Erano larve, ma larva vuol dire anche maschera, e fantasma. Dietro quelle facce azteche impassibili, ma crude, che cosa aspettava il suo momento?
Li temevo. Credo che, se non fossi stato circondato da altri visitatori e dal guardiano, non avrei osato restare solo con loro. “Lei se li mangia con gli occhi”, mi diceva ridendo il custode, che doveva considerarmi un po’ strano. Non capiva che erano loro a divorare me, lentamente, con uno sguardo d’oro. Fuori dall’acquario non facevo che pensarci, come se mi influenzassero a distanza. Andavo a vederli tutti i giorni, e di notte li immaginavo fermi nell’oscurità, avanzare piano una mano e incontrare quella di un altro. Forse i loro occhi vedevano anche al buio, e per loro il giorno non finiva mai. Gli occhi degli axolotl non hanno palpebre.
Ora so che non c’era nulla di strano, che doveva succedere. Ogni mattina, chinandomi sull’acquario, il riconoscimento cresceva. Soffrivano. Ogni fibra del mio corpo percepiva quel dolore muto, quella tortura immobile sul fondo dell’acqua. Aspettavano qualcosa: un antico dominio perduto, un tempo in cui il mondo era stato loro. Non poteva esserci una tale espressione terribile, capace di rompere la maschera di pietra dei loro volti, senza che vi fosse dolore, la prova di una condanna eterna, un inferno liquido.
Inutilmente cercavo di convincermi che fosse solo la mia sensibilità a proiettare in loro una coscienza inesistente. Loro e io sapevamo. Per questo non c’era nulla di strano in ciò che accadde. Il mio viso era incollato al vetro, gli occhi cercavano ancora una volta di penetrare il mistero di quegli occhi dorati senza iride né pupilla. Vedevo da vicinissimo la faccia di un axolotl fermo accanto al vetro. All’improvviso, senza transizione, vidi il mio viso riflesso nel vetro. Non vedevo più l’axolotl, ma me stesso, fuori dall’acquario, dall’altro lato del vetro. Allora il mio viso si allontanò… e io capii.
Solo una cosa era strana: continuare a pensare come prima, a sapere. Accorgermene fu come il terrore di un uomo sepolto vivo che si sveglia nel suo sarcofago. Fuori, il mio viso si avvicinava di nuovo al vetro, vedevo la mia bocca, le labbra strette nello sforzo di comprendere gli axolotl. Io ero un axolotl e sapevo, istantaneamente, che ogni comprensione era impossibile. Lui era fuori dall’acquario, con un pensiero umano. Conoscendolo, essendo lui, io ero un axolotl e vivevo nel mio mondo. L’orrore nasceva dal pensare di essere prigioniero in un corpo di axolotl, con la coscienza umana, sepolto vivo in un essere insensibile. Ma quel terrore cessò quando una zampina mi sfiorò la faccia. Girandomi appena, vidi un altro axolotl che mi guardava. E seppi che anche lui sapeva, senza bisogno di parole, con una chiarezza assoluta. O io ero dentro di lui, o tutti noi pensavamo come un unico uomo, incapaci di esprimerci, limitati allo splendore dorato dei nostri occhi che fissavano il viso dell’uomo incollato al vetro.
Lui è tornato molte volte, ma ora viene meno spesso. Passano settimane senza che si faccia vedere. Ieri è tornato, mi ha guardato a lungo e se n’è andato bruscamente. Mi è sembrato che non provasse più lo stesso interesse per noi, che venisse solo per abitudine. Poiché non faccio altro che pensare, ho pensato molto a lui. Mi è venuto in mente che all’inizio riuscivamo ancora a comunicare, che lui si sentiva più che mai legato al mistero che lo ossessionava. Ma ormai i ponti sono tagliati tra lui e me, perché ciò che era la sua ossessione ora è diventato un axolotl, estraneo alla sua vita umana. Credo che all’inizio fossi ancora in grado di tornare, in qualche modo, a lui, e di tener viva la sua curiosità. Ora sono definitivamente un axolotl, e se penso come un uomo è solo perché ogni axolotl pensa come un uomo, dentro la sua immagine di pietra rosa.
Mi sembra di avergli comunicato qualcosa nei primi giorni, quando ero ancora lui. E in questa solitudine definitiva, alla quale lui non tornerà più, mi consola il pensiero che forse scriverà su di noi, convincendosi di immaginare un racconto, mentre invece scriverà esattamente questo: tutto ciò che è accaduto tra lui e gli axolotl.