Università, l’Italia retrocede
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27 Gennaio 2019Anche Gelmini come Brunetta
Gelmini: “colpa anche della politica che ha illuso i giovani”
Il Sole 24 Ore – 18 gennaio 2010
«Non si può generalizzare, né affrontare in maniera semplicistica questioni come questa». Il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini – interpellata sulla boutade del ministro Renato Brunetta che ha auspicato una legge per mandare via di casa a 18 anni i bamboccioni italiani – esorta a non trascurare gli effetti della crisi economica, anche sui giovani.
«La crisi economica internazionale – ha affermato il ministro – impone di non trattare temi come questo in maniera semplicistica. E’ innegabile che i ragazzi abbiano difficoltà a trovare un lavoro, figuriamoci un alloggio per conto loro, e non li si può definire bamboccioni per questo. Noi stiamo cercando di dare il nostro contributo creando una scuola e una università di qualità, che prepari i giovani al meglio e li metta in condizione di competere con i coetanei degli altri paesi sul mercato del lavoro mondiale. E’ indispensabile – ha aggiunto il ministro – che entrino nel mondo del lavoro il prima possibile e il più preparati possibile per vincere la sfida che si para loro davanti».
Ma anche una «certa politica», a parere della titolare del dicastero dell’Istruzione, ha le sue responsabilità : «Hanno illuso per tanti anni i ragazzi vendendo loro la possibilità che il settore pubblico potesse assorbire un numero infinito di persone. Ovviamente questo non è accaduto e, in alcuni casi, ha pesato negativamente anche qualche ritardo nel “privato”. La delusione, per tanti giovani, è stata inevitabile».
Cari bamboccioni impreparati
La Stampa – 19 gennaio 2010
di Luca Ricolfi
La maturità di un ceto politico, così come quella di un individuo, si misura anche dalla capacità di cogliere l’ironia, lo scherzo, l’umorismo, più in generale di capire in che registro avviene un discorso. La stessa frase, ad esempio «vorrei essere in Antartide con i pinguini», a seconda del tono, del contesto e di chi la pronuncia può significare che mi sto preparando a un viaggio avventuroso ma anche, più banalmente, che i miei commensali sono di una noia mortale.
Purtroppo la capacità di riconoscere e usare i registri è fra le facoltà che stiamo perdendo, come giustamente ci ha ricordato Cesare Segre in un bell’articolo di pochi giorni fa sul «Corriere della Sera». Una conferma di tale perdita ci viene dalle reazioni alla proposta del ministro Brunetta di stabilire «per legge» che a 18 anni i giovani devono lasciare la famiglia. Non è bastato che il ministro stesso, forse consapevole del livello di immaturità del circo mediatico, abbia specificato subito che lo diceva «un po scherzando».
Nonostante l’evidente natura paradossale della proposta (una norma dirigista e illiberale proposta da un liberale come Brunetta!), si è immediatamente scatenato il putiferio del dibattito, delle accuse, delle messe a punto, delle prese di distanza. Giornalisti, ministri, parlamentari, dopo una settimana di cronache sul terremoto di Haiti, hanno immediatamente preso la palla al balzo per posizionarsi e criticare Brunetta, credendo o fingendo di credere che davvero il ministro avesse in mente una legge capace di costringere i genitori a espellere di casa i figli al compimento del diciottesimo anno di età. E un peccato, perché la provocazione di Brunetta tocca un tema serissimo, su cui vale la pena farci qualche domanda vera. Da molti anni le statistiche ci dicono che in nessun Paese occidentale i figli restano in casa con mamma e papà così a lungo come in Italia. Perché?
Per anni l’interpretazione dominante è stata che le cause sono essenzialmente economiche: poche occasioni di lavoro, mercato degli affitti congelato, proliferazione delle «università sotto casa». Da un po di tempo si stanno facendo largo anche letture meno economiciste, che avanzano il sospetto che centrino anche il familismo e il deficit di responsabilità individuale tipici della società italiana. Alberto Alesina e Andrea Ichino, ad esempio, in un bel libro appena uscito da Mondadori (L’Italia fatta in casa) ipotizzano che la lunga permanenza in famiglia sia anche il frutto di una scelta, ossia delle preferenze degli italiani. E Lucetta Scaraffia sul Riformista, citando una ricerca dell’Istat, fa notare che quasi metà dei «bamboccioni» restano in famiglia non per necessità, ma perché in casa si trovano fin troppo bene.
C’è un aspetto, tuttavia, che resta quasi sempre in ombra, e che invece a mio parere meriterebbe più attenzione: le scelte scolastiche dei giovani italiani. Fra i molti record negativi dell’Italia c’è anche il fatto che in nessun altro Paese sviluppato sono così tanti i giovani che potremmo definire nullafacenti, nel senso che né lavorano né studiano. Se a questo aggiungiamo il fatto che il numero di giovani che riescono a laurearsi è circa la metà di quello medio europeo, e che ai test PISA sui livelli di apprendimento i risultati dei nostri quindicenni ci collocano agli ultimi posti in Europa, forse riusciamo a vedere un’altra faccia del problema dei bamboccioni. E cioè che il guaio dei giovani italiani non è solo l’attaccamento a mamma e papà, la preferenza per i comodi della vita familiare, il deficit di responsabilità individuale, ma il fatto che la loro preparazione media è così bassa da impedire loro l’accesso a posti di lavoro di qualità. Detto più brutalmente, siamo noi che li stiamo ingannando, è la finta istruzione che forniamo loro a renderli così deboli. Quel che è successo è che da molti anni la scuola e l’università italiane non solo rilasciano pochi diplomi e poche lauree, ma rilasciano titoli formali più alti del livello di istruzione effettivamente raggiunto. La conseguenza è che abbiamo un esercito di giovani che, per il fatto di avere un titolo di studio relativamente elevato (diploma o laurea), aspirano a un posto di lavoro di qualità, ma per il fatto di essere più ignoranti del giusto difficilmente riescono a trovare quello che cercano. Un sistema di istruzione ipocritamente generoso illude i giovani e ne innalza il livello di aspirazione, un mercato del lavoro spietato li riporta alla realtà. Con tre conseguenze empiriche, che le cronache di questi giorni propongono crudamente alla nostra attenzione.
Primo. In un concorso pubblico per vigili urbani nemmeno i laureati riescono a superare decentemente le prove scritte, e quindi nessuno viene ammesso agli orali, e tanto meno assunto (concorso di Grosseto). Secondo. Ancora una volta un genitore si trova condannato dalla magistratura a mantenere figli ultratrentenni che non trovano un lavoro «adeguato» (l’ultimo caso a Bergamo).
Terzo. Nella crisi gli italiani perdono il lavoro (800 mila posti di lavoro in meno in 2 anni) mentre gli immigrati lo guadagnano (400 mila posti di lavoro in più in 2 anni).
Si potrebbe pensare che dipenda solo dal fatto che gli immigrati sono meno istruiti degli italiani, e per questo motivo si accontentano di lavori poco qualificati. Ma non è così, perché il livello di istruzione medio di italiani e stranieri è quasi identico. La differenza è che gli immigrati vogliono innanzitutto lavorare, e per questo accettano posti molto inferiori al loro livello di qualificazione. Mentre gli italiani pretendono di lavorare in posti adeguati alla loro istruzione formale, e raramente si chiedono se c’è una ragionevole corrispondenza con la loro istruzione effettiva.
Ragazzi, andate via presto da casa e avrete successo”
La Stampa – 18 gennaio 2010
di Raffaello Masci
Roma
La Cassazione nei giorni scorsi ha imposto al padre perplesso di una figlia 32enne, di continuare a mantenerla in quanto «studentessa fuori corso» da oltre otto anni. La cosa ha fatto rumore e ha perfino suscitato una polemica nel governo, tra il ministro Brunetta che ha parlato di una legge per la sollecita emancipazione dei figli dopo i 18 anni e il suo collega Calderoli che ha ritenuto l’istanza un eccesso di zelo e uninvasione nelle scelte autonome delle famiglie.
Lei, ministro Gelmini, titolare dell’Istruzione, cosa pensa di questo fenomeno e delle opinioni dei suoi colleghi?
«Il mio impegno è quello di rendere l’università italiana più moderna e capace di laureare gli studenti nei tempi giusti, affinché possano accedere al mercato del lavoro e competere con gli altri colleghi europei. In questo quadro credo che una emancipazione tempestiva dalla famiglia sia un bene».
La Banca d’Italia ha rilevato, in suo studio, che le classi con troppi immigrati fanno scadere la qualità dell’insegnamento e spingono, di fatto, le famiglie più abbienti ad iscrivere i figli alle private. Ha qualcosa da replicare?
«Quanto dice la Banca d’Italia lo sapevamo già: la presenza di bambini non italiani può rallentare la didattica. Per questo abbiamo posto un tetto del 30% di immigrati per classe. Non centra il razzismo, ovviamente, ma non centra nemmeno la politica. E una scelta meramente didattica che rende l’insegnamento migliore per tutti, italiani e non».
Il presidente di Italia Futura, Luca di Montezemolo, prima di presentare la ricerca della sua Fondazione sulla scuola primaria, l’ha illustrata a lei. Quella ricerca picchia duro sulla scuola italiana.
«Ho trovato molto interessante il lavoro di Italia Futura. Quello che ho detto all’avvocato Montezemolo è che sui temi sollevati dalla ricerca la nostra scuola non è all’anno zero. Stiamo lavorando. Ribadisco: non stiamo pensando e basta. Stiamo agendo. Ma la scuola è una struttura complessa in cui si procede concordando le scelte con molti soggetti tecnici ma anche politici, quindi, a volte, i risultati arrivano lentamente. Ma arrivano».
La sostituzione dei programmi scolastici con le più generiche indicazioni nazionali, sempre secondo Italia Futura, avrebbe determinato la rinuncia ad uno standard di conoscenze uniforme sul tutto il territorio. Che ne pensa?
«I programmi davano una scaletta di contenuti dalla quale non si poteva derogare. Le indicazioni fissano invece degli obiettivi dando facoltà agli insegnanti di ottenerli come meglio credono. Ma gli obiettivi non sono meno stringenti dei programmi: per ogni classe vengono fissate delle competenze che i ragazzi devono raggiungere. E così in tutta Europa. Poi è vero che molti arrivano in terza media con forti lacune, ma il sistema di valutazione che stiamo allestendo consentirà di vedere, nel dettaglio, chi fa bene e chi invece deve correggere il tiro».
Altra critica: da dieci anni nella scuola primaria non c’è più un concorso. Ad entrare sono solo i precari in coda nelle graduatorie. Quanto sono preparati e selezionati?
«E vero. Il reclutamento è un problema, ma lo è anche il precariato che non può non essere considerato. Entro l’anno prossimo le graduatorie saranno esaurite e il nuovo reclutamento avverrà attraverso i percorsi universitari a numero chiuso. Su questo tema, comunque, sta per uscire un regolamento ministeriale» .
L’autonomia è diventata anarchia, lamenta ancora Italia Futura. Che bilancio fa di questa esperienza ormai decennale?
«L’autonomia ha permesso di allargare l’offerta formativa dando risposte molto importanti alle esigenze del territorio, specie nell’istruzione tecnica e professionale» .
Ma sono stati messi insieme anche più di 900 indirizzi di studi: una follia per chi debba scegliere la scuola per i figli.
«Indubbiamente. E questo è stato il limite dell’autonomia. In certe scuole ci sono fino a 60 progetti e progettini in atto. Senza dire delle sperimentazioni infinite e mai concluse. Basti pensare – per esempio – che è attiva ancora una sperimentazione del piano nazionale per linformatica che risale all’85, ai tempi di Franca Falcucci. Un progetto di 25 anni, in campo informatico, vuol dire un pezzo di antiquariato» .
E allora?
«Per questo ho varato un riordino degli indirizzi didattici che mette fine a questo progettificio a getto continuo. Tuttavia l’autonomia è, in sé, una esperienza positiva. Con molti o alcuni eccessi. Ma appena il sistema di valutazione sarà a regime si capirà cosa funziona e cosa no. La scuola si sta dando un sistema di autoregolamentazione molto rigoroso e mi auguro efficace».