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28 Dicembre 2019
Capitoli nono e decimo dei Promessi Sposi
28 Dicembre 2019đ Analisi Approfondita del Capitolo XIV de ‘I Promessi Sposi’: La Fuga di Renzo e la Ricerca della Salvezza
Il Capitolo XIV de I Promessi Sposi prosegue l’odissea di Renzo, dopo la sua drammatica fuga dall’arresto nel tumulto di Milano. Ă un capitolo cruciale che segna il passaggio del protagonista da una dimensione urbana e caotica a un paesaggio solitario, riflettendo il suo stato d’animo disorientato e braccato. Manzoni lo utilizza per approfondire la psicologia di Renzo, per toccare i temi della giustizia, dell’innocenza perseguitata e del ruolo della Provvidenza, il tutto con un realismo descrittivo che non rinuncia a profonde risonanze simboliche.
1. L’Immediata Fuga da Milano: Tra Paura e Disorientamento
Il capitolo si apre in medias res, con Renzo che si trova in una situazione di estrema precarietà . à notte, è solo e sta fuggendo da una città in fermento che gli è diventata ostile. La sua fuga non è una mossa strategica, ma una reazione istintiva e disperata.
- Lo stato psicologico di Renzo: Il giovane è immerso in un profondo disorientamento. La sua mente è confusa dall’esperienza dei tumulti, dalla paura dell’arresto e dalla sbornia. Si muove “a casaccio”, senza una meta precisa, “per non tornare indietro”. Le sue preoccupazioni sono elementari e immediate: evitare i birri, trovare la strada, sottrarsi al pericolo. Questa condizione lo priva della sua consueta luciditĂ e lo rende piĂš vulnerabile.
- La percezione della città : Milano, che Renzo aveva immaginato come luogo di giustizia e aiuto, si è rivelata una trappola. Ora gli appare come un labirinto di vicoli oscuri e minacciosi. Ogni ombra, ogni rumore è una potenziale minaccia. La descrizione della città , ormai spenta e silenziosa, contrasta con il caos del giorno precedente, ma il silenzio stesso è carico di pericoli nascosti.
- La necessitĂ di uscire: La sua unica, impellente necessità è “uscire da quel forno”, da quella cittĂ che lo ha quasi divorato. Questo desiderio di fuga è primario, quasi animale, e lo spinge verso la campagna, vista come un luogo di relativa sicurezza.
2. Il Viaggio nella Campagna Notturna: Sospetto e Solitudine
Una volta fuori dalla cinta muraria di Milano, Renzo si trova nella campagna, ma la sua ansia non diminuisce.
- L’incertezza del percorso: Non ha una chiara idea della direzione da prendere per raggiungere il Bergamasco. Le indicazioni ricevute sono sommarie, e il suo stato d’animo lo porta a “non fidarsi della gente”, a temere ogni incontro. Questo lo costringe a affidarsi piĂš all’istinto che alla ragione, cercando riferimenti naturali come “i monti” che gli indicano la direzione est.
- La paura del tradimento: Ogni incontro è percepito come una minaccia. La sua esperienza passata (il tradimento di Don Abbondio, l’imbroglio dell’oste) lo ha reso diffidente. Questa diffidenza, seppur a tratti esagerata, è una forma di autodifesa necessaria in un mondo ostile. Manzoni sottolinea come l’esperienza del male e dell’ingiustizia stia trasformando Renzo da ingenuo a uomo piĂš cauto e, per certi versi, piĂš solo.
- L’osteria di Gorgonzola: L’episodio dell’osteria a Gorgonzola è un momento di alta tensione e realismo. Renzo entra per rifocillarsi, ma il suo istinto lo spinge alla cautela. La sua fame e stanchezza sono reali, ma la sua mente è iper-vigile. Il fatto che cerchi di passare inosservato, sedendosi in un angolo, mostra la sua nuova astuzia.
- Il dialogo degli avventori: La conversazione degli altri avventori, che discutono dei tumulti di Milano e parlano della caccia ai “birboni” e del “milanese” che è sfuggito (“quel malandrino che predicava ieri”), crea un’angoscia palpabile in Renzo. Egli si riconosce nella descrizione, sentendosi “chiamato per nome”. La sua reazione di ansia, il desiderio di scappare ma la necessitĂ di non dare nell’occhio, sono descritti con grande efficacia. Questo episodio rafforza la sua convinzione di essere un ricercato e lo spinge a un’ulteriore accelerazione della fuga.
3. La Marcia Notturna e l’Attraversamento dell’Adda: Il Confine della Salvezza
Dopo l’incidente di Gorgonzola, Renzo si rimette in cammino, spinto da una paura rinnovata e dalla necessitĂ impellente di raggiungere un luogo sicuro.
- Il viaggio solitario: La notte diventa la sua alleata. Attraversa campi e sentieri, affidandosi alla luna e alle stelle come unici punti di riferimento. La descrizione del paesaggio notturno, con le sue ombre e la sua quiete apparente, riflette il suo stato d’animo. La sua stanchezza fisica è estrema, ma la paura lo tiene sveglio. Manzoni enfatizza la sua solitudine e la sua totale dipendenza dalla fortuna e dalla Provvidenza.
- Il fiume Adda: L’Adda è il vero obiettivo del suo viaggio, il confine simbolico tra lo Stato di Milano (dominato dalla Spagna e dalla corruzione) e il territorio della Repubblica di Venezia (considerato piĂš sicuro e libero). La vista del fiume, seppur avvolta nella nebbia, è un segno di speranza.
- Il passaggio con il barcaiolo: L’incontro con il barcaiolo è un momento di nuova suspense. Renzo deve affidarsi a uno sconosciuto per attraversare il fiume. La descrizione del barcaiolo, taciturno e pragmatico, è un esempio del realismo manzoniano. Il fatto che il barcaiolo accetti di trasportarlo senza troppe domande, nonostante il sospetto sull’ora e sulla situazione, è un piccolo gesto di solidarietĂ o semplicemente di professionalitĂ che contribuisce alla salvezza di Renzo. L’attesa e il passaggio del fiume sono descritti con una tensione quasi epica.
- La salvezza oltre il confine: Una volta attraversato l’Adda, Renzo si sente finalmente al sicuro. La sua reazione è di profondo sollievo e gratitudine. Il Bergamasco, territorio veneziano, rappresenta per lui non solo un rifugio fisico, ma un simbolo di libertĂ e di una giustizia diversa.
4. L’Arrivo nel Bergamasco e la Riconnessione
Il capitolo si conclude con l’arrivo di Renzo nel Bergamasco e il suo ricongiungimento con la figura familiare del cugino Bortolo.
- Il ritrovo con Bortolo: Renzo raggiunge il mulino del cugino Bortolo. La descrizione della vita operosa e pacifica di Bortolo, che lo accoglie con calore e senza troppe domande, contrasta con il caos e le insidie di Milano. Questo ritorno a una dimensione di lavoro onesto e di legami familiari è un momento di ristoro per Renzo, seppur temporaneo.
- La narrazione della vicenda: Renzo racconta le sue disavventure a Bortolo, che lo ascolta con partecipazione e gli offre aiuto. Questo momento di confidenza è catartico per Renzo, che può finalmente sfogare le sue ansie e trovare un alleato.
5. Temi e Significati del Capitolo XIV
Questo capitolo è denso di significati e approfondisce molti dei temi centrali del romanzo:
- Il Percorso di Crescita di Renzo: Da giovane contadino ingenuo, Renzo sta acquisendo una dolorosa ma necessaria esperienza del mondo. I tumulti di Milano e la fuga lo hanno costretto a sviluppare una maggiore cautela, diffidenza e capacità di sopravvivenza. La sua innocenza è ferita, ma la sua intelligenza pratica si affina.
- Giustizia e Legge: Il capitolo ribadisce l’inefficacia e la corruzione della giustizia dello Stato di Milano, che perseguita gli innocenti e manipola la legge a proprio vantaggio. La fuga di Renzo oltre l’Adda è la ricerca di un luogo dove la legge possa essere piĂš giusta o almeno meno opprimente.
- L’Oppressione e la LibertĂ : La fuga di Renzo è un simbolo della lotta per la libertĂ individuale contro un sistema oppressivo. Il confine dell’Adda non è solo geografico, ma rappresenta la speranza di trovare un’oasi di relativa libertĂ .
- La Solitudine e la Dispersione: Renzo è solo, costretto a fidarsi solo di se stesso. La sua fuga lo allontana dalla sua comunità e dagli affetti, accentuando il tema della dispersione dei protagonisti, elemento chiave della trama.
- Il Ruolo della Provvidenza: Sebbene Renzo commetta errori e sia spesso in preda al disorientamento, c’è un filo invisibile che sembra guidare i suoi passi. La sua salvezza è frutto della sua astuzia, ma anche di circostanze fortuite e di incontri provvidenziali (il barcaiolo, Bortolo). Manzoni suggerisce che la Provvidenza agisce attraverso le vie piĂš inaspettate, anche in un mondo caotico.
- Realismo e Simbolismo: Manzoni unisce la descrizione realistica del viaggio (la stanchezza, la fame, il paesaggio notturno) a un profondo simbolismo. Il fiume Adda, in particolare, è un confine non solo fisico ma morale, che segna la fine di un incubo e l’inizio di una nuova fase, seppur incerta.
In sintesi, il Capitolo XIV è un capitolo di transizione e di trasformazione, in cui Renzo compie un passo fondamentale nel suo doloroso percorso di formazione, imparando le dure lezioni del mondo esterno e rafforzando la sua determinazione a sopravvivere e a cercare la giustizia per sÊ e per Lucia.
Testo del quattordicesimo capitolo dei Promessi Sposi

CAPITOLO XIV
Â
La folla rimasta indietro cominciò a sbandarsi, a diramarsi a destra e a sinistra, per questa e per quella strada.
Chi andava a casa, a accudire anche alle sue faccende; chi sâallontanava, per respirare un poâ al largo, dopo tante ore di stretta; chi, in cerca dâamici, per ciarlare deâ gran fatti della giornata. Lo stesso sgombero sâandava facendo dallâaltro sbocco della strada, nella quale la gente restò abbastanza rada perchè quel drappello di spagnoli potesse, senza trovar resistenza, avanzarsi, e postarsi alla casa del vicario. Accosto a quella stava ancor condensato il fondaccio, per dir cosĂŹ, del tumulto; un branco di birboni, che malcontenti dâuna fine cosĂŹ fredda e cosĂŹ imperfetta dâun cosĂŹ grandâapparato, parte brontolavano, parte bestemmiavano, parte tenevan consiglio, per veder se qualche cosa si potesse ancora intraprendere; e, come per provare, andavano urtacchiando e pigiando quella povera porta, châera stata di nuovo appuntellata alla meglio. Allâarrivar del drappello, tutti coloro chi diritto diritto, chi baloccandosi, e come a stento, se nâandarono dalla parte opposta, lasciando il campo libero aâ soldati, che lo presero, e vi si postarono, a guardia della casa e della strada. Ma tutte le strade del contorno erano seminate di crocchi: dove câeran due o tre persone ferme, se ne fermavano tre, quattro, venti altre: qui qualcheduno si staccava; lĂ tutto un crocchio si moveva insieme: era come quella nuvolaglia che talvolta rimane sparsa, e gira per lâazzurro del cielo, dopo una burrasca; e fa dire a chi guarda in su: questo tempo non è rimesso bene. Pensate poi che babilonia di discorsi. Chi raccontava con enfasi i casi particolari che aveva visti; chi raccontava ciò che lui stesso aveva fatto; chi si rallegrava che la cosa fosse finita bene, e lodava Ferrer, e pronosticava guai seri per il vicario; chi, sghignazzando, diceva: ânon abbiate paura, che non lâammazzeranno: il lupo non mangia la carne del lupo; â chi piĂš stizzosamente mormorava che non sâeran fatte le cose a dovere, châera un inganno, e châera stata una pazzia il far tanto chiasso, per lasciarsi poi canzonare in quella maniera.
Intanto il sole era andato sotto, le cose diventavan tutte dâun colore; e molti, stanchi della giornata e annoiati di ciarlare al buio, tornavano verso casa. Il nostro giovine, dopo avere aiutato il passaggio della carrozza, finchè câera stato bisogno dâaiuto, e esser passato anche lui dietro a quella, tra le file deâ soldati, come in trionfo, si rallegrò quando la vide correr liberamente, e fuor di pericolo; fece un poâ di strada con la folla, e nâuscĂŹ, alla prima cantonata, per respirare anche lui un poâ liberamente. Fatto châebbe pochi passi al largo, in mezzo allâagitazione di tanti sentimenti, di tante immagini, recenti e confuse, sentĂŹ un gran bisogno di mangiare e di riposarsi; e cominciò a guardare in su, da una parte e dallâaltra, cercando unâinsegna dâosteria; giacchè, per andare al convento deâ cappuccini, era troppo tardi. Camminando cosĂŹ con la testa per aria, si trovò a ridosso a un crocchio; e fermatosi, sentĂŹ che vi discorrevan di congetture, di disegni, per il giorno dopo. Stato un momento a sentire, non potè tenersi di non dire anche lui la sua; parendogli che potesse senza presunzione proporre qualche cosa chi aveva fatto tanto. E persuaso, per tutto ciò che aveva visto in quel giorno, che ormai, per mandare a effetto una cosa, bastasse farla entrare in grazia a quelli che giravano per le strade, â signori miei! â gridò, in tono dâesordio: â devo dire anchâio il mio debol parere? Il mio debol parere è questo: che non è solamente nellâaffare del pane che si fanno delle bricconerie: e giacchè oggi sâè visto chiaro che, a farsi sentire, sâottiene quel che è giusto; bisogna andar avanti cosĂŹ, fin che non si sia messo rimedio a tutte quelle altre scelleratezze, e che il mondo vada un poâ piĂš da cristiani. Non è vero, signori miei, che câè una mano di tiranni, che fanno proprio al rovescio deâ dieci comandamenti, e vanno a cercar la gente quieta, che non pensa a loro, per farle ogni male, e poi hanno sempre ragione? anzi quando nâhanno fatta una piĂš grossa del solito, camminano con la testa piĂš alta, che par che gli sâabbia a rifare il resto? GiĂ anche in Milano ce ne devâessere la sua parte. â
â Pur troppo, â disse una voce.
â Lo dicevo io, â riprese Renzo: â giĂ le storie si raccontano anche da noi. E poi la cosa parla da sè. Mettiamo, per esempio, che qualcheduno di costoro che voglio dir io stia un poâ in campagna, un poâ in Milano: se è un diavolo lĂ , non vorrĂ esser un angiolo qui; mi pare. Dunque mi dicano un poco, signori miei, se hanno mai visto uno di questi col muso allâinferriata. E quel che è peggio (e questo lo posso dir io di sicuro), è che le gride ci sono, stampate, per gastigarli: e non giĂ gride senza costrutto; fatte benissimo, che noi non potremmo trovar niente di meglio; ci son nominate le bricconerie chiare, proprio come succedono; e a ciascheduna, il suo buon gastigo. E dice: sia chi si sia, vili e plebei, e che so io. Ora, andate a dire ai dottori, scribi e farisei, che vi facciano far giustizia, secondo che canta la grida: vi dĂ nno retta come il papa ai furfanti: cose da far girare il cervello a qualunque galantuomo. Si vede dunque chiaramente che il re, e quelli che comandano, vorrebbero che i birboni fossero gastigati; ma non se ne fa nulla, perchè câè una lega.

Dunque bisogna romperla; bisogna andar domattina da Ferrer, che quello è un galantuomo, un signore alla mano; e oggi sâè potuto vedere comâera contento di trovarsi con la povera gente, e come cercava di sentir le ragioni che gli venivan dette, e rispondeva con buona grazia. Bisogna andar da Ferrer, e dirgli come stanno le cose; e io, per la parte mia, gliene posso raccontar delle belle; che ho visto io, coâ miei occhi, una grida con tanto dâarme in cima, ed era stata fatta da tre di quelli che possono, che dâognuno câera sotto il suo nome bellâe stampato, e uno di questi nomi era Ferrer, visto da me, coâ miei occhi: ora, questa grida diceva proprio le cose giuste per me; e un dottore al quale io gli dissi che dunque mi facesse render giustizia, comâera lâintenzione di queâ tre signori, tra i quali câera anche Ferrer, questo signor dottore, che mâaveva fatto veder la grida lui medesimo, che è il piĂš bello, ah! ah! pareva che gli dicessi delle pazzie. Son sicuro che, quando quel caro vecchione sentirĂ queste belle cose; che lui non le può saper tutte, specialmente quelle di fuori; non vorrĂ piĂš che il mondo vada cosĂŹ, e ci metterĂ un buon rimedio. E poi, anche loro, se fanno le gride, devono aver piacere che sâubbidisca: che è anche un disprezzo, un pitaffio col loro nome, contarlo per nulla. E se i prepotenti non vogliono abbassar la testa, e fanno il pazzo, siam qui noi per aiutarlo, come sâè fatto oggi. Non dico che deva andar lui in giro, in carrozza, ad acchiappar tutti i birboni, prepotenti e tiranni: sĂŹ; ci vorrebbe lâarca di Noè. Bisogna che lui comandi a chi tocca, e non solamente in Milano, ma per tutto, che faccian le cose conforme dicon le gride; e formare un buon processo addosso a tutti quelli che hanno commesso di quelle bricconerie; e dove dice prigione, prigione; dove dice galera, galera; e dire ai podestĂ che faccian davvero; se no, mandarli a spasso, e metterne deâ meglio: e poi, come dico, ci saremo anche noi a dare una mano. E ordinare aâ dottori che stiano a sentire i poveri e parlino in difesa della ragione. Dico bene, signori miei? â
Renzo aveva parlato tanto di cuore, che, fin dallâesordio, una gran parte deâ radunati, sospeso ogni altro discorso, sâeran rivoltati a lui; e, a un certo punto, tutti erano divenuti suoi uditori. Un grido confuso dâapplausi, di â bravo: sicuro: ha ragione: è vero pur troppo, â fu come la risposta dellâudienza. Non mancaron però i critici. â Eh sĂŹ, â diceva uno: â dar retta aâ montanari: son tutti avvocati; â e se ne andava. â Ora, â mormorava un altro, â ogni scalzacane vorrĂ dir la sua; e a furia di metter carne a fuoco, non sâavrĂ il pane a buon mercato; che è quello per cui ci siam mossi. â Renzo però non sentĂŹ che i complimenti; chi gli prendeva una mano, chi gli prendeva lâaltra. â A rivederci a domani. â Dove? â Sulla piazza del duomo. â Va bene. â Va bene. â E qualcosa si farĂ . â E qualcosa si farĂ . â

â Chi è di questi bravi signori che voglia insegnarmi unâosteria, per mangiare un boccone, e dormire da povero figliuolo? â disse Renzo.
â Son qui io a servirvi, â quel bravo giovine, – disse uno, che aveva ascoltata attentamente la predica, e non aveva detto ancor nulla. â Conosco appunto unâosteria che farĂ al caso vostro; e vi raccomanderò al padrone, che è mio amico, e galantuomo. â
â Qui vicino? â domandò Renzo. â Poco distante, â rispose colui.
La radunata si sciolse; e Renzo, dopo molte strette di mani sconosciute, sâavviò con lo sconosciuto, ringraziandolo della sua cortesia.
â Di che cosa? â diceva colui: â una mano lava lâaltra, e tuttâe due lavano il viso. Non siamo obbligati a far servizio al prossimo? â E camminando, faceva a Renzo, in aria di discorso, ora una, ora unâaltra domanda. â Non per sapere i fatti vostri; ma voi mi parete molto stracco: da che paese venite? â
â Vengo, â rispose Renzo, â fino, fino da Lecco. â
– Fin da Lecco? Di Lecco siete?
â Di Lecco… cioè del territorio. â
â Povero giovine! per quanto ho potuto intendere daâ vostri discorsi, ve nâhanno fatte delle grosse. â
â Eh! caro il mio galantuomo! ho dovuto parlare con un poâ di politica, per non dire in pubblico i fatti miei; ma… basta, qualche [p. 275 modifica]giorno si saprĂ ; e allora… Ma qui vedo unâinsegna dâosteria; e, in fede mia, non ho voglia dâandar piĂš lontano. â

â No, no! venite dovâho detto io, che câè poco, â disse la guida: â qui non istareste bene. â
â Eh, sĂŹ; â rispose il giovine: â non sono un signorino avvezzo a star nel cotone: qualcosa alla buona da mettere in castello, e un saccone, mi basta: quel che mi preme è di trovar presto lâuno e lâaltro. Alla provvidenza! â! Ed entrò in un usciaccio, sopra il quale pendeva lâinsegna della luna piena. â Bene; vi condurrò qui, giacchè vi piace cosĂŹ, â disse lo sconosciuto; e gli andò dietro.
â Non occorre che vâincomodiate di piĂš, â rispose Renzo. – â Però, â soggiunse, â se venite a bere un bicchiere con me, mi fate piacere. â
â Accetterò le vostre grazie, â rispose colui; e andò, come piĂš pratico del luogo, innanzi a Renzo, per un cortiletto; sâaccostò allâuscio che metteva in cucina, alzò il saliscendi, aprĂŹ, e vâentrò col suo compagno. Due lumi a mano, pendenti da due pertiche attaccate alla trave del palco, vi spandevano una mezza luce. Molta gente era seduta, non però in ozio, su due panche, di qua e di lĂ dâuna tavola stretta e lunga, che teneva quasi tutta una parte della stanza: a intervalli, tovaglie e piatti; a intervalli, carte voltate e rivoltate, dadi buttati e raccolti; fiaschi e bicchieri per tutto. Si vedevano anche correre berlinghe, reali e parpagliole, che, se avessero potuto parlare, avrebbero detto probabilmente: â noi eravamo stamattina nella ciotola dâun fornaio, o nelle tasche di qualche spettatore del tumulto, che tuttâintento a vedere come andassero gli affari pubblici, si dimenticava di vigilar le sue faccendole private. â Il chiasso era grande. Un garzone girava innanzi e indietro, in fretta e in furia, al servizio di quella tavola insieme e tavoliere: lâoste era a sedere sur una piccola panca, sotto la cappa del cammino, occupato, in apparenza, in certe figure che faceva e disfaceva nella cenere, con le molle; ma in realtĂ intento a tutto ciò che accadeva intorno a lui. Sâalzò, al rumore del saliscendi; e andò incontro ai soprarrivati. Vista châebbe la guida, â maledetto! â disse tra sè: â che tu mâabbia a venir sempre traâ piedi, quando meno ti vorrei! â Data poi unâocchiata in fretta a Renzo, disse, ancora tra sè: â non ti conosco; ma venendo con un tal cacciatore, o cane o lepre sarai: quando avrai detto due parole, ti conoscerò. â Però, di queste riflessioni nulla trasparve sulla faccia dellâoste, la quale stava immobile come un ritratto: una faccia pienotta e lucente, con una barbetta folta, rossiccia, e due occhietti chiari e fissi.
â Cosa comandan questi signori? â disse ad alta voce.
â Prima di tutto, un buon fiasco di vino sincero, â disse Renzo: â e poi un boccone. â CosĂŹ dicendo, si buttò a sedere sur una panca, verso la cima della tavola, e mandò un â ah! â sonoro, come se volesse dire: fa bene un poâ di panca, dopo essere stato, tanto tempo, ritto e in faccende. Ma gli venne subito in mente quella panca e quella tavola, a cui era stato seduto lâultima volta, con Lucia e con Agnese: e mise un sospiro. Scosse poi la testa, come per iscacciar quel pensiero: e vide venir lâoste col vino. Il compagno sâera messo a sedere in faccia a Renzo. Questo gli mescè subito da bere, dicendo: â per bagnar le labbra. â E riempito lâaltro bicchiere, lo tracannò in un sorso.
â Cosa mi darete da mangiare? â disse poi allâoste.
â Ho dello stufato: vi piace? â disse questo.
â SĂŹ, bravo; dello stufato. â
â Sarete servito, â disse lâoste a Renzo; e al garzone: âservite questo forestiero. â E sâavviò verso il cammino. â Ma… â riprese poi, tornando verso Renzo: â ma pane, non ce nâho in questa giornata. â
â Al pane, â disse Renzo, ad alta voce e ridendo, â ci ha pensato la provvidenza. â E tirato fuori il terzo e ultimo di queâ pani raccolti sotto la croce di san Dionigi, lâalzò per aria, gridando: â ecco il pane della provvidenza! â
Allâesclamazione, molti si voltarono; e vedendo quel trofeo in aria, uno gridò: â viva il pane a buon mercato! â
â A buon mercato? â disse Renzo: â gratis et amore. â
â Meglio, meglio. â
â Ma, â soggiunse subito Renzo, â non vorrei che lor signori pensassero a male. Non è châio lâabbia, come si suol dire, sgraffignato. Lâho trovato in terra; e se potessi trovare anche il padrone, son pronto a pagarglielo. â
â Bravo! bravo! â gridarono, sghignazzando piĂš forte, i compagnoni; a nessuno deâ quali passò per la mente che quelle parole fossero dette davvero.
â Credono châio canzoni; ma lâè proprio cosĂŹ, â disse Renzo alla sua guida; e, girando in mano quel pane, soggiunse: â vedete come lâhanno accomodato; pare una schiacciata: ma ce nâera del prossimo! Se ci si trovavan di quelli che han lâossa un poâ tenere, saranno stati freschi. â E subito, divorati tre o quattro bocconi di quel pane, gli mandò dietro un secondo bicchier di vino; e soggiunse: â da sĂŠ non vuol andar giĂš questo pane. Non ho avuto mai la gola tanto secca. Sâè fatto un gran gridare! â
â Preparate un buon letto a questo bravo giovine, â disse la guida: â perchĂŠ ha intenzione di dormir qui. â
â Volete dormir qui? â domandò lâoste a Renzo, avvicinandosi alla tavola.
â Sicuro, â rispose Renzo: – un letto alla buona; â basta che i lenzoli sian di bucato; perchĂŠ son povero figliuolo, ma avvezzo alla pulizia. â
â Oh, in quanto a questo! â disse lâoste: andò al banco, châera in un angolo della cucina; e ritornò, con un calamaio e un pezzetto di carta bianca in una mano, e una penna nellâaltra.
â Cosa vuol dir questo? â esclamò Renzo, ingoiando un boccone dello stufato che il garzone gli aveva messo davanti, e sorridendo poi con maraviglia, soggiunse: â è il lenzolo di bucato, codesto? â
Lâoste, senza rispondere, posò sulla tavola il calamaio e la carta; poi appoggiò sulla tavola medesima il braccio sinistro e il gomito destro; e, con la penna in aria, e il viso alzato verso Renzo, gli disse: â fatemi il piacere di dirmi il vostro nome, cognome e patria. â
â Cosa? â disse Renzo: â cosa câentrano codeste storie col letto? â

â Io fo il mio dovere, â disse lâoste, guardando in viso alla guida: â noi siamo obbligati a render conto di tutte le persone che vengono a alloggiar da noi: nome e cognome, e di che nazione sarĂ , a che negozio viene, se ha seco armi… quanto tempo ha di fermarsi in questa cittĂ … Son parole della grida. â
Prima di rispondere, Renzo votò un altro bicchiere: era il terzo;
e dâora in poi ho paura che non li potremo piĂš contare. Poi disse: â ah ah! avete la grida! E io fo conto dâesser dottor di legge; e allora so subito che caso si fa delle gride. â
â Dico davvero, â disse lâoste, sempre guardando il muto compagno di Renzo; e, andato di nuovo al banco, ne levò dalla cassetta un gran foglio, un proprio esemplare della grida; e venne a spiegarlo davanti agli occhi di Renzo.
â Ah! ecco! â esclamò questo, alzando con una mano il bicchiere riempito di nuovo, e rivotandolo subito, e stendendo poi lâaltra mano, con un dito teso, verso la grida: â ecco quel bel foglio di messale. Me ne rallegro moltissimo. La conosco quellâarme; so cosa vuol dire quella faccia dâariano, con la corda al collo. â (In cima alle gride si metteva allora lâarme del governatore; e in quella di don Gonzalo Fernandez de Cordova, spiccava un re moro incatenato per la gola).

âVuol dire, quella faccia: comanda chi può, e ubbidisce chi vuole. Quando questa faccia avrĂ fatto andare in galera il signor don… basta, lo so io; come dice in un altro foglio di messale compagno a questo; quando avrĂ fatto in maniera che un giovine onesto possa sposare una giovine onesta che è contenta di sposarlo, allora le dirò il mio nome a questa faccia; le darò anche un bacio per di piĂš. Posso aver delle buone ragioni per non dirlo, il mio nome. Oh bella! E se un furfantone, che avesse al suo comando una mano dâaltri furfanti: perchè se fosse solo…â e qui finĂŹ la frase con un gesto: âse un furfantone volesse saper dovâio sono, per farmi qualche brutto tiro, domando io se questa faccia si moverebbe per aiutarmi. Devo dire i fatti miei! Anche questa è nuova. Son venuto a Milano per confessarmi, supponiamo; ma voglio confessarmi da un padre cappuccino, per modo di dire, e non da un oste.â
Lâoste stava zitto, e seguitava a guardar la guida, la quale non faceva dimostrazione di sorte veruna. Renzo, ci dispiace il dirlo, tracannò un altro bicchiere, e proseguĂŹ: âti porterò una ragione, il mio caro oste, che ti capaciterĂ . Se le gride che parlan bene, in favore deâ buoni cristiani, non contano; tanto meno devon contare quelle che parlan male. Dunque leva tutti questâimbrogli, e porta in vece un altro fiasco; perchè questo è fesso.â CosĂŹ dicendo, lo percosse leggermente con le nocca, e soggiunse: âsenti, senti, oste, come crocchia.â
Anche questa volta, Renzo aveva, a poco a poco, attirata lâattenzione di quelli che gli stavan dâintorno: e anche questa volta, fu applaudito dal suo uditorio.
âCosa devo fare?â disse lâoste, guardando quello sconosciuto, che non era tale per lui.
âVia, via,â gridaron molti di queâ compagnoni: âha ragione quel giovine: son tutte angherie, trappole, impicci: legge nuova oggi, legge nuova.â In mezzo a queste grida, lo sconosciuto, dando allâoste unâocchiata di rimprovero, per quellâinterrogazione troppo scoperta, disse: âlasciatelo un poâ fare a suo modo: non fate scene.â
âHo fatto il mio dovere,â disse lâoste, forte; e poi tra sè: â ora ho le spalle al muro. â E prese la carta, la penna, il calamaio, la grida, e il fiasco voto, per consegnarlo al garzone.
âPorta del medesimo,â disse Renzo: âche lo trovo galantuomo;
e lo metteremo a letto come lâaltro, senza domandargli nome e cognome, e di che nazione sarĂ , e cosa viene a fare, e se ha a stare un pezzo in questa cittĂ .
â Del medesimo, â disse lâoste al garzone, dandogli il fiasco; e ritornò a sedere sotto la cappa del cammino. â Altro che lepre! â pensava, istoriando di nuovo la cenere: â e in che mani sei capitato! Pezzo dâasino! se vuoi affogare, affoga; ma lâoste della luna piena non deve andarne di mezzo, per le tue pazzie. â
Renzo ringraziò la guida, e tutti quegli altri che avevan prese le sue parti. â Bravi amici! â disse: â ora vedo proprio che i galantuomini si danno la mano, e si sostengono. â Poi, spianando la destra per aria sopra la tavola, e mettendosi di nuovo in attitudine di predicatore, â gran cosa, â esclamò, â che tutti quelli che regolano il mondo, voglian fare entrar per tutto carta, penna e calamaio! Sempre la penna per aria! Grande smania che hanno queâ signori dâadoprar la penna! â
â Ehi, quel galantuomo di campagna! volete saperne la ragione? â disse ridendo uno di queâ giocatori, che vinceva.
â Sentiamo un poco, â rispose Renzo.
â La ragione è questa, â disse colui: â che queâ signori son loro che mangian lâoche, e si trovan lĂŹ tante penne, tante penne, che qualcosa bisogna che ne facciano. â
Tutti si misero a ridere, fuor che il compagno che perdeva.
â Toâ, â disse Renzo: â è un poeta costui. Ce nâè anche qui deâ poeti: giĂ ne nasce per tutto. Nâho una vena anchâio, e qualche volta ne dico delle curiose… ma quando le cose vanno bene. â
Per capire questa baggianata del povero Renzo, bisogna sapere che, presso il volgo di Milano, e del contado ancora piĂš, poeta non significa giĂ , come per tutti i galantuomini, un sacro ingegno, un abitator di Pindo, un allievo delle Muse; vuol dire un cervello bizzarro e un poâ balzano, che, neâ discorsi e neâ fatti, abbia piĂš dellâarguto e del singolare che del ragionevole. Tanto quel guastamestieri del volgo è ardito a manomettere le parole, e a far dir loro le cose piĂš lontane dal loro legittimo significato! Perchè, vi domando io, cosa ci ha che fare poeta con cervello balzano?
â Ma la ragione giusta la dirò io, â soggiunse Renzo: â è perchè la penna la tengon loro: e cosĂŹ, le parole che dicon loro, volan via, e spariscono; le parole che dice un povero figliuolo, stanno attenti bene, e presto presto le infilzan per aria, con quella penna, e te le inchiodano sulla carta, per servirsene, a tempo e luogo. Hanno poi anche unâaltra malizia; che, quando vogliono imbrogliare un povero figliuolo, che non abbia studiato, ma che abbia un poâ di….. so io quel che voglio dire….. â e, per farsi intendere, andava picchiando, e come arietando la fronte con la punta dellâindice; â e sâaccorgono

che comincia a capir lâimbroglio, taffete, buttan dentro nel discorso qualche parola in latino, per fargli perdere il filo, per confondergli la testa. Basta; se ne deve smetter dellâusanze! Oggi, a buon conto, sâè fatto tutto in volgare, e senza carta, penna e calamaio; e domani, se la gente saprĂ regolarsi, se ne farĂ anche delle meglio: senza torcere un capello a nessuno, però; tutto per via di giustizia. â
Intanto alcuni di queâ compagnoni sâeran rimessi a giocare, altri a mangiare, molti a gridare; alcuni se nâandavano; altra gente [p. 283 modifica]arrivava; l’oste badava agli uni e agli altri: tutte cose che non hanno che fare con la nostra storia. Anche la sconosciuta guida non vedeva lâora dâandarsene; non aveva, a quel che paresse, nessun affare in quel luogo; eppure non voleva partire prima dâaver chiacchierato un altro poco con Renzo in particolare. Si voltò a lui, riattaccò il discorso del pane; e dopo alcune di quelle frasi che, da qualche tempo, correvano per tutte le bocche, venne a metter fuori un suo progetto. â Eh! se comandassi io, â disse, â lo troverei il verso di fare andar le cose bene. â
â Come vorreste fare? â domandò Renzo, guardandolo con due occhietti brillanti piĂš del dovere, e storcendo un poâ la bocca, come per star piĂš attento.
â Come vorrei fare? â disse colui: â vorrei che ci fosse pane per tutti; tanto per i poveri, come per i ricchi. â
â Ah! cosĂŹ va bene, â disse Renzo.
â Ecco come farei. Una meta onesta, che tutti ci potessero campare. E poi, distribuire il pane in ragione delle bocche: perchè câè deglâingordi indiscreti, che vorrebbero tutto per loro, e fanno a ruffa raffa, pigliano a buon conto; e poi manca il pane alla povera gente. Dunque dividere il pane. E come si fa? Ecco: dare un bel biglietto a ogni famiglia, in proporzion delle bocche, per andare a prendere il pane dal fornaio. A me, per esempio, dovrebbero rilasciare un biglietto in questa forma: Ambrogio Fusella, di professione spadaio, con moglie e quattro figliuoli, tutti in etĂ da mangiar pane (notate bene): gli si dia pane tanto, e paghi soldi tanti. Ma far le cose giuste, sempre in ragion delle bocche. A voi, per esempio, dovrebbero fare un biglietto per…. il vostro nome? â
â Lorenzo Tramaglino, â disse il giovine; il quale, invaghito del progetto, non fece attenzione châera tutto fondato su carta, penna e calamaio; e che, per metterlo in opera, la prima cosa doveva essere di raccogliere i nomi delle persone.
â Benissimo, â disse lo sconosciuto: â ma avete moglie e figliuoli? â
â Dovrei bene….. figliuoli no…… troppo presto….. ma la moglie…. se il mondo andasse come dovrebbe andare….. â
â Ah siete solo! Dunque abbiate pazienza, ma una porzione piĂš piccola. â
â Ă giusto; ma se presto, come spero…. e con lâaiuto di Dio…. Basta; quando avessi moglie anchâio? â
â Allora si cambia il biglietto, e si cresce la porzione. Come vâho detto; sempre in ragion delle bocche, â disse lo sconosciuto, alzandosi.
â CosĂŹ va bene, â gridò Renzo; e continuò, gridando e battendo il pugno sulla tavola: â e perchè non la fanno una legge cosĂŹ? â
â Cosa volete che vi dica? Intanto vi do la buona notte, e me ne vo; perchè penso che la moglie e i figliuoli mâaspetteranno da un pezzo. â
â Un altro gocciolino, un altro gocciolino, â gridava Renzo, riempiendo in fretta il bicchiere di colui; e subito alzatosi, e acchiappatolo per una falda del farsetto, tirava forte, per farlo seder di nuovo. â Un altro gocciolino: non mi fate questâaffronto. â

Ma lâamico, con una stratta, si liberò, e lasciando Renzo fare un guazzabuglio dâistanze e di rimproveri, disse di nuovo: â buona notte, â e se nâandò. Renzo seguitava ancora a predicargli, che quello era giĂ in istrada; e poi ripiombò sulla panca. Fissò gli occhi su quel bicchiere che aveva riempito; e, vedendo passar davanti alla tavola il garzone, gli accennò di fermarsi, come se avesse qualche affare da comunicargli; poi gli accennò il bicchiere, e con una pronunzia lenta e solenne, spiccando le parole in un certo modo particolare, disse: â ecco, lâavevo preparato per quel galantuomo: vedete; pieno raso, proprio da amico; ma non lâha voluto. Alle volte, la gente ha dellâidee curiose. Io non ci ho colpa: il mio buon cuore lâho fatto vedere. Ora, giacchè la cosa è fatta, non bisogna lasciarlo andare a male. â CosĂŹ detto, lo prese, e lo votò in un sorso.
â Ho inteso, â disse il garzone, andandosene.
â Ah! avete inteso anche voi, â riprese Renzo: â dunque è vero. Quando le ragioni son giuste…! â
Qui è necessario tutto lâamore, che portiamo alla veritĂ , per farci proseguire fedelmente un racconto di cosĂŹ poco onore a un personaggio tanto principale, si potrebbe quasi dire al primo uomo della nostra storia. Per questa stessa ragione dâimparzialitĂ , dobbiamo però anche avvertire châera la prima volta, che a Renzo avvenisse un caso simile: e appunto questo suo non esser uso a stravizi fu cagione in gran parte che il primo gli riuscisse cosĂŹ fatale. Queâ pochi bicchieri che aveva buttati giĂš da principio, lâuno dietro lâaltro, contro il suo solito, parte per quellâarsione che si sentiva, parte per una certa alterazione dâanimo, che non gli lasciava far nulla con misura, gli diedero subito alla testa: a un bevitore un poâ esercitato non avrebbero fatto altro che levargli la sete. Su questo il nostro anonimo fa una osservazione, che noi ripeteremo: e conti quel che può contare. Le abitudini temperate e oneste, dice, recano anche questo vantaggio, che, quanto piĂš sono inveterate e radicate in un uomo, tanto piĂš facilmente, appena appena se nâallontani, se ne risente subito; dimodochè se ne ricorda poi per un pezzo; e anche uno sproposito gli serve di scola.
Comunque sia, quando queâ primi fumi furono saliti alla testa di Renzo, vino e parole continuarono a andare, lâuno in giĂš e lâaltre in su, senza misura nè regola: e, al punto a cui lâabbiam lasciato, stava giĂ come poteva. Si sentiva una gran voglia di parlare: ascoltatori, o almeno uomini presenti che potesse prender per tali, non ne mancava; e, per qualche tempo, anche le parole eran venute via senza farsi pregare, e sâeran lasciate collocare in un certo qual ordine. Ma a poco a poco, quella faccenda di finir le frasi cominciò a divenirgli fieramente difficile. Il pensiero, che sâera presentato vivo e risoluto alla sua mente, sâannebbiava e svaniva tuttâa un tratto; e la parola, dopo essersi fatta aspettare un pezzo, non era quella che fosse al caso. In queste angustie, per uno di queâ falsi istinti che, in tante cose, rovinan gli uomini, ricorreva a quel benedetto fiasco. Ma di che aiuto gli potesse essere il fiasco, in una tale circostanza, chi ha fior di senno lo dica.
Noi riferiremo soltanto alcune delle moltissime parole che mandò fuori, in quella sciagurata sera: le molte piĂš che tralasciamo, disdirebbero troppo; perchè, non solo non hanno senso, ma non fanno vista dâaverlo: condizione necessaria in un libro stampato.
â Ah oste, oste! â ricominciò, accompagnandolo con lâocchio intorno alla tavola, o sotto la cappa del cammino; talvolta fissandolo dove non era, e parlando sempre in mezzo al chiasso della brigata:

â oste che tu sei! Non posso mandarla giĂš… quel tiro del nome, cognome e negozio. A un figliuolo par mio…! Non ti sei portato bene. Che soddisfazione, che sugo, che gusto… di mettere in carta un povero figliuolo? Parlo bene, signori? Gli osti dovrebbero tenere dalla parte deâ buoni figliuoli… Senti, senti, oste; ti voglio fare un paragone… per la ragione… Ridono eh? Ho un poâ di brio, sĂŹ… ma le ragioni le dico giuste. Dimmi un poco; chi è che ti manda avanti la bottega? I poveri figliuoli, nâè vero? dico bene? Guarda un poâ se queâ signori delle gride vengono mai da te a bere un bicchierino. â
â Tutta gente che beve acqua, â disse un vicino di Renzo.
â Vogliono stare in sè, â soggiunse un altro, â per poter dir le bugie a dovere. â
â Ah! â gridò Renzo: â ora è il poeta che ha parlato. Dunque intendete anche voi altri le mie ragioni. Rispondi dunque, oste: e Ferrer, che è il meglio di tutti, è mai venuto qui a fare un brindisi, e a spendere un becco dâun quattrino? E quel cane assassino di don…? Sto zitto, perchè sono in cervello anche troppo. Ferrer e il padre Crrr… so io, son due galantuomini; ma ce nâè pochi deâ galantuomini. I vecchi peggio deâ giovani; e i giovani… peggio ancora deâ vecchi. Però, son contento che non si sia fatto sangue: oibò; barbarie, da lasciarle fare al boia. Pane; oh questo sĂŹ. Ne ho ricevuti degli urtoni; ma… ne ho anche dati. Largo! abbondanza! viva!… Eppure, anche Ferrer… qualche parolina in latino… siès baraòs trapolorum… Maledetto vizio! Viva! giustizia! pane! ah, ecco le parole giuste!… LĂ ci volevano queâ galantuomini… quando scappò fuori quel maledetto ton ton ton, e poi ancora ton ton ton. Non si sarebbe fuggiti, veâ, allora. Tenerlo lĂŹ quel signor curato… So io a chi penso! â
A questa parola, abbassò la testa, e stette qualche tempo, come assorto in un pensiero: poi mise un gran sospiro, e alzò il viso, con due occhi inumiditi e lustri, con un certo accoramento cosĂŹ svenevole, cosĂŹ sguaiato, che guai se chi nâera lâoggetto avesse potuto vederlo un momento. Ma quegli omacci che giĂ avevan cominciato a prendersi spasso dellâeloquenza appassionata e imbrogliata di Renzo, tanto piĂš se ne presero della sua aria compunta; i piĂš vicini dicevano agli altri: guardate; e tutti si voltavano a lui; tanto che divenne lo zimbello della brigata. Non giĂ che tutti fossero nel loro buon senno, o nel loro qual si fosse senno ordinario; ma, per dire il vero, nessuno nâera tanto uscito, quanto il povero Renzo: e per di piĂš era contadino. Si misero, or lâuno or lâaltro, a stuzzicarlo con domande sciocche e grossolane, con cerimonie canzonatorie. Renzo, ora dava segno dâaverselo per male, ora prendeva la cosa in ischerzo, ora, senza badare a tutte quelle voci, parlava di tuttâaltro, ora rispondeva, ora interrogava; sempre a salti, e fuor di proposito. Per buona sorte, in quel vaneggiamento, gli era però rimasta come unâattenzione istintiva a scansare i nomi delle persone; dimodochè anche quello che doveva esser piĂš altamente fitto nella sua memoria, non fu proferito: chè troppo ci dispiacerebbe se quel nome, per il quale anche noi sentiamo un poâ dâaffetto e di riverenza, fosse stato strascinato per quelle boccacce, fosse divenuto trastullo di quelle lingue sciagurate.
