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28 Dicembre 2019
Capitoli nono e decimo dei Promessi Sposi
28 Dicembre 2019đ Analisi del Capitolo XII de I promessi sposi1 (Il “capitolo dellâarrivo di Renzo a Milano)
1. Contesto e struttura
Dopo la fuga da Monza (dove Lucia è sotto la protezione/ombra di Gertrude), Renzo si dirige a Milano seguendo le indicazioni di padre Cristoforo. Il capitolo si divide in due macro-sezioni:
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Il viaggio di Renzo verso Milano (con le sue disavventure).
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Lâarrivo in una Milano agitata, sullâorlo della rivolta per la carestia.
Manzoni alterna commedia popolare (le ingenuità di Renzo) e tensione storica (la crisi sociale), creando un contrasto tipico della sua narrazione.
2. Renzo: lâinetto furbo
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Lâequivoco del nome: Per evitare problemi, Renzo si presenta come “Antonio Rivolta”, ma la sua inesperienza nel mentire lo tradisce:
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Chiede indicazioni per Porta Orientale, ma sbaglia a ripetere il nome del convento.
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Si confonde quando gli chiedono da dove viene, inventando storie maldestre.
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Ironia manzoniana: Il narratore sottolinea che “i birboni, per essere tali, devono studiare piĂš dei galantuomini”.
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Lâosteria della Luna piena:
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Renzo, affamato, si ferma in unâosteria lungo la strada.
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Dialoghi comici: I clienti lo prendono in giro per il suo accento bergamasco e la sua ingenuitĂ .
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Il vino e le chiacchiere: Ubriacandosi, Renzo si lascia sfuggire dettagli compromettenti (parla di don Rodrigo, del tentativo di matrimonio).
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3. Lâarrivo a Milano: la cittĂ in tumulto
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Primo impatto con la metropoli:
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Renzo è stupito dalla grandezza di Milano, ma anche dal degrado (poveri, file per il pane, tensioni).
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La folla davanti al forno delle grucce: Introduce il tema della carestia e dello scontento popolare.
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Lâincontro con la rivolta:
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Renzo si trova casualmente coinvolto in una protesta contro il calmiere del pane (il prezzo imposto dalle autorità ).
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Il panettiere: Viene accusato di nascondere farina, e la folla lo lincia. Renzo, ubriaco, partecipa senza rendersi conto della gravitĂ .
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La sua ingenuitĂ politica: Urla “Viva il pane! Abbasso la fame!” senza capire le implicazioni.
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4. Temi principali
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Lâironia del destino: Renzo fugge da un pericolo (don Rodrigo) per cadere in un altro (la sommossa).
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La critica sociale:
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La carestia come frutto della cattiva amministrazione spagnola.
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La folla è ritratta con pietà ma anche con realismo: è violenta, disperata, manipolabile.
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LâincapacitĂ di Renzo di navigare la complessitĂ : Il suo buon cuore non basta in un mondo corrotto.
5. Stile e tecniche narrative
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Commedia e tragedia: Il tono oscilla tra il grottesco (Renzo ubriaco) e il drammatico (la rivolta).
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Focalizzazione su Renzo: Il lettore vede Milano attraverso i suoi occhi ingenui, aumentando lâeffetto di straniamento.
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Linguaggio:
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Dialetto e registri popolari nei dialoghi dellâosteria.
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Descrizioni vivide della folla (es. “un formicolio di teste arrabbiate”).
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6. Collegamenti con il resto dellâopera
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Prepara la rivolta del Capitolo XIII: Renzo diventerà un capro espiatorio per le autorità .
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Anticipa lâInnominato: Anche lui si troverĂ coinvolto in eventi piĂš grandi di lui.
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Contrasto con Lucia: Mentre lei è al sicuro (ma in un convento ambiguo), Renzo è travolto dalla Storia.
Conclusione: Il Capitolo XII è un punto di svolta che mescola umorismo e tragedia. Renzo, da vittima della violenza feudale (don Rodrigo), diventa vittima della violenza urbana, mostrando come lâingiustizia sia sistemica. Manzoni critica tanto i potenti quanto lâincapacitĂ del popolo di ribellarsi in modo costruttivo.
Testo del dodicesimo capitolo dei Promessi Sposi

CAPITOLO XII
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Ma quando questo arriva a un certo segno, nasce sempre (o almeno è sempre nata finora; e se ancora, dopo tanti scritti di valentuomini, pensate in quel tempo!), nasce unâopinione neâ molti, che non ne sia cagione la scarsezza. Si dimentica dâaverla temuta, predetta; si suppone tuttâa un tratto che ci sia grano abbastanza, e che il male venga dal non vendersene abbastanza per il consumo: supposizioni che non stanno nè in cielo, nè in terra; ma che lusingano a un tempo la collera e la speranza. Glâincettatori di grano, reali o immaginari, i possessori di terre, che non lo vendevano tutto in un giorno, i fornai che ne compravano, tutti coloro in somma che ne avessero o poco o assai, o che avessero il nome dâaverne, a questi si dava la colpa della penuria e del rincaro, questi erano il bersaglio del lamento universale, lâabbominio della moltitudine male e ben vestita. Si diceva di sicuro dovâerano i magazzini, i granai, colmi, traboccanti, appuntellati; sâindicava il numero deâ sacchi, spropositato; si parlava con certezza dellâimmensa quantitĂ di granaglie che veniva spedita segretamente in altri paesi; neâ quali probabilmente si gridava, con altrettanta sicurezza e con fremito uguale, che le granaglie di lĂ venivano a Milano. Sâimploravan daâ magistrati queâ provvedimenti, che alla moltitudine paion sempre, o almeno sono sempre parsi finora, cosĂŹ giusti, cosĂŹ semplici, cosĂŹ atti a far saltar fuori il grano, nascosto, murato, sepolto, come dicevano, e a far ritornar lâabbondanza. I magistrati qualche cosa facevano: come di stabilire il prezzo massimo dâalcune derrate, dâintimar pene a chi ricusasse di vendere, e altri editti di quel genere. Siccome però tutti i provvedimenti di questo mondo, per quanto siano gagliardi, non hanno virtĂš di diminuire il bisogno del cibo, nè di far venire derrate fuor di stagione; e siccome questi in ispecie non avevan certamente quella dâattirarne da dove ce ne potesse essere di soprabbondanti; cosĂŹ il male durava e cresceva. La moltitudine attribuiva un tale effetto alla scarsezza e alla debolezza deâ rimedi, e ne sollecitava ad alte grida deâ piĂš generosi e decisivi. E per sua sventura, trovò lâuomo secondo il suo cuore.
Nellâassenza del governatore don Gonzalo Fernandez de Cordova, che comandava lâassedio di Casale del Monferrato, faceva le sue veci in Milano il gran cancelliere Antonio Ferrer, pure spagnolo. Costui vide, e chi non lâavrebbe veduto? che lâessere il pane a un prezzo giusto, è per sè una cosa molto desiderabile; e pensò, e qui fu lo sbaglio, che un suo ordine potesse bastare a produrla. Fissò la meta (cosĂŹ chiamano qui la tariffa in materia di commestibili), fissò la meta del pane al prezzo che sarebbe stato il giusto, se il grano si fosse comunemente venduto trentatre lire il moggio: e si vendeva fino a ottanta. Fece come una donna stata giovine, che pensasse di ringiovinire, alterando la sua fede di battesimo.
Ordini meno insensati e meno iniqui eran, piĂš dâuna volta, per la resistenza delle cose stesse, rimasti ineseguiti; ma allâesecuzione di questo vegliava la moltitudine, che, vedendo finalmente convertito in legge il suo desiderio, non avrebbe sofferto che fosse per celia. Accorse subito ai forni, a chieder pane al prezzo tassato; e lo chiese con quel fare di risolutezza e di minaccia, che danno la passione, la forza e la legge riunite insieme.

Se i fornai strillassero, non lo domandate. Intridere, dimenare, infornare e sfornare senza posa; perchè il popolo, sentendo in confuso che lâera una cosa violenta, assediava i forni di continuo, per goder quella cuccagna fin che durava; affacchinarsi, dico, e scalmanarsi piĂš del solito, per iscapitarci, ognun vede che bel piacere dovesse essere. Ma, da una parte i magistrati che intimavan pene, dallâaltra il popolo che voleva esser servito, e, punto punto che qualche fornaio indugiasse, pressava e brontolava, con quel suo vocione, e minacciava una di quelle sue giustizie, che sono delle peggio che si facciano in questo mondo; non câera redenzione, bisognava rimenare, infornare, sfornare e vendere. Però, a farli continuare in quellâimpresa, non bastava che fosse lor comandato, nè che avessero molta paura; bisognava potere: e un poâ piĂš che la cosa fosse durata, non avrebbero piĂš potuto. Facevan vedere ai magistrati lâiniquitĂ e lâinsopportabilitĂ del carico imposto loro, protestavano di voler gettar la pala nel forno, e andarsene; e intanto tiravano avanti come potevano, sperando, sperando che, una volta o lâaltra, il gran cancelliere avrebbe inteso la ragione. Ma Antonio Ferrer, il quale era quel che ora si direbbe un uomo di carattere, rispondeva che i fornai sâerano avvantaggiati molto e poi molto nel passato, che sâavvantaggerebbero molto e poi molto col ritornar dellâabbondanza; che anche si vedrebbe, si penserebbe forse a dar loro qualche risarcimento; e che intanto tirassero ancora avanti. O fosse veramente persuaso lui di queste ragioni che allegava agli altri, o che, anche conoscendo dagli effetti lâimpossibilitĂ di mantener quel suo editto, volesse lasciare agli altri lâodiositĂ di rivocarlo; giacchè, chi può ora entrar nel cervello dâAntonio Ferrer? il fatto sta che rimase fermo su ciò che aveva stabilito. Finalmente i decurioni (un magistrato municipale composto di nobili, che durò fino al novantasei del secolo scorso) informaron per lettera il governatore, dello stato in cui eran le cose: trovasse lui qualche ripiego, che le facesse andare.
Don Gonzalo, ingolfato fin sopra i capelli nelle faccende della guerra, fece ciò che il lettore sâimmagina certamente: nominò una giunta, alla quale conferĂŹ lâautoritĂ di stabilire al pane un prezzo che potesse correre; una cosa da poterci campar tanto una parte che lâaltra. I deputati si radunarono, o come qui si diceva spagnolescamente nel gergo segretariesco dâallora, si giuntarono; e dopo mille riverenze, complimenti, preamboli, sospiri, sospensioni, proposizioni in aria, tergiversazioni, strascinati tutti verso una deliberazione da una necessitĂ sentita da tutti, sapendo bene che giocavano una gran carta, ma convinti che non câera da far altro, conclusero di rincarare il pane. I fornai respirarono; ma il popolo imbestialĂŹ.
La sera avanti questo giorno in cui Renzo arrivò in Milano, le strade e le piazze brulicavano dâuomini, che trasportati da una rabbia comune, predominati da un pensiero comune, conoscenti o estranei, si riunivano in crocchi, senza essersi dati lâintesa, quasi senza avvedersene, come gocciole sparse sullo stesso pendĂŹo. Ogni discorso accresceva la persuasione e la passione degli uditori, come di colui che lâaveva proferito. Tra tanti appassionati, câeran pure alcuni piĂš di sangue freddo, i quali stavano osservando con molto piacere, che lâacqua sâandava intorbidando; e sâingegnavano dâintorbidarla di piĂš, con queâ ragionamenti, e con quelle storie che i furbi sanno comporre, e che gli animi alterati sanno credere; e si proponevano di non lasciarla posare, quellâacqua, senza farci un poâ di pesca. Migliaia dâuomini andarono a letto col sentimento indeterminato che qualche cosa bisognava fare, che qualche cosa si farebbe. Avanti giorno, le strade eran di nuovo sparse di crocchi: fanciulli, donne, uomini, vecchi, operai, poveri, si radunavano a sorte: qui era un bisbiglio confuso di molte voci; lĂ uno predicava, e gli altri applaudivano; questo faceva al piĂš vicino la stessa domanda châera allora stata fatta a lui; questâaltro ripeteva lâesclamazione che sâera sentita risonare agli orecchi; per tutto lamenti, minacce, maraviglie: un piccol numero di vocaboli era il materiale di tanti discorsi.
Non mancava altro che unâoccasione, una spinta, un avviamento qualunque, per ridurre le parole a fatti; e non tardò molto. Uscivano, sul far del giorno, dalle botteghe deâ fornai i garzoni che, con una gerla carica di pane, andavano a portarne alle solite case. Il primo comparire dâuno di queâ malcapitati ragazzi dovâera un crocchio di gente, fu come il cadere dâun salterello acceso in una polveriera. â Ecco se câè il pane! â gridarono cento voci insieme. â SĂŹ, per i tiranni, che notano nellâabbondanza, e voglion far morir noi di fame, â dice uno; sâaccosta al ragazzetto, avventa la mano allâorlo della gerla, dĂ una stratta, e dice: â lascia vedere. â Il ragazzetto diventa rosso, pallido, trema, vorrebbe dire: lasciatemi andare; ma la parola gli muore in bocca; allenta le braccia, e cerca di liberarle in fretta dalle cigne. â GiĂš quella gerla, â si grida intanto.

Molte mani lâafferrano a un tempo: è in terra; si butta per aria il canovaccio che la copre: una tepida fragranza si diffonde allâintorno. ” Siam cristiani anche noi: dobbiamo mangiar pane anche noi, ” dice il primo; prende un pan tondo, lâalza, facendolo vedere alla folla, lâaddenta: mani alla gerla, pani per aria; in men che non si dice, fu sparecchiato. Coloro a cui non era toccato nulla, irritati alla vista del guadagno altrui, e animati dalla facilitĂ dellâimpresa, si mossero a branchi, in cerca dâaltre gerle: quante incontrate, tante svaligiate. E non câera neppur bisogno di dar lâassalto ai portatori: quelli che, per loro disgrazia, si trovavano in giro, vista la mala parata, posavano volontariamente il carico, e via a gambe. Con tutto ciò, coloro che rimanevano a denti secchi, erano senza paragone i piĂš; anche i conquistatori non eran soddisfatti di prede cosĂŹ piccole, e, mescolati poi con gli uni e con gli altri, câeran coloro che avevan fatto disegno sopra un disordine piĂš coâ fiocchi. â Al forno! al forno! â si grida.
Nella strada chiamata la Corsia deâ Servi, câera, e câè tuttavia un forno, che conserva lo stesso nome; nome che in toscano viene a dire il forno delle grucce, e in milanese è composto di parole cosĂŹ eteroclite, cosĂŹ bisbetiche, cosĂŹ salvatiche, che lâalfabeto della lingua non ha i segni per indicarne il suono [1]. A quella parte sâavventò la gente. Quelli della bottega stavano interrogando il garzone tornato scarico, il quale, tutto sbigottito e abbaruffato, riferiva balbettando la sua trista avventura; quando si sente un calpestĂŹo e un urlĂŹo insieme; cresce e sâavvicina; compariscono i forieri della masnada.
Serra, serra; presto, presto: uno corre a chiedere aiuto al capitano di giustizia; gli altri chiudono in fretta la bottega, e appuntellano i battenti. La gente comincia a affollarsi di fuori, e a gridare: â pane! pane! aprite! aprite! â
Pochi momenti dopo, arriva il capitano di giustizia, con una scorta dâalabardieri. ![]()
â Largo, largo, figliuoli: a casa, a casa; fate luogo al capitano di giustizia, â grida lui e gli alabardieri. La gente, che non era ancor troppo fitta, fa un poâ di luogo; dimodochè quelli poterono arrivare, e postarsi, insieme, se non in ordine, davanti alla porta della bottega.
â Ma figliuoli, â predicava di lĂŹ il capitano, â che fate qui? A casa, a casa. Dovâè il timor di Dio? Che dirĂ il re nostro signore? Non vogliam farvi male; ma andate a casa. Da bravi! Che diamine volete far qui, cosĂŹ ammontati? Niente di bene, ne per lâanima, nè per il corpo. A casa, a casa. â
Ma quelli che vedevan la faccia del dicitore, e sentivan le sue parole, quandâanche avessero voluto ubbidire, dite un poco in che maniera avrebber potuto, spinti comâerano, e incalzati da quelli di dietro, spinti anchâessi da altri, come flutti da flutti, via via fino allâestremitĂ della folla, che andava sempre crescendo. Al capitano, cominciava a mancargli il respiro. â Fateli dare addietro châio possa riprender fiato, â diceva agli alabardieri: â ma non fate male a nessuno. Vediamo dâentrare in bottega: picchiate; fateli stare indietro. â
â Indietro! indietro! â gridano gli alabardieri, buttandosi tutti insieme addosso ai primi, e respingendoli con lâaste dellâalabarde. Quelli urlano, si tirano indietro, come possono; dĂ nno con le schiene neâ petti, coâ gomiti nelle pance, coâ calcagni sulle punte deâ piedi a quelli che son dietro a loro: si fa un pigĂŹo, una calca, che quelli che si trovavano in mezzo, avrebbero pagato qualcosa a essere altrove. Intanto un poâ di vòto sâè fatto davanti alla porta: il capitano picchia, ripicchia, urla che gli aprano: quelli di dentro vedono dalle finestre, scendon di corsa, aprono; il capitano entra, chiama gli alabardieri, che si ficcan dentro anchâessi lâun dopo lâaltro, gli ultimi rattenendo la folla con lâalabarde. Quando sono entrati tutti, si mette tanto di catenaccio, si riappuntella; il capitano sale di corsa, e sâaffaccia a una finestra. Uh, che formicolaio!
â Figliuoli, â grida: molti si voltano in su; â figliuoli, andate a casa. Perdono generale a chi torna subito a casa. â â Pane! pane! aprite! aprite! â eran le parole piĂš distinte nellâurlĂŹo orrendo, che la folla mandava in risposta.
â Giudizio, figliuoli! badate bene! siete ancora a tempo. Via, andate, tornate a casa. Pane, ne avrete; ma non è questa la maniera. Eh!… eh! che fate laggiu! Eh! a quella porta! Oibò oibò! Vedo, vedo: giudizio! badate bene! è un delitto grosso. Or ora vengo io. Eh! eh! smettete con queâ ferri; giu quelle mani. Vergogna! Voi altri [p. 245 modifica]milanesi, che, per la bontĂ , siete nominati in tutto il mondo! Sentite, sentite: siete sempre stati buoni fi…… Ah canaglia! â

Questa rapida mutazione di stile fu cagionata da una pietra che, uscita dalle mani dâuno di queâ buoni figliuoli, venne a batter nella fronte del capitano, sulla protuberanza sinistra della profonditĂ metafisica. â Canaglia! canaglia! â continuava a gridare, chiudendo presto presto la finestra, e ritirandosi. Ma quantunque avesse gridato quanto nâaveva in canna, le sue parole, buone e cattive, sâeran tutte dileguate e disfatte a mezzâaria, nella tempesta delle grida che venivan di giĂš. Quello poi che diceva di vedere, era un gran lavorare di pietre, di ferri (i primi che coloro avevano potuto procacciarsi per la strada), che si faceva alla porta, per sfondarla, e alle finestre, per svellere lâinferriate: e giĂ lâopera era molto avanzata.
Intanto, padroni e garzoni della bottega, châerano alle finestre deâ piani di sopra, con una munizione di pietre (avranno probabilmente disselciato un cortile), urlavano e facevan versacci a quelli di giĂš, perchĂŠ smettessero; facevan vedere le pietre, accennavano di volerle buttare. Visto châera tempo perso, cominciarono a buttarle davvero. Neppur una ne cadeva in fallo; giacchĂŠ la calca era tale, che un granello di miglio, come si suol dire, non sarebbe andato in terra.
â Ah birboni! ah furfantoni! Ă questo il pane, che date alla povera gente? Ahi! Ahimè! Ohi! Ora, ora! â sâurlava di giĂš. PiĂš dâuno fu [p. 246 modifica]conciato male; due ragazzi vi rimasero morti. Il furore accrebbe le forze della moltitudine: la porta fu sfondata, lâinferriate, svelte; e il torrente penetrò per tutti i varchi. Quelli di dentro, vedendo la mala parata, scapparono in soffitta: il capitano, gli alabardieri, e alcuni della casa stettero lĂŹ rannicchiati neâ cantucci; altri, uscendo per gli abbaini, andavano su peâ tetti, come i gatti.
La vista della preda fece dimenticare ai vincitori i disegni di vendette sanguinose. Si slanciano ai cassoni; il pane è messo a ruba. Qualcheduno in vece corre al banco, butta giĂš la serratura, agguanta le ciotole, piglia a manate, intasca, ed esce carico di quattrini, per tornar poi a rubar pane, se ne rimarrĂ . La folla si sparge neâ magazzini. Metton mano ai sacchi, li strascicano, li rovesciano: chi se ne caccia uno tra le gambe, gli scioglie la bocca, e, per ridurlo a un carico da potersi portare, butta via una parte della farina: chi, gridando: â aspetta, aspetta, â si china a parare il grembiule, un fazzoletto, il cappello, per ricever quella grazia di Dio; uno corre a una madia, e prende un pezzo di pasta, che sâallunga, e gli scappa da ogni parte;

un altro, che ha conquistato un burattello, lo porta per aria: chi va, chi viene: uomini, donne, fanciulli, spinte, rispinte, urli, e un bianco polverĂŹo che per tutto si posa, per tutto si solleva, e tutto vela e annebbia. Di fuori, una calca composta di due processioni opposte, che si rompono e sâintralciano a vicenda, di chi esce con la preda, e di chi vuol entrare a farne.
Mentre quel forno veniva cosĂŹ messo sottosopra, nessun altro della cittĂ era quieto e senza pericolo. Ma a nessuno la gente accorse in numero tale da potere intraprender tutto; in alcuni, i padroni avevan raccolto degli ausiliari, e stavan sulle difese; altrove, trovandosi in pochi, venivano in certo modo a patti: distribuivan pane a quelli che sâeran cominciati a affollare davanti alle botteghe, con questo che se nâandassero. E quelli se nâandavano, non tanto perchè fosser soddisfatti, quanto perchè gli alabardieri e la sbirraglia, stando alla larga da quel tremendo forno delle grucce, si facevan però vedere altrove, in forza bastante a tenere in rispetto i tristi che non fossero una folla. CosĂŹ il trambusto andava sempre crescendo a quel primo disgraziato forno; perchè tutti coloro che gli pizzicavan le mani di far qualche bellâimpresa, correvan lĂ , dove gli amici erano i piĂš forti, e lâimpunitĂ sicura.
A questo punto eran le cose, quando Renzo, avendo ormai sgranocchiato il suo pane, veniva avanti per il borgo di porta orientale, e sâavviava, senza saperlo, proprio al luogo centrale del tumulto. Andava, ora lesto, ora ritardato dalla folla; e andando, guardava e stava in orecchi, per ricavar da quel ronzĂŹo confuso di discorsi qualche notizia piĂš positiva dello stato delle cose. Ed ecco a un di presso le parole che gli riuscĂŹ di rilevare in tutta la strada che fece.
â Ora è scoperta, â gridava uno, â lâimpostura infame di queâ birboni, che dicevano che non câera nè pane, nè farina, nè grano. Ora si vede la cosa chiara e lampante; e non ce la potranno piĂš dare ad intendere. Viva lâabbondanza! â
â Vi dico io che tutto questo non serve a nulla, â diceva un altro: â è un buco nellâacqua; anzi sarĂ peggio, se non si fa una buona giustizia. Il pane verrĂ a buon mercato, ma ci metteranno il veleno, per far morir la povera gente, come mosche. GiĂ lo dicono che siam troppi; lâhanno detto nella giunta; e lo so di certo, per averlo sentito dir io, con questâorecchi, da una mia comare, che è amica dâun parente dâuno sguattero dâuno di queâ signori. â
Parole da non ripetersi diceva, con la schiuma alla bocca, un altro, che teneva con una mano un cencio di fazzoletto suâ capelli arruffati e insanguinati. E qualche vicino, come per consolarlo, gli faceva eco.
â Largo, largo, signori, in cortesia; lascin passare un povero padre di famiglia, che porta da mangiare a cinque figliuoli. â CosĂŹ diceva uno che veniva barcollando sotto un gran sacco di farina; e ognuno sâingegnava di ritirarsi, per fargli largo.
â Io? â diceva un altro, quasi sottovoce, a un suo compagno: â io me la batto. Son uomo di mondo, e so come vanno queste cose.
Questi merlotti che fanno ora tanto fracasso, domani o doman lâaltro, se ne staranno in casa, tutti pieni di paura. Ho giĂ visto certi visi, certi galantuomini che giran, facendo lâindiano, e notano chi câè e chi non câè: quando poi tutto è finito, si raccolgono i conti, e a chi tocca, tocca. â

â Quello che protegge i fornai, â gridava una voce sonora, che attirò lâattenzione di Renzo, â è il vicario di provvisione. â
â Son tutti birboni, â diceva un vicino.
â SĂŹ; ma il capo è lui, â replicava il primo.
Il vicario di provvisione, eletto ognâanno dal governatore tra sei nobili proposti dal Consiglio deâ decurioni, era il presidente di questo, e del tribunale di provvisione; il quale, composto di dodici, anche questi nobili, aveva, con altre attribuzioni, quella principalmente dellâannona. Chi occupava un tal posto doveva necessariamente, in tempi di fame e dâignoranza, esser detto lâautore deâ mali: meno che non avesse fatto ciò che fece Ferrer; cosa che non era nelle sue facoltĂ , se anche fosse stata nelle sue idee.
â Scellerati! â esclamava un altro: â si può far di peggio? sono arrivati a dire che il gran cancelliere è un vecchio rimbambito, per levargli il credito, e comandar loro soli. Bisognerebbe fare una gran stia, e metterli dentro, a viver di vecce e di loglio, come volevano trattar noi. â
â Pane eh? â diceva uno che cercava dâandar in fretta: â sassate di libbra: pietre di questa fatta, che venivan giĂš come la grandine. E che schiacciata di costole! Non vedo lâora dâessere a casa mia. â
Tra questi discorsi, dai quali non saprei dire se fosse piÚ informato o sbalordito, e tra gli urtoni, arrivò Renzo finalmente davanti a quel forno. La gente era già molto diradata, dimodochè potè contemplare il brutto e recente soqquadro. Le mura scalcinate e ammaccate da sassi, da mattoni, le finestre sgangherate, diroccata la porta.
â Questa poi non è una bella cosa, â disse Renzo tra sè: â se concian cosĂŹ tutti i forni, dove voglion fare il pane? Neâ pozzi? â
Ogni tanto, usciva dalla bottega qualcheduno che portava un pezzo di cassone, o di madia, o di frullone, la stanga dâuna gramola, una panca, una paniera, un libro di conti, qualche cosa in somma di quel povero forno; e gridando: ” largo, largo, ” passava tra la gente. Tutti questi sâincamminavano dalla stessa parte, e a un luogo convenuto, si vedeva. – Cosâè questâaltra storia? – pensò di nuovo Renzo; e andò dietro a uno che, fatto un fascio dâasse spezzate e di schegge, se lo mise in ispalla, avviandosi, come gli altri, per la strada che costeggia il fianco settentrionale del duomo, e ha preso nome dagli scalini che câerano, e da poco in qua non ci son piĂš. La voglia dâosservar gli avvenimenti non potè fare che il montanaro, quando gli si scoprĂŹ davanti la gran mole, non si soffermasse a guardare in su, con la bocca aperta.

Studiò poi il passo, per raggiunger colui che aveva preso come per guida; voltò il canto, diede unâocchiata anche alla facciata del duomo, rustica allora in gran parte e ben lontana dal compimento; e sempre dietro a colui, che andava verso il mezzo della piazza. La gente era piĂš fitta quanto piĂš sâandava avanti, ma al portatore gli si faceva largo: egli fendeva lâonda del popolo, e Renzo, standogli sempre attaccato, arrivò con lui al centro della folla. LĂŹ câera uno spazio vòto, e in mezzo, un mucchio di brace, reliquie degli attrezzi detti di sopra. Allâintorno era un batter di mani e di piedi, un frastono di mille grida di trionfo e dâimprecazione.
Lâuomo del fascio lo buttò su quel mucchio; un altro, con un mozzicone di pala mezzo abbruciacchiato, sbracia il fuoco: il fumo cresce e sâaddensa; la fiamma si ridesta; con essa le grida sorgon piĂš forti. â Viva lâabbondanza! Moiano gli affamatori! Moia la carestia! Crepi la Provvisione! Crepi la giunta! Viva il pane! â

Veramente, la distruzion deâ frulloni e delle madie, la devastazion deâ forni, e lo scompiglio deâ fornai, non sono i mezzi piĂš spicci per far vivere il pane; ma questa è una di quelle sottigliezze metafisiche, che una moltitudine non ci arriva. Però, senza essere un gran metafisico, un uomo ci arriva talvolta alla prima, finchâè nuovo nella questione; e solo a forza di parlarne, e di sentirne parlare, diventerĂ inabile anche a intenderle. A Renzo in fatti quel pensiero gli era venuto, come abbiam visto, da principio, e gli tornava ogni momento. Lo tenne per altro in sè; perchè, di tanti visi, non ce nâera uno che sembrasse dire: fratello, se fallo, correggimi, che lâavrò caro.
GiĂ era di nuovo finita la fiamma; non si vedeva piĂš venir nessuno con altra materia, e la gente cominciava a annoiarsi; quando si sparse la voce, che, al Cordusio (una piazzetta o un crocicchio non molto distante di lĂŹ), sâera messo lâassedio a un forno. Spesso, in simili circostanze, lâannunzio dâuna cosa la fa essere. Insieme con quella voce, si diffuse nella moltitudine una voglia di correr lĂ : ” io vo; tu, vai? vengo; andiamo, ” si sentiva per tutto: la calca si rompe, e diventa una processione. Renzo rimaneva indietro, non movendosi quasi, se non quanto era strascinato dal torrente; e teneva intanto consiglio in cuor suo, se dovesse uscir dal baccano, e ritornare al convento, in cerca del padre Bonaventura, o andare a vedere anche questâaltra. Prevalse di nuovo la curiositĂ . Però risolvette di non cacciarsi nel fitto della mischia, a farsi ammaccar lâossa, o a risicar qualcosa di peggio; ma di tenersi in qualche distanza, a osservare. E trovandosi giĂ un poco al largo, si levò di tasca il secondo pane, e attaccandoci un morso, sâavviò alla coda dellâesercito tumultuoso.
Questo, dalla piazza, era giĂ entrato nella strada corta e stretta di Pescheria vecchia, e di lĂ , per quellâarco a sbieco, nella piazza deâ Mercanti. E lĂŹ eran ben pochi quelli che, nel passar davanti alla nicchia che taglia il mezzo della loggia dellâedifizio chiamato allora il collegio deâ dottori, non dessero unâocchiatina alla grande statua che vi campeggiava, a quel viso serio, burbero, accipigliato, e non dico abbastanza, di don Filippo II, che, anche dal marmo, imponeva un non so che di rispetto, e, con quel braccio teso, pareva che fosse lĂŹ per dire: ora vengo io, marmaglia.
Quella statua non câè piĂš, per un caso singolare. Circa cento settantâanni dopo quello che stiam raccontando, un giorno le fu cambiata la testa, le fu levato di mano lo scettro, e sostituito a questo un pugnale; e alla statua fu messo nome Marco Bruto. CosĂŹ accomodata stette forse un par dâanni; ma, una mattina, certuni che non avevan simpatia con Marco Bruto, anzi dovevano avere con lui una ruggine segreta, gettarono una fune intorno alla statua, la tiraron giĂš, le fecero cento angherie; e, mutilata e ridotta a un torso informe, la strascinarono, con gli occhi in fuori, e con le lingue fuori, per le strade, e, quando furon stracchi bene, la ruzzolarono non so dove. Chi lâavesse detto a Andrea Biffi, quando la scolpiva!
Dalla piazza deâ mercanti, la marmaglia insaccò, per quellâaltrâarco, nella via deâ fustagnai, e di lĂŹ si sparpagliò nel Cordusio.

Ognuno, al primo sboccarvi, guardava subito verso il forno châera stato indicato. Ma in vece della moltitudine dâamici che sâaspettavano di trovar lĂŹ giĂ al lavoro, videro soltanto alcuni starsene, come esitando, a qualche distanza della bottega, la quale era chiusa, e alle finestre gente armata, in atto di star pronti a difendersi. A quella vista, chi si maravigliava, chi sagrava, chi rideva; chi si voltava, per informar quelli che arrivavan via via; chi si fermava, chi voleva tornare indietro, chi diceva: â avanti, avanti. â Câera un incalzare e un rattenere, come un ristagno, una titubazione, un ronzĂŹo confuso di contrasti e di consulte. In questa, scoppiò di mezzo alla folla una maledetta voce: â câè qui vicino la casa del vicario di provvisione: andiamo a far giustizia, e a dare il sacco. â Parve il rammentarsi comune dâun concerto preso, piuttosto che lâaccettazione dâuna proposta. â Dal vicario! dal vicario! â è il solo grido che si possa sentire. La turba si move, tutta insieme, verso la strada dovâera la casa nominata in un cosĂŹ cattivo punto.




