
Pessimismo eroico e opere scritte a Firenze e Napoli da Leopardi
28 Dicembre 2019
Lettura e commento di due poesie di Leopardi: La quiete dopo la tempesta e Il saba…
28 Dicembre 2019Il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” è una delle più celebri poesie di Giacomo Leopardi, composta nel 1828 e inserita nei Canti.
Questo componimento appartiene alla fase del pessimismo cosmico, in cui il poeta riflette sulla condizione universale dell’uomo, costretto a soffrire senza un senso definito.
Parafrasi della poesia “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”
1. Il pastore e la luna
Pastore: Luna, tu che viaggi silenziosa nel cielo, mi puoi dire che senso ha la tua esistenza? Ogni sera percorri sempre gli stessi sentieri, non sei stanca di ripetere il tuo cammino?
2. La vita del pastore e dell’uomo
Il pastore vive un’esistenza ripetitiva e monotona, proprio come la luna. Al mattino conduce il gregge nei pascoli, la sera si riposa, e la sua vita non ha altro scopo o speranza. Ma a cosa serve vivere così? E perché la mia esistenza è così breve mentre il tuo viaggio è eterno?
3. L’immagine del vecchio stanco
Un uomo anziano, malato e affaticato, cammina tra montagne e valli, lottando contro le difficoltà della vita, fino a cadere in un abisso, dimenticando tutto. Così è la vita dell’uomo: una fatica continua che si conclude con la morte.
4. La condizione dell’uomo
L’essere umano nasce tra dolori e rischi, e fin da subito i genitori devono consolarlo della sua esistenza. Ma perché far nascere qualcuno, se la vita è solo sofferenza? Se vivere è una sventura, perché continuiamo a farlo?
5. La luna conosce il mistero della vita?
Tu, luna, che sei eterna, forse conosci il senso di tutto questo: il dolore, la morte, lo scorrere del tempo. Tu sai perché la primavera è bella, perché il sole scalda, perché l’inverno gela. Ma io, uomo mortale, non riesco a trovare alcun senso.
6. L’invidia per gli animali
Pastore: Oh mia greggia, quanto ti invidio! Tu non sai della tua miseria e vivi senza il peso del pensiero. Ti riposi all’ombra tranquilla, mentre io, pur stando nello stesso luogo, non trovo pace. Perché gli animali vivono senza affanni e gli uomini soffrono il peso dell’esistenza?
7. Il destino di ogni essere vivente
Forse, se potessi volare o esplorare il mondo, sarei più felice. Ma forse mi sbaglio: in qualunque forma si nasca, l’esistenza è un destino crudele per tutti.
Analisi del testo
Temi principali
-
La ricerca del senso della vita
Il pastore si interroga sul significato della propria esistenza e della sofferenza umana, senza trovare risposte. -
L’indifferenza dell’universo
La luna, eterna e distante, non risponde al pastore: essa è simbolo dell’indifferenza del cosmo verso la sofferenza umana. -
Il pessimismo cosmico
Leopardi non attribuisce più la colpa della sofferenza alla società (come nel pessimismo storico), ma alla natura stessa, che ha condannato ogni essere vivente a una vita di dolore senza scopo. -
L’invidia per gli animali
Il pastore invidia la sua greggia, perché essa non ha la consapevolezza della sofferenza. L’uomo, invece, è destinato a riflettere sulla propria infelicità.
Struttura e stile
- La poesia è un idillio, come L’infinito o Alla luna, ma ha un tono più amaro e filosofico.
- Il linguaggio è semplice e musicale, con molte domande retoriche che sottolineano la disperazione del pastore.
- La luna è una figura simbolica: rappresenta sia un’amica muta del pastore, sia la distanza tra il cosmo e l’uomo.
Commento
Il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” è una poesia che racchiude tutto il pessimismo leopardiano: la vita è dolore, la natura è indifferente e non esiste un senso o una speranza. Leopardi anticipa il pensiero esistenzialista: l’uomo è un essere che soffre perché è consapevole della sua condizione. Eppure, il fascino di questa poesia sta nella sua bellezza malinconica: il pastore continua a interrogarsi, anche se sa che non avrà risposte.
Testo della poesia “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore;
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e più e più s’affretta,
Senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu volto:
abisso orrido, immenso,
ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.
Nasce l’uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell’umano stato:
altro ufficio più grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sì pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l’ardore, e che procacci
il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
star così muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
a che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono e della stanza
smisurata e superba,
e dell’innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
d’ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre là donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell’esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors’altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
non sol perché d’affanno
quasi libera vai;
ch’ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
tu se’ queta e contenta;
e gran parte dell’anno
senza noia consumi in quello stato.
ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
e un fastidio m’ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
sì che, sedendo, più che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
dimmi: perché giacendo
a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s’avess’io l’ale
sa volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo ,
più felice sarei, dolce mia greggia,
più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.