Testo originale di Virgilio:
📜 TESTO LATINO – Eneide II, vv. 705–804
[705] Dixerat ille, et iam per moenia clarior ignis auditur, propiusque aestus incendia volvunt. “Ergo age, care pater, cervici imponere nostrae; ipse subibo umeris nec me labor iste gravabit; quo res cumque cadent, unum et commune periclum, una salus ambobus erit. Mihi parvus Iulus sit comes, et longe servet vestigia coniunx.
Vos, famuli, quae dicam animis advertite vestris: est urbe egressis tumulus templumque vetustum desertae Cereris, iuxtaque antiqua cupressus religione patrum multos servata per annos; hanc ex diverso sedem veniemus in unam. Tu, genitor, cape sacra manu patriosque Penatis; me bello e tanto digressum et caede recenti attrectare nefas, donec me flumine vivo abluero.”
Haec fatus latos umeros subiectaque colla veste super fulvique insternor pelle leonis succedoque oneri; dextrae se parvus Iulus implicuit sequiturque patrem non passibus aequis; pone subit coniunx: ferimur per opaca locorum, et me, quem dudum non ulla iniecta movebant tela neque adverso glomerati ex agmine Grai, nunc omnes terrent aurae, sonus excitat omnis suspensum et pariter comitique onerique timentem.
[730] Iamque propinquabam portis omnemque videbar evasisse viam, subito cum creber ad auris visus adesse pedum sonitus, genitorque per umbram prospiciens “nate,” exclamat, “fuge, nate; propinquant. Arma, viri, ferte arma; vocat lux ultima victos.”
Sic ait et rursus sese intulit armaque raptis obiecit scutis atque aetheris axe revisit.
Hic mihi nescio quod trepido male numen amicum confusam eripuit mentem. Namque avia cursu dum sequor et nota excedo regione viarum, heu misero coniunx fatone erepta Creusa substitit, erravitne via seu lapsa resedit, incertum; nec post oculis est reddita nostris.
Nec prius amissam respexi animumve reflexi quam tumulum antiquae Cereris sedemque sacratam venimus: hic demum collectis omnibus una defuit, et comites natumque virumque fefellit.
[755] Quem non incusavi amens hominumque deorumque, aut quid in eversa vidi crudelius urbe? Ascanium Anchisenque patrem Teucrosque penatis commendo sociis et curas gementis remitto meque per obscura revolvens limina vestigia retro quaerere et armis intectum ascendere murum.
Et nunc huc, inde huc, incertum erransque per urbem passim visa sequor, et flammas limina perque circuitum et socium gestamen inquire requiro. Saepe vocans Creüsam, nequiquamque iterumque iterumque vocando, per virum omnem clamoribus impleo.
[765] Quaerenti et tectis urbis sine fine ruenti infelix simulacrum atque ipsius umbra Creüsae visa mihi ante oculos et nota maior imago. Obstipui, steteruntque comae et vox faucibus haesit. Tum sic adfari et curas his demere dictis:
“Quid tantum insano iuvat indulgere dolori, o dulcis coniunx? Non haec sine numine divum eveniunt; nec te comitem hinc portare Creüsam fas, aut ille sinit superi regnator Olympi.
Longa tibi exsilia et vastum maris aequor arandum, et terram Hesperiam venies, ubi Lydius arva inter opima virum leni fluit agmine Thybris.
Illic res laetae regnumque et regia coniunx parta tibi. Lacrimas dilectae pelle Creüsae. Non ego Myrmidonum sedes Dolopumve superbas aspiciam, aut Graiis servitum matribus ibo, Dardanis et divae Veneris nurus.
Sed me magna deum genetrix his detinet oris. Iamque vale, et nati serva communis amorem.”
Haec ubi dicta dedit, lacrimantem et multa volentem dicere deseruit, tenuisque recessit in auras.
|
🇮🇹 Traduzione dei versi 705–804
Così aveva detto, e già più chiaramente si udiva
il fragore del fuoco oltre le mura,
e l’incendio avanzava sempre più vicino.
“Avanti, o caro padre, monta sulle mie spalle:
io mi piegherò sotto di te; non mi peserà questo fardello.
Dove andrà a finire questa nostra sorte,
sarà un solo e comune pericolo,
e una sola salvezza per entrambi.
Mi accompagni il piccolo Iulo,
e mia moglie segua da lontano le nostre tracce.
**Voi, servi, ascoltate bene ciò che vi dico:
fuori della città c’è un colle con un antico tempio
della Cerere abbandonata, e presso di esso
una vecchia cipressa, venerata dai nostri antenati
e custodita per molti anni.
Là ci ritroveremo tutti quanti, da strade diverse.”
Così parlò, prese i sacri oggetti e i Penati paterni:
a me toccava portarli era sacrilegio,
dopo essere stato in guerra e aver toccato il sangue,
finché non fossi stato purificato da un fiume vivo.”
Dette queste parole, coprì con un panno le mie spalle
e vi stese la pelle gialla di un leone;
poi si appoggia al mio collo e io mi piego sotto il peso.
Il piccolo Iulo mi si stringe alla mano destra
e mi segue col passo incerto dietro al padre;
dietro di noi viene mia moglie. Procediamo
per luoghi oscuri. Io, che prima non temevo
né i dardi lanciati né i Greci schierati in battaglia,
ora ogni soffio di vento mi spaventa,
ogni rumore mi fa tremare,
insieme al timore per i miei compagni e per il carico che porto.
Già mi avvicinavo alle porte e mi sembrava
di aver superato ogni pericolo, quando improvviso
giunse al mio orecchio un rumore fitto di passi.
Mio padre, guardando nell’ombra, gridò:
“Fuggi, figlio, fuggi! Si avvicinano.
Portate armi, uomini! L’ultima luce chiama i vinti!”
Così disse, e subito tornò indietro,
prese le armi e si mise davanti a noi con lo scudo.
Allora non so quale nume amico,
ma con crudele incertezza, mi tolse il senno.
Mentre seguivo un sentiero diverso,
allontanandomi dalle vie conosciute,
ahimè, la sventurata Creusa, mia moglie,
fu separata da me — per destino o per errore,
non so: se perse il passo o cadde e rimase indietro.
Da allora non la vidi mai più con i miei occhi.
Non mi voltai a cercarla, né pensai a lei
prima che giungessimo al colle di Cerere antica
e al luogo sacro. Solo allora, raccolti tutti insieme,
lei mancava: i compagni non l’avevano vista,
né il figlio né il marito.
Chi non ho accusato, folle, tra uomini e dèi?
Che cosa di più crudele ho visto nella città distrutta?
Consegnai ad Anchise, a Iulo e ai Penati troiani
i miei compagni e i loro dolori,
e ripresi da solo il cammino oscuro,
deciso a cercarla e a risalire disarmato
dentro le mura nemiche.
Ora qua ora là, smarrito nella città in rovina,
seguo ovunque il ricordo di lei,
corro tra le fiamme e per ogni casa,
cercando la mia compagna, chiamandola invano.
Spesso grido il nome di Creüsa,
invocandolo ancora e ancora,
finché la mia voce riempie ogni strada.
Mentre correvo senza fine tra le case in fumo,
mi apparve davanti agli occhi l’immagine di Creusa,
più grande del vero, simile a lei, ma anche più luminosa.
Rimasi atterrito, i capelli mi si rizzarono,
la voce mi morì in gola.
Poi ella parlò, e con quelle parole
mi tolse il dolore:
“Perché ti abbandoni così a un dolore insano,
o dolce sposo? Queste cose non accadono
senza il volere degli dèi. Non è lecito
che tu ti porti via Creusa. Così non vuole
il re degli dèi del cielo alto.
Tu dovrai affrontare lunghi esili
e solcare l’ampio mare,
e arriverai infine alla terra dell’Occidente,
dove il Tevere scorre tranquillo
tra i campi fertili del popolo latino.
Là ti attendono fortune liete,
un regno e una sposa regale.
Smetti di piangere per la tua cara Creusa.
Io non sarò la serva di donne achee,
né vedrò le superbe case dei Mirmidoni o dei Dolopi.
No, io resto qui, sposa di Dardano
e nuora della dea Venere.
Ma la grande madre degli dèi mi tiene in questi luoghi.
Addio, conserva l’amore per nostro figlio.”
Così disse. Mentre io piangevo e volevo dirle tante cose,
scomparve, dileguandosi nell’aria leggera.
|