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28 Dicembre 2019L’Ultimo Capitolo della Coscienza di Zeno: la presunta “guarigione” e la visione apocalittica
L’ultimo capitolo de La Coscienza di Zeno, intitolato “Psico-analisi” (o semplicemente l’ultima parte del romanzo, come nel testo fornito), è uno dei passaggi più complessi, enigmatici e celebri dell’opera di Italo Svevo. Datato 3 maggio 1915, 15 maggio 1915 e 24 marzo 1916, questo epilogo non solo rovescia le premesse del romanzo, ma offre una visione radicale e profetica sulla condizione umana e sul destino del mondo, rendendo Zeno Cosini una figura di inaspettata saggezza, seppur “malata”.
1. L’Abbandono della Psico-analisi (3 Maggio 1915)
Il capitolo si apre con la perentoria dichiarazione di Zeno: “L’ho finita con la psico-analisi. Dopo di averla praticata assiduamente per sei mesi interi sto peggio di prima.” Questa affermazione è la prima, fondamentale smentita della presunta “cura” e del metodo del dottor S. Zeno, che si era affidato con “fede intera” al medico, ora riconosce che i suoi “dolori” sono più reali che mai.
- La Critica alla Psicoanalisi: Zeno liquida la cura come una “sciocca illusione, un trucco buono per commuovere qualche vecchia donna isterica”. Il dottore è ridicolizzato per la sua “presunzione” e la sua pretesa di raggruppare tutti i fenomeni del mondo attorno alla sua “grande, nuova teoria”. Questa è la celebre critica di Svevo alla psicoanalisi, vista come un sistema che, anziché curare, etichetta e immobilizza l’individuo in una diagnosi (il complesso di Edipo).
- Il Complesso di Edipo e l’Ironia di Zeno: La diagnosi del dottore – “avevo amata mia madre e avrei voluto ammazzare mio padre” – viene accolta da Zeno con un’ironia disarmante. Egli non si arrabbia, anzi, si sente “incantato” e persino “elevato alla più alta nobiltà” da una malattia con antenati “all’epoca mitologica”. La sua “miglior prova ch’io non ho avuta quella malattia risulta dal fatto che non ne sono guarito” è un paradosso tipicamente sveviano: la non-guarigione come prova di non-malattia, un modo per sfuggire alla categorizzazione.
- Il Ritorno alla Scrittura: Abbandonata la sorveglianza del dottore, Zeno si “rimette ai [suoi] cari fogli”, alla scrittura. Questa ripresa del “libercolo” è un atto di liberazione e di auto-terapia. Scrivere, per Zeno, è il “vero sistema per ridare importanza ad un passato che più non duole e far andare via più rapido il presente uggioso”, un modo per riappropriarsi della propria vita e della propria narrazione.
2. Un Vero Raccoglimento (15 Maggio 1915)
Questa sezione mostra un Zeno apparentemente più sereno, che ritrova le sue “dolci abitudini” e riesce a “cessar di fumare” (l’ennesimo tentativo, che sottolinea la ciclicità delle sue “malattie”).
- Il “Disordine nel Tempo”: La riflessione sul calendario e sulla difficoltà di una “regolare e ordinata risoluzione” a causa della diversa quantità di giorni nei mesi (“Un vero disordine nel tempo!”) è una metafora della sua inettitudine e della sua difficoltà a imporsi una disciplina, ma anche un’osservazione acuta sulla natura caotica della vita.
- Il Raccoglimento all’Isonzo: Il pomeriggio trascorso solitario alle rive dell’Isonzo è un momento di “vero raccoglimento”, un’esperienza rara di “vera grande oggettività in cui si cessa finalmente di credersi e sentirsi vittima”. In mezzo alla natura, Zeno riesce a “sorridere alla [sua] vita ed anche alla [sua] malattia”.
- La Rivalutazione della Malattia e dell’Amore: Zeno arriva a una sorprendente conclusione: la sua vita è stata “più bella” di quella dei cosiddetti “sani”, coloro che “picchiavano o avrebbero voluto picchiare la loro donna ogni giorno”. La sua “malattia” (intesa come la sua inettitudine, la sua indecisione, la sua incapacità di essere un “uomo forte” nel senso borghese) gli ha permesso di essere “sempre accompagnato dall’amore”, anche se un amore fatto di infedeltà e sensi di colpa. La vita, per lui, “non fu mai privata del desiderio e l’illusione rinacque subito intera dopo ogni naufragio”. Questa è una celebrazione dell’illusione e del desiderio come motori vitali, in contrasto con la disperazione dei “sani”.
3. Io sono guarito! (24 marzo 1916)
L’ultima e più celebre parte del capitolo è datata quasi un anno dopo e si apre con la definitiva, e paradossale, dichiarazione di Zeno: “Io sono guarito!“
- La Guarigione attraverso il Commercio e la Guerra: La “salute solida, perfetta” di Zeno non deriva dalla psicoanalisi, ma dal suo “destino” che “dovette mutare e scaldare il [suo] organismo con la lotta e soprattutto col trionfo”. La sua guarigione è legata al successo negli affari durante la guerra. In un mondo sconvolto, Zeno, con la sua “furbizia” e la sua capacità di “comperare qualunque merce”, si adatta e prospera, dimostrando una sorprendente vitalità. La guerra, che per molti è distruzione, per lui è opportunità.
- La Vita come Malattia Incurabile: Il nucleo filosofico del capitolo è la visione della vita stessa come una “malattia” intrinsecamente “mortale” e “incurabile”: “La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure.” Ogni tentativo di “curare” la vita è vano e persino dannoso (“Morremmo strangolati non appena curati”).
- La Critica al Progresso Umano e la Profezia Apocalittica: Questo è il passaggio più famoso e profetico. Zeno contrappone l’uomo agli animali:
- Gli Animali: Conoscono un “solo progresso, quello del proprio organismo”. Si adattano all’ambiente, ingrossando muscoli (rondinella), interrandosi (talpa), trasformando il corpo (cavallo). La loro evoluzione è “salutare” e non lede la loro “salute”.
- L’Uomo: L'”occhialuto uomo”, invece, “inventa gli ordigni fuori del suo corpo”. Questi “ordigni” (la tecnologia, la scienza, gli strumenti) lo rendono “sempre più furbo e più debole”. La “furbizia cresce in proporzione della sua debolezza”. L’uomo ha abbandonato la “legge del più forte”, la “selezione salutare”, e per questo “prospereranno malattie e ammalati”.
- La Catastrofe Finale: La visione culmina in una profezia apocalittica: “Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute.” Un uomo “più ammalato” degli altri ruberà un “esplosivo incomparabile” e lo collocherà al centro della terra. Seguirà un'”esplosione enorme che nessuno udrà”, e la terra “ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.”
4. Significato e Interpretazioni
L’ultimo capitolo è la chiave di volta del romanzo e della poetica sveviana:
- La ‘Guarigione’ dell’Inetto: La “guarigione” di Zeno è paradossale. Non è la guarigione dalla nevrosi, ma l’accettazione della sua “malattia” come condizione umana universale. La sua inettitudine, la sua capacità di non aderire alle logiche del mondo “sano”, gli permette di vedere la verità: la vita stessa è imperfezione, e il tentativo di curarla è un’illusione. La sua “salute” è una forma di consapevolezza superiore.
- Critica alla Civiltà Moderna: La visione apocalittica è una feroce critica alla civiltà moderna, al progresso tecnologico che, anziché liberare l’uomo, lo rende più debole, alienato e autodistruttivo. L’uomo, con la sua “furbizia” e i suoi “ordigni”, sta inquinando il mondo e se stesso, condannandosi a una fine inevitabile.
- Profezia e Pessimismo: Il finale è un atto di pessimismo radicale, ma anche di lucidità profetica. La distruzione totale è l’unica via per un ritorno a una “salute” primordiale, a un’esistenza libera dai “parassiti” (gli uomini stessi) e dalle “malattie” (la civiltà).
- Il Ruolo della Scrittura: Il “libercolo” di Zeno, iniziato come terapia, si conclude come un’opera filosofica, un testamento sulla condizione umana. La scrittura è il mezzo attraverso cui Zeno elabora la sua “guarigione” e la sua visione del mondo.
Conclusione
L’ultimo capitolo de La Coscienza di Zeno è un finale aperto e sconvolgente, che ribalta ogni aspettativa. Zeno, l’inetto per eccellenza, si rivela un pensatore acuto e un profeta disincantato. La sua “guarigione” non è una normalizzazione, ma una presa di coscienza radicale sulla natura intrinsecamente “malata” della vita e della civiltà. La sua visione apocalittica, con la terra che ritorna “alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”, è un monito potente e ancora oggi inquietante sulla direzione del progresso umano e sulla nostra fragilità di fronte alle forze che noi stessi scateniamo.

Testo dell’ultimo capitolo della Coscienza di Zeno di Italo Svevo
1. L’ho finita con la psico-analisi
3 Maggio 1915
L’ho finita con la psico-analisi. Dopo di averla praticata assiduamente per sei mesi interi sto peggio di prima. Non ho ancora congedato il dottore, ma la mia risoluzione è irrevocabile. Ieri intanto gli mandai a dire ch’ero impedito, e per qualche giorno lascio che m’aspetti. Se fossi ben sicuro di saper ridere di lui senz’adirarmi, sarei anche capace di rivederlo. Ma ho paura che finirei col mettergli le mani addosso.
In questa città, dopo lo scoppio della guerra, ci si annoia piú di prima e, per rimpiazzare la psico-analisi, io mi rimetto ai miei cari fogli. Da un anno non avevo scritto una parola, in questo come in tutto il resto obbediente alle prescrizioni del dottore il quale asseriva che durante la cura dovevo raccogliermi solo accanto a lui perché un raccoglimento da lui non sorvegliato avrebbe rafforzati i freni che impedivano la mia sincerità, il mio abbandono. Ma ora mi trovo squilibrato e malato piú che mai e, scrivendo, credo che mi netterò piú facilmente del male che la cura m’ha fatto. Almeno sono sicuro che questo è il vero sistema per ridare importanza ad un passato che piú non duole e far andare via piú rapido il presente uggioso.
Tanto fiduciosamente m’ero abbandonato al dottore che quando egli mi disse ch’ero guarito, gli credetti con fede intera e invece non credetti ai miei dolori che tuttavia m’assalivano. Dicevo loro: «Non siete mica voi!». Ma adesso non v’è dubbio! Son proprio loro! Le ossa delle mie gambe si sono convertite in lische vibranti che ledono la carne e i muscoli.
Ma di ciò non m’importerebbe gran fatto e non è questa la ragione per cui lascio la cura. Se le ore di raccoglimento presso il dottore avessero continuato ad essere interessanti apportatrici di sorprese e di emozioni, non le avrei abbandonate o, per abbandonarle, avrei atteso la fine della guerra che m’impedisce ogni altra attività. Ma ora che sapevo tutto, cioè che non si trattava d’altro che di una sciocca illusione, un trucco buono per commuovere qualche vecchia donna isterica, come potevo sopportare la compagnia di quell’uomo ridicolo, con quel suo occhio che vuole essere scrutatore e quella sua presunzione che gli permette di aggruppare tutti i fenomeni di questo mondo intorno alla sua grande, nuova teoria? Impiegherò il tempo che mi resta libero scrivendo. Scriverò intanto sinceramente la storia della mia cura. Ogni sincerità fra me e il dottore era sparita ed ora respiro. Non m’è piú imposto alcuno sforzo. Non debbo costringermi ad una fede né ho da simulare di averla. Proprio per celare meglio il mio vero pensiero, credevo di dover dimostrargli un ossequio supino e lui ne approfittava per inventarne ogni giorno di nuove. La mia cura doveva essere finita perché la mia malattia era stata scoperta. Non era altra che quella diagnosticata a suo tempo dal defunto Sofocle sul povero Edipo: avevo amata mia madre e avrei voluto ammazzare mio padre.
Né io m’arrabbiai! Incantato stetti a sentire. Era una malattia che mi elevava alla piú alta nobiltà. Cospicua quella malattia di cui gli antenati arrivavano all’epoca mitologica! E non m’arrabbio neppure adesso che sono qui solo con la penna in mano. Ne rido di cuore. La miglior prova ch’io non ho avuta quella malattia risulta dal fatto che non ne sono guarito.
2. Un vero raccoglimento
15 Maggio 1915
Passammo due giorni di festa a Lucinico nella nostra villa. Mio figlio Alfio deve rimettersi di un’influenza e resterà nella villa con la sorella per qualche settimana. Noi ritorneremo qui per le Pentecoste.
Sono riuscito finalmente di ritornare alle mie dolci abitudini, e a cessar di fumare. Sto già molto meglio dacché ho saputo eliminare la libertà che quello sciocco di un dottore aveva voluto concedermi. Oggi che siamo alla metà del mese sono rimasto colpito della difficoltà che offre il nostro calendario ad una regolare e ordinata risoluzione. Nessun mese è uguale all’altro. Per rilevare meglio la propria risoluzione si vorrebbe finire di fumare insieme a qualche cosa d’altro, il mese p.e. Ma salvo il Luglio e Agosto e il Dicembre e il Gennaio non vi sono altri mesi che si susseguano e facciano il paio in quanto a quantità di giorni. Un vero disordine nel tempo!
Per raccogliermi meglio passai il pomeriggio del secondo giorno solitario alle rive dell’Isonzo. Non c’è miglior raccoglimento che star a guardare un’acqua corrente. Si sta fermi e l’acqua corrente fornisce lo svago che occorre perché non è uguale a se stessa nel colore e nel disegno neppure per un attimo. Era una giornata strana. Certamente in alto soffiava un forte vento perché le nubi vi mutavano continuamente di forma, ma giú l’atmosfera non si moveva. Avveniva che di tempo in tempo, traverso le nubi in movimento, il sole già caldo trovasse il pertugio per inondare dei suoi raggi questo o quel tratto di collina o una cima di montagna, dando risalto al verde dolce del Maggio in mezzo all’ombra che copriva tutto il paesaggio. La temperatura era mite ed anche quella fuga di nubi nel cielo, aveva qualche cosa di primaverile. Non v’era dubbio: il tempo stava risanando!
Fu un vero raccoglimento il mio, uno di quegl’istanti rari che l’avara vita concede, di vera grande oggettività in cui si cessa finalmente di credersi e sentirsi vittima. In mezzo a quel verde rilevato tanto deliziosamente da quegli sprazzi di sole, seppi sorridere alla mia vita ed anche alla mia malattia. La donna vi ebbe un’importanza enorme. Magari a pezzi, i suoi piedini, la sua cintura, la sua bocca, riempirono i miei giorni. E rivedendo la mia vita e anche la mia malattia le amai, le intesi! Com’era stata piú bella la mia vita che non quella dei cosidetti sani, coloro che picchiavano o avrebbero voluto picchiare la loro donna ogni giorno salvo in certi momenti. Io, invece, ero stato accompagnato sempre dall’amore. Quando non avevo pensato alla mia donna, vi avevo pensato ancora per farmi perdonare che pensavo anche alle altre. Gli altri abbandonavano la donna delusi e disperando della vita. Da me la vita non fu mai privata del desiderio e l’illusione rinacque subito intera dopo ogni naufragio, nel sogno di membra, di voci, di atteggiamenti piú perfetti. (…)
3. Io sono guarito!
24 marzo 1916
Dal Maggio dell’anno scorso non avevo piú toccato questo libercolo. Ecco che dalla Svizzera il dr. S. mi scrive pregandomi di mandargli quanto avessi ancora annotato. È una domanda curiosa, ma non ho nulla in contrario di mandargli anche questo libercolo dal quale chiaramente vedrà come io la pensi di lui e della sua cura. Giacché possiede tutte le mie confessioni, si tenga anche queste poche pagine e ancora qualcuna che volentieri aggiungo a sua edificazione. Ma al signor dottor S. voglio pur dire il fatto suo. Ci pensai tanto che oramai ho le idee ben chiare.
Intanto egli crede di ricevere altre confessioni di malattia e debolezza e invece riceverà la descrizione di una salute solida, perfetta quanto la mia età abbastanza inoltrata può permettere. Io sono guarito! Non solo non voglio fare la psico-analisi, ma non ne ho neppur di bisogno. E la mia salute non proviene solo dal fatto che mi sento un privilegiato in mezzo a tanti martiri. Non è per il confronto ch’io mi senta sano. Io sono sano, assolutamente. Da lungo tempo io sapevo che la mia salute non poteva essere altro che la mia convinzione e ch’era una sciocchezza degna di un sognatore ipnagogico di volerla curare anziché persuadere. Io soffro bensí di certi dolori, ma mancano d’importanza nella mia grande salute. Posso mettere un impiastro qui o là, ma il resto ha da moversi e battersi e mai indugiarsi nell’immobilità come gl’incancreniti. Dolore e amore, poi, la vita insomma, non può essere considerata quale una malattia perché duole.
Ammetto che per avere la persuasione della salute il mio destino dovette mutare e scaldare il mio organismo con la lotta e soprattutto col trionfo. Fu il mio commercio che mi guarí e voglio che il dottor S. lo sappia.
Attonito e inerte, stetti a guardare il mondo sconvolto, fino al principio dell’Agosto dell’anno scorso. Allora io cominciai a comperare . Sottolineo questo verbo perché ha un significato piú alto di prima della guerra. In bocca di un commerciante, allora, significava ch’egli era disposto a comperare un dato articolo. Ma quando io lo dissi, volli significare ch’io ero compratore di qualunque merce che mi sarebbe stata offerta. Come tutte le persone forti, io ebbi nella mia testa una sola idea e di quella vissi e fu la mia fortuna. (…)
Naturalmente io non sono un ingenuo e scuso il dottore di vedere nella vita stessa una manifestazione di malattia. La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite. Morremmo strangolati non appena curati.
La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V’è una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza… nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco!
Ma non è questo, non è questo soltanto.
Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorché la rondinella comprese che per essa non c’era altra possibile vita fuori dell’emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte piú considerevole del suo organismo. La talpa s’interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo s’ingrandí e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute.
Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre piú furbo e piú debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l’ordigno non ha piú alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del piú forte sparí e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati.
Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno piú, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ piú ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.
FINE