
Nastagio degli Onesti
28 Dicembre 2019
La pietà vaticana in San Pietro di Michelangelo
28 Dicembre 2019Trama, commento e testo del brano della morte di Ombretta tratto dal decimo capitolo di “Piccolo mondo antico” di Fogazzaro
Questo brano descrive in modo straziante e dettagliato la scoperta della morte della piccola Ombretta e il disperato tentativo di salvarla, culminando nel dolore lacerante e nella ribellione di Luisa, sua madre.
Sintesi del brano La morte di Ombretta
Il testo inizia con grida disperate che chiamano Luisa, la quale è però assorta in un’accesa discussione con Pasotti e la Marchesa, risoluta a far valere le sue ragioni e a lanciare un avvertimento. Le sue parole altere vengono interrotte da ulteriori, più vicine e strazianti, grida che la chiamano a casa urgentemente.
Luisa, inizialmente ignara o forse intenzionalmente sorda a ciò che la circonda a causa della sua foga, viene assalita da un gruppo di donne sconvolte e in lacrime che la implorano di tornare subito a casa. La visione di quelle facce disperate la strappa bruscamente dalla sua discussione e dal suo proposito. Terrorizzata, chiede cosa stia succedendo, e le donne, travolte dal pianto, riescono solo a ripetere: “La sua bambina, la sua bambina!”.
A quelle parole, Luisa reagisce come una pazza, chiedendo di Maria, cosa le sia successo, e sente nominare il lago. Con un urlo agghiacciante, si apre un varco tra la folla e si precipita verso casa, salendo la scalinata sotto la pioggia battente. Il dolore è così forte che crolla a terra sull’ultimo scalino, ma viene subito soccorsa e rialzata. Chiede con urgenza se sua figlia è morta, e qualcuno risponde di no, rassicurandola che il medico è presente.
Ritrovata una forza incredibile, Luisa riprende la corsa, seguita solo da due persone. Incontra Ismaele che piange e cerca di trattenerla, ma Luisa lo spinge via con frenesia. Ismaele, sconvolto, le grida dietro che “forse non è niente”, ma la pioggia incessante sembra smentirlo con il suo lamento.
Giunta ansimante sul sagrato di Oria, Luisa chiama disperatamente Maria. La finestra della stanza è aperta, e si sentono i pianti della Cia e le sgridate di Ester. Viene accolta da persone sconvolte, tra cui il professor Gilardoni, pallido e in lacrime. Le voci attorno a lei sono di incoraggiamento misto a disperazione. Esausta, Luisa sta per cadere, ma il professore la sostiene e la conduce su per le scale e il corridoio, affollati di gente.
Tra voci affannose di conforto, Luisa entra da sola nella camera, quasi portata di peso. All’interno, il lume è acceso a causa del buio portato dalla pioggia. La piccola Ombretta giace nuda sul letto, con gli occhi e la bocca semiaperti, il viso leggermente roseo ma le labbra nerastre e il corpo livido. Il dottore, aiutato da Ester, sta tentando la respirazione artificiale. Luisa, singhiozzando, chiede al dottore cosa stia succedendo, e lui risponde gravemente che stanno facendo il possibile.
Luisa si getta sui piedi gelati della figlia, coprendoli di baci disperati. Il dottore tenta ancora un’ultima manovra disperata, soffiando aria nella bocca di Maria. Luisa, con un barlume di speranza, sussurra che la bambina è rosea, ma il medico spegne il cerino con cui aveva controllato il respiro, segno inequivocabile della fine.
Le donne presenti, che pregavano, si avvicinano. Luisa e il dottore continuano a strofinare il petto e il ventre della bambina. Il medico cerca di farla desistere, ma Luisa, con energia convulsa, rifiuta di smettere.
Intanto, fuori dalla stanza, si ricostruiscono gli eventi: la piccola Ombretta è rimasta nell’acqua della darsena per un tempo imprecisato durante un temporale. Toni Gall, un uomo che era nelle stalle, sceso a controllare una barca, l’ha trovata fluttuante con la schiena a galla e la testa sott’acqua. Ha subito dato l’allarme e portato su la bambina, che non dava più segni di vita. Si ipotizza che la bambina fosse scesa in darsena da sola, dopo essere stata mandata a pregare da Ester, per mettere in acqua la sua barchetta di metallo, trovando le porte aperte.
In sala, Toni Gall racconta l’accaduto più volte. Tutti piangono, tranne lo zio Piero, che siede immobile e pietrificato, con una nobile espressione di dolore muto e composto, senza lacrime né parole, presago di un destino ineluttabile.
Passano ore di attesa angosciante. Alle cinque e mezza si ode finalmente la voce di Luisa: un grido acuto e inenarrabile che gela il sangue. Il dottore aveva tentato di farla desistere, ma al suo urlo aveva ripreso il suo lavoro. Il silenzio della casa diventa più sepolcrale, interrotto solo dal lamento della pioggia. La gente si ritira lentamente.
Dopo le sette, rimasti solo i familiari e pochi intimi, si odono gemiti lunghi e sommessi, quasi inumani. Il dottore Aliprandi entra in sala e chiede dello zio Piero, invitandolo a intervenire per cercare di portare via Luisa. Lo zio, inizialmente riluttante, si alza a fatica e acconsente ad andare con il medico.
Entrando nella stanza, trovano Luisa seduta sul letto con la sua bambina morta in braccio, stringendola e baciandola, con gemiti lunghi e inesprimibili. Parla alla figlia con tenera illusione, come se fosse viva, invitando lo zio ad avvicinarsi. Lo zio Piero, sconvolto, le chiede di quietarsi e di seguirlo. Ma Luisa, senza guardarlo, lo invita ad avvicinarsi e baciare la sua “Ombretta Pipì”, la sua “Maria”. Lo zio Piero si china, bacia il visetto deturpato dalla morte, bagnandolo con le sue lacrime.
Luisa continua a parlare della bambina come se fosse viva, chiedendo al dottore di avvicinare il lume per far vedere allo zio il “tesoro”. Nonostante la riluttanza, il dottore obbedisce, illuminando il piccolo cadavere che, con gli occhi semiaperti e le pupille dilatate, evoca una pietà immensa. Luisa accusa se stessa e il dottore di aver maltrattato il corpicino con tanto strofinare.
A questo punto, il dottore, risoluto, la interrompe, invitandola a parlare alla sua bambina “ch’è in Paradiso”, ma non a quella che ha davanti. Questa frase produce un’impressione terribile su Luisa. Ogni traccia di tenerezza scompare dal suo viso. Indietreggia cupa, stringendosi la figlia al petto, e strilla: “No! Non in Paradiso! È mia! È mia! Dio è cattivo! No! Non gliela do!”
Commento sul brano
Questo passo de “Piccolo mondo antico” è uno dei momenti più drammatici e commoventi della letteratura italiana, un capolavoro nella descrizione del dolore materno di fronte alla perdita.
- La tensione crescente: Fogazzaro costruisce la scena con una maestria incredibile. Inizia con le grida lontane, l’indifferenza di Luisa, poi l’avvicinarsi delle voci, il loro crescendo di disperazione. Questo ritmo incalzante, la descrizione della confusione e dell’ansia delle donne, catapultano il lettore nell’urgenza della tragedia, rispecchiando lo shock e la negazione iniziale di Luisa.
- Il contrasto tra ragione e irrazionalità: Luisa è inizialmente ritratta come una donna forte, razionale, impegnata in una disputa di principio. Ma la notizia della morte della figlia la strappa brutalmente dalla logica, gettandola in uno stato di follia e disperazione pura. La sua corsa frenetica, la caduta, le grida, la sua incapacità di sentire o vedere altro che la speranza (o la negazione) della vita della figlia, sono tutti segni di una mente e un corpo che collassano sotto il peso di un dolore insopportabile.
- Il realismo della descrizione: Fogazzaro non risparmia i dettagli cruenti: il corpicino livido, le labbra nerastre, gli occhi semiaperti. Questa descrizione cruda rende la scena terribilmente reale e palpabile, amplificando il senso di tragedia. I tentativi disperati di rianimazione, le piccole mani portate sul capo, le pressioni sull’addome, sono descritti con un realismo quasi clinico che rende la scena ancora più straziante.
- Il dolore silenzioso dello zio Piero: In netto contrasto con la disperazione rumorosa di Luisa e della gente del paese, c’è la figura dello zio Piero. Il suo dolore è “mutu, composto, dell’uomo savio e forte”. Non ha lacrime né parole, ma la sua immobilità, la sua espressione “solenne e grave”, e la sua percezione dell’ “ombra del Fato antico” rivelano una sofferenza profonda, stoica e rassegnata, che si distacca dalla “chiassosa nervosità passeggera” degli altri. È il dolore di chi ha già accettato l’ineluttabilità della tragedia, una figura che incarna una dignità tragica.
- La ribellione finale di Luisa: Il culmine emotivo del brano è la reazione di Luisa alle parole del dottore, che le suggerisce di parlare alla figlia “ch’è in Paradiso”. Questa frase, apparentemente di conforto, scatena in Luisa una ribellione estrema e blasfema. La sua negazione della morte, il suo grido “È mia! È mia! Dio è cattivo! No! Non gliela do!”, è un atto di sfida contro la divinità e contro il destino. È l’espressione di un amore materno così viscerale e possessivo da non poter accettare la separazione, neanche nell’aldilà. In questo momento, Luisa non è solo una madre in lutto, ma un simbolo della ribellione umana contro l’ingiustizia del dolore e della perdita. Questo grido finale è uno dei più potenti e memorabili dell’intero romanzo, un urlo primordiale che risuona con forza tragica.
Questo passaggio è un esempio sublime di come Fogazzaro riesca a scavare nelle profondità dell’animo umano, rappresentando il dolore nella sua forma più pura e devastante, con un’intensità emotiva che ancora oggi commuove profondamente.
Testo del Brano tratto dal CAPITOLO X
10. Esüsmaria, sciora Lüisa!
D’improvviso, un urlo !
In quel momento partirono dall’alto del sagrato acute, disperate grida:
«Sciora Lüisa! Sciora Lüisa!».
Luisa non udì. Pasotti aveva irosamente gridato ai portatori «avanti!» e i portatori riprendevano le stanghe.
«Avanti pure!», diss’ella, risoluta di mettersi a fianco della portantina. «Non ho a dire che due parole.»
Se Pasotti e la vecchia marchesa avevano prima immaginato lagrime e suppliche, dovettero attendersi allora dal fiero viso e dalla vibrante voce ben altro.
«Parole, adesso?», fece Pasotti avanzandosi quasi minaccioso.
«Sciora Lüisa! Sciora Luisa!», si gridò da vicino con accento di strazio; e venne con le grida un rumor di passi precipitosi. Ma Luisa non parve udir niente.
«Sì, adesso!», rispose a Pasotti con alterezza inesprimibile. «Io avverto, per mia bontà, questa signora…»
«Sciora Lüisa!»
Ella dovette pure interrompersi e voltarsi. Due, tre, quattro donne le furono addosso, stravolte, scarmigliate, singhiozzanti:
«Che La vegna a cà subet! Che La vegna a cà subet!».
Le facce, i pianti, le voci la strapparon d’un colpo fuori della sua passione, del suo proposito.
Si avventò fra quelle donne esclamando: «Cosa c’è?». Ed esse sapevano solo ripetere con gli occhi schizzanti dall’orbita:
«Che La vegna a cà! Che La vegna a cà!».
«Ma cosa c’è, stupide?»
«La Soa tosa, la Soa tosa!»
Ella gridò come pazza:
«La Maria? La Maria? Cosa? Cosa?»,
udì fra i singhiozzi nominar il lago, cacciò uno strido e, apertasi la via come una fiera, si slanciò su per la scalinata. Quelle donne non poterono tenerle dietro, ma sul sagrato ce ne erano altre, malgrado la pioggia, che strillavano e piangevano.
Luisa si sentì mancare, precipitò a terra sull’ultimo scalino.
Le donne accorsero a lei, dieci mani la presero, la sollevarono. Urlò:
«Dio, è morta?».
Qualcuno rispose: «No, no!».
«Il medico?», diss’ella ansando. «Il medico?».
Molte voci risposero che c’era.
Ella parve riaver tutta la sua energia, riprese lo slancio e la corsa. Otto o dieci persone si precipitarono dietro a lei. Due sole poterono seguirla. Volava.
Al cimitero incontrò Ismaele e un altro, gridò appena li vide:
«È viva? È viva?».
Il compagno d’Ismaele ritornò indietro di corsa per andar ad avvertire che la madre veniva. Ismaele piangeva, seppe solamente rispondere:
«Esüsmaria, sciora Luisa!»,
e fece atto di trattenerla.
Luisa lo urtò freneticamente via, passò oltre, seguita da lui che aveva perduta la testa e adesso le gridava dietro, correndo:
«L’è forsi nient! l’è forsi nient!».
Pareva che la pioggia dirotta, continua, eguale, lo smentisse piangendo.
Giunta ansante sul sagrato di Oria, Luisa ebbe ancora la forza di gridare:
«Maria! Maria mia!».
La finestra dell’alcova era aperta. Udì la Cia che piangeva ed Ester che la sgridava. Alcune persone fra le quali il professor Gilardoni le uscirono incontro. Il professore teneva le mani giunte e piangeva silenziosamente, pallido come un cadavere. Gli altri bisbigliavano:
«Coraggio! Speriamo!».
Ella fu per cadere, esausta. Il professore le cinse la vita con un braccio, la trasse su per le scale che eran gremite di gente, come pure il corridoio, al primo piano.
Luisa passò, quasi portata di peso, fra voci affannose di conforto:
«Coraggio, coraggio! Chi sa! Chi sa!».
All’entrata della camera dell’alcova, si sciolse dal braccio del professore, entrò sola.
La tragedia di Maria
Avevan dovuto accendere il lume perché nell’alcova, causa la pioggia, faceva scuro. La povera dolce Ombretta posava nuda sul letto cogli occhi semiaperti e la bocca pure semiaperta. Il viso era leggermente roseo, le labbra nerastre, il corpo di una lividezza cadaverica. Il dottore, aiutato da Ester, tentava la respirazione artificiale, portando le piccole braccia sopra il capo e lungo i fianchi, alternativamente; facendo pressioni sull’addome.
«Dottore? Dottore?», singhiozzò Luisa.
«Facciamo il possibile», rispose il dottore, grave.
Ella precipitò col viso sui piedi gelati della sua creatura, li coperse di baci forsennati. Allora Ester fu presa da un tremito.
«No no!», fece il dottore. «Coraggio, coraggio!»
«A me», esclamò Luisa.
Il dottore l’arrestò con un gesto e fece segno ad Ester di sostare. Si chinò sul visino di Maria, le mise la bocca sulla bocca, respirò più volte profondamente, si rialzò.
«Ma è rosea, è rosea!», sussurrò Luisa ansando.
Il dottore sospirò in silenzio, accese un cerino, lo accostò alle labbra di Maria.
Tre o quattro donne che pregavano ginocchioni si alzarono, si accostarono al letto palpitanti, trattenendo il respiro. L’uscio della sala era aperto; altri volti si affacciarono di là, silenziosi, intenti. Luisa, inginocchiata accanto al letto, teneva gli occhi fissi alla fiamma.
Una voce mormorò:
«Si muove».
Ester, dritta dietro Luisa, scosse il capo. Il dottore spense il cerino.
«Lana calda!», diss’egli.
Luisa si precipitò fuori e il dottore riprese i movimenti delle braccia. Poi, quando Luisa ritornò con la lana riscaldata, egli da un lato, ella dall’altro si diedero a strofinar forte il petto e il ventre della piccina.
Dopo un po’, vedendo il pallore, il viso contraffatto di Luisa, il medico fece segno ad una ragazza di pigliarne il posto.
«Ceda, ceda», diss’egli perché Luisa aveva fatto un gesto di protesta. «Sono stanco anch’io. Non è possibile.»
Luisa scosse il capo senza parlare, continuando l’opera sua con energia convulsa. Il dottore alzò silenziosamente le spalle e le sopracciglia, cedette il proprio posto alla ragazza e ordinò a Ester di far riscaldare dell’altra lana per coprirne le gambe della bambina.
Ester andò, fece lei, perché la Veronica, appena successo il caso, era sparita, non si trovava più.
Le voci della gente
Nel corridoio e sulle scale la gente discuteva il fatto, il come, il dove. Quando passò Ester tutti le domandarono:
«E così? E così?».
Ester fece un gesto sconsolato, passò senza rispondere. Poi le discussioni ricominciarono a mezza voce.
Non si sapeva per quanto tempo la bambina fosse rimasta nell’acqua. Durante la furia del temporale un tale Toni Gall si trovava nelle stalle dietro casa Ribera. Gli venne in mente che il battello del signor ingegnere fosse legato male e potesse fracassarsi ai muri della darsena. Discese a salti, vide aperto l’uscio della darsena ed entrò.
Il battello ballava spaventosamente, inondato dagli sprazzi delle onde che si frangevano sui muri; ballava, si dimenava fra le catene e s’era posto di traverso, avendo la poppa quasi addosso al muro.
In faccia all’uscio che mette dalla via pubblica nella darsena, corre un andito dal quale due scalette scendono all’acqua, la prima di fianco alla prora della barca, la seconda di fianco alla poppa.
Il Toni Gall discese per la scaletta seconda onde accorciare la catena di poppa. Là, fra la barca e l’ultimo scalino, dov’eran sessanta o settanta centimetri d’acqua, vide fluttuare il corpicino di Maria col dorso a galla e il capo sott’acqua.
Nel trarla dall’acqua scorse nel fondo una barchetta di metallo. Portò su la bambina gridando con la sua terribile voce, fece correre tutto il paese e, per fortuna, anche il medico, che si trovava a Oria, aiutò Ester a spogliar la povera creatura che non dava più segni di vita.
Il silenzio dello zio Piero
Con chi era ella stata prima di scendere in darsena? Con la Veronica no, perché la Veronica era stata veduta entrar nel ripostiglio dei vasi dietro la casa con la sua guardia di finanza prima che Luisa uscisse. Con Ester o con il professore neppure. Ester l’aveva mandata a pregare nella camera dell’alcova e poi non l’aveva veduta più.
La Cia stava a lavorare e l’ingegnere a scrivere quando avevano udito le grida formidabili del Toni Gall. Maria doveva esser discesa in darsena dalla camera dell’alcova per mettere la sua barchetta nell’acqua e fatalmente avea trovato aperta la porta di casa, aperto l’uscio della darsena.
Il Toni Gall era d’opinione che avesse passato qualche minuto nell’acqua perché galleggiava discosto dal luogo dove la barchetta giaceva nel fondo.
Egli descriveva per la centesima volta la sua scoperta spaventosa stando in sala con la Cia, con l’ingegnere, il professore ed altri del paese. Tutti singhiozzavano, meno lo zio Piero.
Seduto sul canapè dove prima stavano il Gilardoni ed Ester, pareva impietrato. Non aveva una lagrima, non aveva una parola. Le chiacchiere del Toni Gall gli davano evidentemente noia, ma taceva.
La sua nobile fisionomia era piuttosto solenne e grave che turbata. Pareva ch’egli vedesse davanti a sé l’ombra del Fato antico. Neppure domandava notizie; si capiva che non aveva speranza.
E si capiva che il suo dolore era ben diverso da quelle chiassose nervosità passeggere che gli si agitavano intorno. Era il dolore muto, composto, dell’uomo savio e forte.
L’ultimo disperato tentativo
Dall’uscio aperto dell’alcova venivan voci ora d’interrogazione ora di comando. Nessuno poté però dire, per un’ora e mezzo, di aver udita la voce di Luisa.
Qualche volta venivan pure voci trepide, quasi liete. Pareva a qualcuno, là dentro, notare un moto, un alito, un tepor di vita. Allora tutti quelli che eran fuori accorrevano.
Lo zio Piero volgeva il capo verso l’uscio dell’alcova e solo in quei momenti si disordinava un poco nel viso. Pur troppo vide ogni volta la gente ritornarsene lentamente, in un silenzio accorato.
Passarono le cinque. Il tempo durando piovoso, la luce mancava.
Alle cinque e mezzo si udì finalmente la voce di Luisa. Fu uno strido acuto, inenarrabile, che agghiacciò il sangue nelle vene di tutti.
Rispose la voce del dottore con un accento di premurosa protesta. Si seppe che il dottore aveva fatto un gesto come per dire: «oramai è inutile: desistiamo», e che al grido di lei aveva ripreso il lavoro.
Poi, nel lamento monotono che la pioggia minuta e fitta metteva a tutte le finestre aperte, il silenzio della casa parve divenuto più sepolcrale.
La sala, il corridoio andavano diventando bui, vi si andò avvivando il debole chiaror di candele che usciva dall’alcova.
La gente cominciò a ritirarsi, un’ombra dopo l’altra, silenziosamente, in punta di piedi. Si udivano poi sul ciottolato della via gli scarponi pesanti, passi senza voci.
La Cia si avviò pian piano al suo padrone, gli sussurrò all’orecchio se non volesse prendere qualche cosa.
Egli la fece tacere con un gesto brusco.
La fine
Dopo le sette, essendo partiti tutti gli estranei alla famiglia meno il Toni Gall, Ismaele, il professore, l’Ester e tre o quattro donne ch’eran nell’alcova, si udirono dei gemiti lunghi, sommessi, che quasi non parevano umani.
Il dottore entrò in sala. Non ci si vedeva. Urtò in una sedia e disse forse:
«C’è qui il signor ingegnere?»
«Scior sì», rispose il Toni Gall e andò a pigliar un lume.
L’ingegnere non parlò né si mosse.
Il Toni Gall ritornò presto con un lume e il dottor Aliprandi, che mi piace ricordar qui come un franco galantuomo, una bella mente e un nobile cuore, si avvicinò al canapè dove sedeva lo zio Piero.
«Signor ingegnere», diss’egli con le lagrime agli occhi, «adesso bisogna che faccia qualche cosa Lei.»
«Io?», rispose lo zio Piero alzando il viso.
«Sì, bisogna almeno cercare di condurla via. Bisogna che venga Lei e ci metta una parola. Lei è come un padre. Questi sono i momenti del padre.»
«Lo lasci stare, il mio padrone», brontolò la Cia. «Non è buono per queste cose. Ci soffre e niente altro.»
Adesso si udivano, insieme ai gemiti, voci tenere e baci.
L’ingegnere puntò i pugni sul canapè e rimase un momento a capo chino. Poi si alzò, non senza stento, e disse al medico:
«Debbo andar solo?»
«Desidera che ci sia anch’io?»
«Sì.»
«Va bene. Del resto sarà inutile. Forzare non vorrei ma tentare bisogna.»
Il dottore mandò via le donne ch’eran ancora nell’alcova, poi si volse dall’entrata all’ingegnere e gli fe’ segno di venire.
«Donna Luisa», diss’egli dolcemente. «C’è lo zio, il suo caro zio, che viene a pregarla.»
L’addio straziante
Il vecchio entrò col viso pacato ma vacillando. Fatti due passi nella camera si fermò.
Luisa era seduta sul letto con la sua bambina morta in braccio, la stringeva, la baciava sul viso e sul collo, gemeva, premendovi su le labbra, gemiti lunghi, inesprimibili.
«Sì sì sì sì», diss’ella, quasi con un sorriso tenero nella voce. «È il tuo zio, cara, è il tuo zio che viene a trovar il suo tesoro, la sua Ombretta, la sua Ombretta Pipì che gli vuol tanto bene. Sì sì sì sì.»
«Luisa», disse lo zio Piero, «quietati. Tutto è stato fatto quel che si poteva fare, adesso vieni con me, non star più qui, vieni con me.»
«Zio zio zio», fece Luisa con una voce grossa di tenerezza, senza guardarlo, stringendosi il cadavere sul seno, cullandolo. «Vieni qua, vieni qua, vieni qua dalla tua Maria. Vieni, vieni qua da noi che sei il nostro zio, il nostro caro zio. No, cara, no, cara, non ci abbandona mica il nostro zio.»
Lo zio tremò, il dolore lo vinse un momento, gli strappò un singhiozzo.
«Lasciala in pace», diss’egli con voce soffocata.
Essa non parve udirlo, riprese:
«Andiamo noi, cara, andiamo noi dal nostro zio. Che ci andiamo, Maria? Sì, sì, andiamo, andiamo».
Si lasciò sdrucciolare dal letto a terra, si avviò verso lo zio stringendosi al petto col braccio sinistro la sua dolce morta, passò l’altro al collo del vecchio, gli sussurrò:
«Un bacio, un bacio, un bacio alla tua Ombretta, un bacio solo, uno solo.»
Lo zio Piero si chinò, baciò il visetto già deturpato amaramente dalla morte, lo bagnò di due grosse lagrime.
«Guarda, guarda, zio», diss’ella. «Dottore, porti qua il lume. Sì sì, non sia cattivo, dottore. Guarda, zio, che tesoro. Dottore!»
L’Aliprandi era riluttante e tentò resistere ancora; ma quel dolore folle aveva qualche cosa di sacro che s’impose. Obbedì, prese il lume e lo accostò al piccolo cadavere che faceva con quegli occhi semiaperti e quelle pupille dilatate una pietà immensa ed era stato la Maria, la Ombretta gentile, la dolcezza del vecchio, il viso e l’amore della casa.
«Guarda, zio, questo piccolo petto come l’abbiamo maltrattato, povero tesoro, come gli abbiamo fatto male con tanto strofinare. La tua mamma è stata, sai, Maria, la tua brutta mamma e quel cattivo dottore lì.»
«Basta!», disse il dottore risolutamente, posando il lume sulla scrivania. «Parli pure alla Sua bambina, ma non a questa, a quella ch’è in Paradiso.»
L’impressione fu terribile. Ogni tenerezza sparì dal viso di Luisa. Ella indietreggiò cupa, stringendosi la sua morta sul seno.
«No!», stridette, «no! non in Paradiso! È mia! È mia! Dio è cattivo! No! Non gliela do!»
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