Il patto di Andrea Camilleri
Tutta vestita di nìvuro, tacchi alti, cappellino fuori moda, borsetta di pelle lucida appesa al braccio destro, la signora (perché si capiva benissimo ch’era una signora e d’antica classe) procedeva a passi piccoli ma decisi sul ciglio della strata, occhi a terra, incurante delle rare auto che la sfioravano.
Macari di giorno quella donna avrebbe attirato l’attenzione del commissario Montalbano per la distinzione e l’eleganza di altri tempi: figurarsi alle due e mezzo di notte, su una strata fuori paìsi. Montalbano stava tornando alla sua casa di Marinella dopo una lunga giornata di travaglio al commissariato, era stanco, ma viaggiava a lento, dai finestrini aperti dell’auto gli arrivavano gli odori di una notte di mezzo maggio, ventate di gelsomino dai giardinetti delle ville alla sua destra, folate di salmastro dal mare a sinistra.
Dopo avere per un pezzo proceduto darrè la signora, il commissario le si affiancò e, piegandosi sul sedile del passeggero, le spiò:
«Occorre niente, signora?»
La donna manco isò la testa, non fece il minimissimo gesto, proseguì.
Il commissario accese gli abbaglianti, fermò l’auto, scese e le si parò davanti impedendole di proseguire. Solo allora la signora, per niente scantata, si decise a taliàrlo. Alla luce dei fari Montalbano vide che era molto anziana, ma gli occhi erano di un azzurro intenso, quasi fosforescente, stonavano col resto della faccia per la conservata giovinezza. Indossava degli orecchini preziosi, attorno al collo una splendida collana di perle.
«Sono il commissario Montalbano» disse per rassicurarla, macari se la fimmina non dava il minimo segno di nervosismo.
«Piacere. Io sono la signorina Angela Clemenza. Desidera?» Aveva calcato sul “signorina”.
Il commissario sbottò.
«Io non desidero niente. Le pare logico andarsene in giro, parata così, a quest’ora di notte e da sola? Lei è stata fortunata che non l’abbiano ancora derubata e gettata in un fosso. Salga in macchina, l’accompagno.»
«Non ho paura. E non sono stanca.»
Era vero, aveva il respiro regolare, sul suo viso non c’era traccia di sudore; solo le scarpe imbiancate dalla polvere dicevano che la signorina aveva camminato a piedi per un lungo tratto. Montalbano con due dita le pigliò delicatamente un braccio, la sospinse verso la macchina.
Angela Clemenza per un momento ancora lo taliò, l’azzurro dei suoi occhi si era come impastato di viola, era evidentemente arrabbiata, ma non disse niente, salì. Appena assittata in auto, poggiò la borsetta sulle ginocchia, si massaggiò leggermente l’avambraccio destro. Il commissario notò che la borsetta era gonfia, doveva pesare.
«Dove l’accompagno?»
«Contrada Gelso. Le dico io come arrivarci.»
Il commissario tirò un sospiro di sollievo, contrada Gelso non era lontana, stava dalla parte di campagna, a pochi chilometri da Marinella. Avrebbe voluto spiare alla signorina come mai si fosse venuta a trovare sola di notte, diretta a casa a piedi, ma il ritegno e la compostezza di lei l’intimidivano.
Da parte sua la signorina Clemenza non raprì bocca se non per brevi indicazioni sulla strata da pigliare. Superato un grosso cancello in ferro battuto e percorso un viale perfettamente tenuto in ordine, Montalbano si fermò nello spiazzo davanti a una villetta ottocentesca, a tre piani, intonacata di fresco, linda, con la porta e le persiane che parevano allùra allùra pittate di verde. Scesero.
«Lei è una persona squisita. Grazie» fece la signorina. E tese il braccio. Montalbano, sorpreso di se stesso, si inchinò e le baciò la mano. La signorina Clemenza gli voltò le spalle, armeggiò nella borsetta, tirò fora una chiave, raprì la porta, trasì, richiuse.
La mattina seguente
Non erano manco le sette del mattino che l’arrisbigliò una telefonata di Mimì Augello, il suo vice.
«Scusami, Salvo, se ti chiamo a quest’ora, ma c’è stato un omicidio. Sono già sul posto. Ti ho mandato la macchina.»
Ebbe appena il tempo di farsi la barba che l’auto arrivò.
«Chi hanno ammazzato, lo sai?»
«Un professore in pensione, si chiamava Corrado Militello» fece l’agente alla guida.
«Abita dopo la vecchia stazione.»
La casa del fu professor Militello sorgeva sì dopo la vecchia stazione, ma in aperta campagna. Prima che Montalbano oltrepassasse la soglia, Mimì Augello, che quella matina gli era pigliata di voler parere il primo della classe, l’informò.
«Il professore aveva passato l’ottantina. Viveva solo, non si era mai maritato. Da una decina d’anni non niscìva più da casa. Ogni matina veniva una cammarera, la stessa da trent’anni, quella che l’ha trovato morto e ci ha telefonato. La casa è fatta così: al piano di sopra ci sono due grandi càmmare da letto, due bagni e un cammarìno. Al piano terra un salotto, una piccola sala da pranzo, un bagno e uno studio. È lì che l’hanno ammazzato. Pasquano è all’opera.»
Nell’anticamera, la cammarèra, assittata in pizzo a una seggia, piangeva in silenzio, muovendo il busto avanti e narrè. Il corpo del professor Corrado Militello giaceva riverso sulla scrivania dello studio. Il dottor Pasquano, il medico legale, lo stava esaminando.
«L’assassino» disse Mimì Augello «ha voluto sadicamente spaventare il professore prima d’ammazzarlo. Talia qua: ha sparato al lampadario, alla libreria, a quel quadro, mi pare che sia una riproduzione del Bacio di Velasquez…»
«Hayez» corresse stancamente Montalbano.
«… alla finestra e l’ultimo colpo l’ha riservato a lui. Un revolver. Non ci sono bossoli.»
«Non perdiamoci nel conteggio dei colpi» intervenne il dottor Pasquano. «Sono stati cinque, d’accordo, ma ha macari sparato al busto di Wagner, che è di bronzo. La pallottola ha rimbalzato e ha pigliato in piena fronte il professore, ammazzandolo.»
Augello non replicò.
Nel camino, una montagna di carta incenerita. Montalbano s’incuriosì, spiò con gli occhi al suo vice.
«La cammarèra m’ha detto che da due giorni stava a bruciare lettere e fotografie» rispose Augello. «Le teneva in questo baule qua che ora è vacante.»
Evidentemente Mimì Augello si trovava in una di quelle giornate nelle quali, se si metteva a parlare, non si fermava manco a cannonate.
«La vittima ha aperto all’assassino, non c’è traccia d’effrazione. Sicuramente lo conosceva, si fidava. Uno di casa. Sai che ti dico, Salvo? Da qualche parte sbucherà un nipotuzzo che da troppo tempo stava ad aspettare l’eredità e ha perso la pazienza. Si è scassato la minchia. Il vecchio era ricco, case, terreni edificabili.»
Montalbano non lo stava a sèntiri, era perso darrè ricordi di pellicole poliziesche inglesi. Fu così che fece una cosa che aveva già visto fare in uno di questi film: si calò verso il camino, infilò una mano dintra la cenere, tastiò. Ebbe fortuna, sotto le dita gli venne un quadratino spesso, di cartoncino. Era un frammento di fotografia, grande quanto un francobollo. Lo taliò e provò una scossa elettrica. Mezzo volto di donna, ma come non riconoscere quegli occhi?
«Trovato niente?» spiò Augello.
«No» disse Montalbano. «Senti, Mimì, occupati tu di tutto, io ho da fare. Salutami il giudice, quando arriva.»
Il confronto finale
Montalbano si recò a casa della signorina Angela Clemenza. Lei lo accolse con cortesia:
«Si accomodi, si accomodi» disse la signorina Angela Clemenza chiaramente contenta di rivederlo. «Venga da questa parte, la casa è diventata troppo grande per me da quando è morto mio fratello il generale. Mi sono riservata queste tre camere al piano terra, mi risparmio le scale.»
Le nove e mezzo del matino, ma la signorina era inappuntabile, a petto di lei il commissario si sentì sporco e trasandato.
«Posso offrirle un caffè?»
«Non si disturbi. Devo farle solo qualche domanda. Lei conosce il professor Corrado Militello?»
«Dal 1935, commissario. Allora aveva diciassette anni, lui uno più di me.» Montalbano la taliò fisso: niente, nessuna emozione, gli occhi un lago d’alta montagna senza increspature.
«È con grande dispiacere, mi creda, che sono costretto a comunicarle una cattiva notizia.»
«Ma la conosco già, commissario! Gli ho sparato io!»
A Montalbano gli mancò la terra sotto i piedi, la stessa precisa impressione che aveva provato nel terremoto del Belice. Franò su una seggia che fortunatamente era alle sue spalle. Pure la signorina Clemenza s’assittò, compostissima.
«Perché?» arriniscì ad articolare il commissario.
«È una storia vecchia come il cucco», si annoierà. «Le garantisco di no.»
«Vede, dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, per ragioni che non so e che non ho mai voluto sapere, la mia famiglia e quella di Corrado pigliarono a odiarsi. Ci furono morti, duelli, ferimenti. Capuleti e Montecchi, ricorda? E noi due, invece di odiarci, c’innamorammo. Romeo e Giulietta, appunto. I nostri familiari, i miei e i suoi stavolta alleati, ci separarono, a me mi misero con le monache, lui andò a finire in collegio. Mia madre, sul letto di morte, mi fece giurare che non avrei mai sposato Corrado. O lui o nessuno, dissi invece a me stessa. Corrado fece lo stesso. Per anni e anni e anni ci siamo scritti, ci telefonavamo, facevamo in modo d’incontrarci. Quando restammo solo noi due, i superstiti delle nostre famiglie, io avevo ormai sessantadue anni e lui sessantatre. Convenimmo che a quell’età sarebbe stato ridicolo maritarci.»
«Sì, va bene, ma perché?…»
«Sei mesi fa mi fece una lunghissima telefonata. Mi disse che non ce la faceva più a stare solo. Voleva maritarsi con una vedova, sua lontana parente. Ma come, gli domandai, a sessant’anni lo trovavi ridicolo e a ottanta no?»
«Capisco. È per questo che lei…»
«Vuole babbiare? Per me poteva maritarsi cento volte! Il fatto è che mi telefonò il giorno appresso. Mi disse che non aveva chiuso occhio. Confessò d’avermi mentito, non si sposava per paura della solitudine, ma perché di quella fimmina si era veramente innamorato. Allora, lei capisce, le cose cangiavano.»
«Ma perché?»
«Perché avevamo pigliato un impegno, fatto un patto.»
Si susì, raprì la stessa borsetta della sera avanti che era posata su un tavolinetto, ne trasse un bigliettino ingiallito, lo pruì al commissario.
Noi, Angela Clemenza e Corrado Militello, davanti a Dio giuriamo quanto segue: chi di noi due s’innamorerà di una terza persona, pagherà con la vita il tradimento.
Letto, firmato e sottoscritto: Angela Clemenza, Corrado Militello.
Vigàta, li 10 gennaio 1936
«Ha letto? Tutto regolare, no?
«Ma se ne sarà scordato?» fece Montalbano. Quasi gridò.
«Io no» disse la signorina, gli occhi che svariavano verso un pericoloso viola. «E guardi che aieri matina67 gli telefonai per assicurarmi meglio. “Che fai?” gli spiai.
“Sto bruciando le tue lettere” mi rispose. Allora mi andai a rileggere il patto.»
Montalbano sentiva un cerchione di ferro che aveva principiato a serrargli la fronte, sudava.
«Ha gettato via l’arma?» «No.»
Raprì la borsetta, ne tirò fora una Smith&Wesson centenaria, enorme. La diede a Montalbano.
«M’è venuto difficile colpirlo, sa? Non avevo mai sparato prima. Povero Corrado, s’è pigliato un tale spavento!»
E ora che doveva fare? Isarsi in piedi e dichiararla in arresto?
Rimase a taliare il revolver, indeciso.
«Le piace?» spiò sorridente la signorina Angela Clemenza. «Glielo regalo. Tanto a me non serve più.»