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28 Dicembre 2019Analisi e testo della poesia L’ipotesi di Guido Gozzano, un sogno crepuscolare di vita semplice e ironia di sapore dantesco
Guido Gozzano (1883-1916), figura eminente del Crepuscolarismo italiano, è celebre per le sue poesie intrise di malinconia, ironia e un’attenta osservazione della quotidianità borghese. La sua opera, spesso caratterizzata da un tono dimesso e da un’autoironia sottile, si distingue per la capacità di demistificare i grandi ideali romantici e dannunziani. Tra le sue liriche più rappresentative, L’ipotesi, tratta da Poesie sparse, offre uno spaccato profondo della sua visione del mondo e del suo stile inconfondibile.
Analisi della Poesia
L’ipotesi di Guido Gozzano è un lungo componimento che si articola in sei sezioni, esplorando il tema di una vita alternativa, sognata e mai vissuta. La poesia è un esempio emblematico del Crepuscolarismo gozzaniano, caratterizzato da un tono malinconico, autoironico e da una predilezione per il quotidiano e il “buon gusto” borghese, in contrapposizione ai fasti e agli eccessi del Romanticismo e del Decadentismo.
I. L’Incanto dell’Ipotesi Iniziale La poesia si apre con una riflessione sulla possibilità di una vita diversa, un’ipotesi di felicità legata a una figura femminile non ancora incontrata. La “Signora vestita di nulla” è un’immagine enigmatica, forse un’allusione a una musa irraggiungibile o a un’esperienza amorosa non convenzionale, che contrasta con la “tutt’altra Signora” che potrebbe diventare sua moglie. Questa sezione introduce il tema del desiderio di una vita semplice e convenzionale, ma anche la consapevolezza della sua improbabilità.
II. L’Idealizzazione di Felìcita: La Donna del Canavese Gozzano delinea qui la figura della donna ideale per questa vita ipotetica: non la donna colta e raffinata (“che legge romanzi, cresciuta / tra gli agi, mutevole e bella, e raffinata e saputa”), ma una figura semplice, quasi anacronistica. Felìcita è la donna del “Canavese”, legata a un mondo rurale e borghese, che “prega e digiuna e canta e ride, più fresca / dell’acqua, e vive con una semplicità di fantesca”. Il suo nome, “Felìcita!”, ripetuto con enfasi, diventa un simbolo di purezza, innocenza e di un’esistenza “disadorna e bella”, fatta di “cose semplici e buone”. È l’antitesi della donna fatale dannunziana, un ritorno a valori domestici e rassicuranti.
III. Il Sogno di una Vita Borghese nel 1940 Il sogno si proietta nel futuro, precisamente nel “mille e… novecento… quaranta”, una data che per Gozzano (morto nel 1916) è già “molto di là da venire”, ma che per il lettore è un passato già compiuto, creando un effetto di straniamento e malinconia. In questo futuro ipotetico, i sogni e le ansie giovanili sono “sfioriti” e “sopiti”, sostituiti da una “molto agiata semplicità”. La vita è fatta di “semplici cose”, come i frutti dell’antico frutteto, i balconi di caprifoglio e il canto dei canarini. Viene descritta una famiglia serena, con figli che crescono e portano notizie di una vita ordinaria: la gravidanza della figlia, i guadagni del figlio. È un’immagine di felicità borghese, priva di grandi slanci ma rassicurante.
IV. La Maturità e il Ritorno alla Fede La quarta sezione immagina la vecchiaia del poeta, “sui settanta”, circondato dal Sindaco, dagli “ottimati” e dal Curato. Il gioco nella “gran sala severa” e il “gesto canonicale” del Curato suggeriscono un ritorno a un’esistenza più tradizionale e, sorprendentemente, alla Chiesa. Questo “ritornare alla Chiesa” è presentato non come una conversione mistica, ma come un “migliore partito” per una ragione che, dopo aver “sospesa a lungo sul nero Infinito”, non trova altra soluzione. È un approdo pragmatico, quasi disilluso, alla fede.
V. Gli Amici, la Memoria e la Sala da Pranzo Il poeta immagina la visita degli “amici d’adesso”, ormai “calvi grigi ritinti”, superstiti di un tempo passato. La casa è “ricca e modesta”, e le sale si ridesterebbero “a festa”. Tuttavia, emerge una nota malinconica: “ma chi sa quanti me stesso sarebbero morti in me stesso!”. La consapevolezza del tempo che passa e delle trasformazioni interiori si fa strada. La “sala da pranzo”, in particolare, diventa un luogo di memoria e nostalgia, “più casta d’un refettorio”, dove il bambino Gozzano “pensavi tutto un tuo mondo illusorio”. È un rifugio di fronte alla “favola umana” che si compie, un luogo che concilia i sensi con la tavola, offrendo un “ultimo bene” ai vecchi.
VI. La Cena all’Aperto e la Parodia di Ulisse L’ultima sezione è la più lunga e complessa, culminando in una celebre parodia. La cena all’aperto, in una “villa” che è in realtà un “vasto edifizio modesto”, è un’immagine di quiete e semplicità. Il dialogo tra il poeta e sua moglie (Felìcita) è fatto di “cose più semplici”, come l’osservazione del tempo o l’arrivo di una macroglossa. La moglie, “pur sempre bambina tra i giovani capelli bianchi”, è una figura domestica e premurosa. La descrizione dei frutti del frutteto, con la loro “bellezza concreta” e il loro “aroma”, evoca una sensualità terrena e una nostalgia per la “giovinezza defunta”.
Il dialogo si sposta poi sulla letteratura, in particolare sui “versi del secolo prima”. Qui Gozzano introduce la celebre parodia di Ulisse, il “Re-di-Tempeste”. La moglie, curiosa, chiede chi fosse questo personaggio, e il poeta, “tra un riso confuso (con pace d’Omero e di Dante)”, racconta una versione demistificata del mito. L’Ulisse di Gozzano non è l’eroe dantesco del “folle volo” per la conoscenza, ma un uomo che “diede col vivere scempio / un bel deplorevole esempio / d’infedeltà maritale”, che “visse a bordo d’un yacht” frequentando “famose cocottes”. La sua ricerca di fortuna in America, motivata dal bisogno di “danari, molti danari”, lo porta non al Purgatorio di Dante, ma a un “monte del Purgatorio” che “trasse la nave all’in giù”, facendolo piombare nell’Inferno. Questa reinterpretazione ironica e borghese del mito di Ulisse è il culmine della demistificazione gozzaniana, che riduce l’eroismo a meschine motivazioni economiche e sentimentali.
La poesia si chiude con la ripetizione dei versi iniziali: “Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia, / se già la Signora vestita di nulla non fosse per via. / Io penso talvolta…”. Questa circolarità rafforza il carattere ipotetico e irrealizzabile del sogno, lasciando il lettore con un senso di sospensione e malinconia.
Conclusione
L’ipotesi è una poesia che incarna appieno lo spirito del Crepuscolarismo. Gozzano, con la sua ironia sottile e la sua capacità di osservare la vita quotidiana, costruisce un sogno di felicità borghese e semplice, in netto contrasto con gli ideali eroici e le passioni sfrenate della poesia precedente. La figura di Felìcita, la donna domestica e rassicurante, è l’antitesi della femme fatale. La parodia di Ulisse è un esempio magistrale di come Gozzano utilizzi il mito per riflettere sulla banalità e sulla disillusione della vita moderna. La poesia è un invito a contemplare la bellezza delle “cose semplici”, pur nella consapevolezza della loro fragilità e della malinconia che accompagna il tempo che passa.
Testo della poesia “L’ipotesi” – da Poesie sparse di Guido Gozzano
I.
Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,
se già la Signora vestita di nulla non fosse per via…
E penso pur quale Signora m’avrei dalla sorte per moglie,
se quella tutt’altra Signora non già s’affacciasse alle soglie. 4
II.
Sposare vorremmo non quella che legge romanzi, cresciuta
tra gli agi, mutevole e bella, e raffinata e saputa…
Ma quella che vive tranquilla, serena col padre borghese
in un’antichissima villa remota del Canavese… 8
Ma quella che prega e digiuna e canta e ride, più fresca
dell’acqua, e vive con una semplicità di fantesca, 10
ma quella che porta le chiome lisce sul volto rosato
e cuce e attende al bucato e vive secondo il suo nome:
un nome che è come uno scrigno di cose semplici e buone,
che è come un lavacro benigno di canfora spigo e sapone… 14
un nome così disadorno e bello che il cuore ne trema;
il candido nome che un giorno vorrò celebrare in poema,
il fresco nome innocente come un ruscello che va:
Felìcita! Oh! Veramente Felìcita!… Felicità… 18
III.
Quest’oggi il mio sogno mi canta figure, parvenze tranquille
d’un giorno d’estate, nel mille e… novecento… quaranta.
(Adoro le date. Le date: incanto che non so dire,
ma pur che da molto passate o molto di là da venire.) 22
Sfioriti sarebbero tutti i sogni del tempo già lieto
(ma sempre l’antico frutteto darebbe i medesimi frutti).
Sopita quell’ansia dei venti anni, sopito l’orgoglio
(ma sempre i balconi ridenti sarebbero di caprifoglio). 26
Lontano i figli che crebbero, compiuti i nostri destini
(ma sempre le stanze sarebbero canore di canarini).
Vivremmo pacifici in molto agiata semplicità;
riceveremmo talvolta notizie della città… 30
la figlia: “…l’evento s’avanza, sarete Nonni ben presto:
entro fra poco nel sesto mio mese di gravidanza…”
il figlio: “…la Ditta ha ripreso le buone giornate. Precoci
guadagni. Non è più dei soci quel tale ingegnere svedese”. 34
Vivremmo, diremmo le cose più semplici, poi che la Vita
è fatta di semplici cose, e non d’eleganza forbita.
IV.
Da me converrebbero a sera il Sindaco e gli altri ottimati,
e nella gran sala severa si giocherebbe, pacati.
Da me converrebbe il Curato, con gesto canonicale.
Sarei – sui settanta – tornato nella gioventù clericale, 38
poi che la ragione sospesa a lungo sul nero Infinito
non trova migliore partito che ritornare alla Chiesa.
V.
Verreste voi pure di spesso, da lungi a trovarmi, o non vinti
ma calvi grigi ritinti superstiti amici d’adesso… 42
E tutta sarebbe per voi la casa ricca e modesta;
si ridesterebbero a festa le sale ed i corridoi…
Verreste, amici d’adesso, per ritrovare me stesso,
ma chi sa quanti me stesso sarebbero morti in me stesso! 46
Che importa! Perita gran parte di noi, calate le vele,
raccoglieremmo le sarte intorno alla mensa fedele.
Però che compita la favola umana, la Vita concilia
la breve tanto vigilia dei nostri sensi alla tavola. 50
Ma non è senza bellezza quest’ultimo bene che avanza
ai vecchi! Ha tanta bellezza la sala dove si pranza!
La sala da pranzo degli avi più casta d’un refettorio
e dove, bambino, pensavi tutto un tuo mondo illusorio. 54
La sala da pranzo che sogna nel meriggiar sonnolento
tra un buono odor di cotogna, di cera da pavimento,
di fumo di zigaro, a nimbi… La sala da pranzo, l’antica
amica dei bimbi, l’amica di quelli che tornano bimbi! 58
VI.
Ma a sera, se fosse deserto il cielo e l’aria tranquilla
si cenerebbe all’aperto, tra i fiori, dinnanzi alla villa.
Non villa. Ma un vasto edifizio modesto dai piccoli e tristi
balconi settecentisti fra il rustico ed il gentilizio… 62
Si cenerebbe tranquilli dinnanzi alla casa modesta
nell’ora che trillano i grilli, che l’ago solare s’arresta
tra i primi guizzi selvaggi dei pippistrelli all’assalto
e l’ultime rondini in alto, garrenti negli ultimi raggi. 66
E noi ci diremmo le cose più semplici poi che la vita
è fatta di semplici cose e non d’eleganza forbita:
“Il cielo si mette in corruccio… Si vede più poco turchino…”
“In sala ha rimesso il cappuccio il monaco benedettino.” 70
“Peccato!” – “Che splendide sere!” – “E pur che domani si possa…”
“Oh! Guarda!… Una macroglossa caduta nel tuo bicchiere!”
Mia moglie, pur sempre bambina tra i giovani capelli bianchi,
zelante, le mani sui fianchi andrebbe sovente in cucina. 74
“Ah! Sono così malaccorte le cuoche… Permesso un istante”
per vigilare la sorte d’un dolce pericolante…
Riapparirebbe ridendo fra i tronchi degli ippocastani
vetusti, altoreggendo l’opera delle sua mani. 78
E forse il massaio dal folto verrebbe del vasto frutteto,
recandone con viso lieto l’omaggio appena raccolto.
Bei frutti deposti dai rami in vecchie fruttiere custodi
ornate a ghirlande, a episodi romantici, a panorami! 82
Frutti! Delizia di tutti i sensi! Bellezza concreta
del fiore! Ah! Non è poeta chi non è ghiotto dei frutti!
E l’uve moscate più bionde dell’oro vecchio; le fresche
susine claudie, le pesche gialle a metà rubiconde, 86
l’enormi pere mostruose, le bianche amandorle, i fichi
incisi dai beccafichi, le mele che sanno di rose
emanerebbero, amici, un tale aroma che il cuore
ricorderebbe il vigore dei nostri vent’anni felici. 90
E sotto la volta trapunta di stelle timide e rare
oh! dolce resuscitare la giovinezza defunta!
Parlare dei nostri destini, parlare di amici scomparsi
(udremmo le sfingi librarsi sui cespi di gelsomini…) 94
Parlare d’amore, di belle d’un tempo… Oh! breve la vita!
(la mensa ancora imbandita biancheggierebbe alle stelle).
Parlare di letteratura, di versi del secolo prima:
“Mah! Come un libro di rima dilegua, passa, non dura!” 98
“Mah! Come son muti gli eroi più cari e i suoni diversi!
È triste pensare che i versi invecchiano prima di noi!”
“Mah! Come sembra lontano quel tempo e il coro febeo
con tutto l’arredo pagano, col Re-di-Tempeste Odisseo…” 102
Or mentre che il dialogo ferve mia moglie, donnina che pensa,
per dare una mano alle serve sparecchierebbe la mensa.
Pur nelle bisogna modeste ascolterebbe curiosa;
-
“Che cosa vuol dire, che cosa faceva quel Re-di-Tempeste?” 106
Allora, tra un riso confuso (con pace d’Omero e di Dante)
diremmo la favola ad uso della consorte ignorante.
Il Re di Tempeste era un tale
che diede col vivere scempio
un bel deplorevole esempio
d’infedeltà maritale,
che visse a bordo d’un yacht 113
toccando tra liete brigate
le spiaggie più frequentate
dalle famose cocottes…
Già vecchio, rivolte le vele
al tetto un giorno lasciato, 118
fu accolto e fu perdonato
dalla consorte fedele…
Poteva trascorrere i suoi
ultimi giorni sereni,
contento degli ultimi beni 123
come si vive tra noi…
Ma né dolcezza di figlio,
né lagrime, né pietà
del padre, né il debito amore
per la sua dolce metà 128
gli spensero dentro l’ardore
della speranza chimerica
e volse coi tardi compagni
cercando fortuna in America…
Non si può vivere senza 133
danari, molti danari…
Considerate, miei cari
compagni, la vostra semenza! –
Vïaggia vïaggia vïaggia
vïaggia nel folle volo 138
vedevano già scintillare
le stelle dell’altro polo…
vïaggia vïaggia vïaggia
vïaggia per l’alto mare:
si videro innanzi levare 143
un’alta montagna selvaggia…
Non era quel porto illusorio
la California o il Perù,
ma il monte del Purgatorio
che trasse la nave all’in giù. 148
E il mare sovra la prora
si fu rinchiuso in eterno.
E Ulisse piombò nell’Inferno
dove ci resta tuttora… 152
Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,
se già la Signora vestita di nulla non fosse per via.
Io penso talvolta… 155