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28 Dicembre 2019
Capitoli nono e decimo dei Promessi Sposi
28 Dicembre 2019đ Analisi approfondita dei Capitoli XXI e XXIII de I Promessi Sposi, saltando la digressione sul cardinale del Capitolo XXII
Analisi Approfondita dei Capitoli XXI e XXIII de ‘I Promessi Sposi’: Il Tormento dell’Innominato e le Conseguenze della Conversione
I Capitoli XXI e XXIII de I Promessi Sposi, pur separati dalla cruciale narrazione della conversione dell’Innominato (Capitolo XXII), formano un blocco tematico che illustra in modo vivido le dinamiche del male e del bene, la sofferenza degli innocenti e l’efficacia della Provvidenza. Il Capitolo XXI ci cala nella profonditĂ della crisi morale di un uomo votato al male, innescata dalla purezza della vittima; il Capitolo XXIII ne esplora le immediate conseguenze, mettendo in luce i primi passi di una redenzione che impatta la vita di Lucia e introduce nuove complessitĂ .
Capitolo XXI: La Notte Orribile e la Nascita del Rimorso
Il Capitolo XXI è un vertice narrativo e psicologico del romanzo, interamente incentrato sul rapimento e la prigionia di Lucia nel castello dell’Innominato e sulla drammatica crisi interiore che questa vicenda scatena nel signore.
1. Il Rapimento e la Prigionia di Lucia: Il capitolo inizia con il culmine dell’atto di violenza: Lucia viene brutalmente rapita e trasportata in carrozza verso l’inespugnabile castello dell’Innominato. Manzoni descrive la sua condizione di terrore e sfinimento: Lucia è “come intontita”, la sua mente è un turbine di paura e disorientamento. Il viaggio frenetico, il “furore de’ cavalli” e il “frastuono delle ruote” diventano metafore della sua perdita di controllo e del suo stato di incubo. Ogni tentativo di chiedere aiuto viene soffocato, accentuando il suo isolamento e la sua totale vulnerabilitĂ . L’arrivo al castello, descritto come un “nido” sinistro “posto a cavaliere a una giogaia di monti”, con le sue “muraglie nude, scoscese”, amplifica l’orrore e la disperazione di Lucia, che si sente ormai perduta. LĂŹ viene accolta da una “vecchia serva” dell’Innominato, un personaggio anch’esso segnato dal male, ormai insensibile alla compassione, che la conduce nella sua fredda e buia “stanzaccia”, una vera e propria prigione.
2. L’Incontro tra l’Innocenza e il Male Assoluto: Il momento piĂš significativo del capitolo è l’incontro tra l’Innominato e Lucia. L’Innominato, un uomo la cui reputazione di spietatezza e impunitĂ lo precede, un signore che ha accumulato innumerevoli delitti e che vive al di fuori di ogni legge, si trova inaspettatamente di fronte a una forza che non può soggiogare: la purezza e la disperazione inerme di Lucia. Lucia, spinta dal terrore e dalla fede, si getta in ginocchio, supplicandolo con parole che, pur tremolanti, portano con sĂŠ una forza quasi “dâispirazione”. Invoca la misericordia e la giustizia divina: “Lei che può comandare, e può far tanto, faccia un atto di misericordia, un atto di giustizia… Dio perdona tante cose, per unâopera di misericordia! Faccia questa, lei che può; mi liberi… Non mi vuole far fare un peccato!”. Queste parole semplici, intrise di fede pura, e la sua sofferenza innocente, penetrano l’animo indurito del tiranno. La reazione dell’Innominato è sorprendente e inattesa. Per la prima volta nella sua vita, si sente “toccato da una compassione fin allora sconosciuta”. Avverte un “non so che di nuovo”, un “moto dâinquietudine” e un “rimorso confuso”. Questa è la prima crepa nel suo animo di pietra. Per la prima volta, si ritira senza aver completato il suo proposito malvagio, segno che la grazia ha iniziato a operare.
3. Il Voto di Lucia e la Notte di Tormento dell’Innominato: Abbandonata nella sua prigione, Lucia, nella sua totale solitudine e disperazione, cerca rifugio in un atto estremo di fede e sacrificio: pronuncia un voto solenne alla Madonna: “Vergine santissima… io ti prometto di rimaner vergine… purchĂŠ tu mi salvi… io rinunzio per sempre al mio povero Renzo, per non essere mai piĂš dâaltri che tua.” Questo voto è un tentativo disperato di dare un senso alla sua sofferenza, un patto con il sacro per ottenere la salvezza. Ă un sacrificio della sua felicitĂ terrena (la promessa a Renzo) in cambio della vita e della protezione divina.
Contemporaneamente, il capitolo si concentra sulla “notte orribile” dell’Innominato. Per la prima volta, la sua coscienza si ribella con forza. I suoi innumerevoli delitti passati lo perseguitano, tormentandolo con un rimorso fino ad allora sconosciuto.
- La Nuova Paura: L’Innominato sperimenta una “paura” mai provata prima: non la paura degli uomini o delle conseguenze terrene, ma una paura metafisica, un terrore del giudizio divino e della morte. Questa paura, incontrollabile e opprimente, lo spinge a un’introspezione forzata.
- Il Vuoto Esistenziale: La sua vita di violenza e potere gli appare improvvisamente priva di significato, “vuota”. Sente un “fastidio della vita” e un insopportabile “tedio” della sua stessa esistenza. La sua anima è un “inferno”, e l’idea del suicidio lo tenta, ma un residuo di istinto e, forse, una primordiale fede lo trattengono.
- La Luce dell’Alba e la Decisione: La crisi culmina simbolicamente con l’arrivo dell’alba. I primi raggi di sole che penetrano nella sua stanza buia rappresentano la luce della speranza e della grazia. Il suono delle campane festive dal paese vicino (per la visita del Cardinale Borromeo, evento ancora ignoto all’Innominato) lo spinge a un’improvvisa e inattesa decisione: recarsi dal Cardinale, un gesto che segna l’inizio della sua conversione e redenzione.
Capitolo XXIII: Le Conseguenze della Conversione e i Nuovi Ostacoli
Il Capitolo XXIII ci presenta le immediate ripercussioni della spettacolare conversione dell’Innominato (narrata nel Capitolo XXII, che qui si salta). Il focus si sposta sulla liberazione di Lucia e sulle nuove, complesse sfide che si presentano ai protagonisti.
1. La Liberazione di Lucia e l’Incontro con il Cardinale: Il Cardinale Federigo Borromeo, dopo aver accolto l’Innominato pentito, si reca immediatamente al castello per liberare Lucia. Questo atto è un chiaro segno della caritĂ e dell’azione concreta della Chiesa. Lucia, liberata dalla sua prigione, si trova di fronte al Cardinale. L’incontro è carico di emotivitĂ : Lucia, piena di gratitudine, si prostra, ma è incapace di raccontare la sua storia, troppo prostrata dalla sofferenza e dalla sua innata ritrosia a parlare della sua vicenda personale.
2. La Presenza e l’Azione del Cardinale Borromeo: Il Cardinale Borromeo si conferma come una figura di immensa autoritĂ morale e di profonda caritĂ . Nonostante la sua alta posizione, si china sugli umili e agisce con pragmatismo e sollecitudine pastorale.
- PastoralitĂ e Saggezza: Il Cardinale comprende lo stato d’animo di Lucia e, con delicatezza, non la forza a parlare. Affida la giovane a Don Ferrante e Donna Prassede, due nobili milanesi, ritenendoli persone di sicura moralitĂ . Questo atto, pur mosso da buone intenzioni, avrĂ sviluppi imprevisti per Lucia, che si troverĂ in una casa dove la carità è spesso confusa con la pedanteria e il giudizio.
- La gestione della Monaca di Monza: La liberazione di Lucia porta il Cardinale a confrontarsi con la Monaca di Monza, Gertrude. Borromeo, informato forse dall’Innominato e intuendo il dramma della monaca, si reca al monastero. Egli affronta Gertrude con delicatezza e fermezza, cercando di penetrare il suo cuore indurito. Manzoni, pur non approfondendo qui la loro conversazione (poichĂŠ la storia di Gertrude è stata narrata nel Capitolo X), sottolinea il tentativo del Cardinale di aiutarla a riconoscere e affrontare i suoi peccati. La reazione di Gertrude, che si mostra inizialmente fredda e altera, ma poi sembra scossa dalle parole del Cardinale, è un preludio alla possibilitĂ di una sua, seppur parziale, redenzione.
3. I Nuovi Ostacoli: Il Voto di Lucia e la Lontananza di Renzo: La liberazione di Lucia, tuttavia, non è una soluzione immediata a tutti i suoi problemi.
- Il Voto: Il voto di castitĂ fatto da Lucia nella prigione dell’Innominato diventa un nuovo, gravissimo ostacolo alla sua unione con Renzo. Lucia si sente vincolata da questa promessa fatta a Dio in un momento di estrema disperazione. Questo voto introduce una complicazione teologica e morale che sarĂ centrale per gran parte della trama successiva e fonte di profonda sofferenza per Lucia e Renzo.
- La Separazione e l’Incertezza: Lucia è al sicuro, ma è lontana dal suo paese, separata da Agnese e ignara del destino di Renzo, che ora è un ricercato. La sua nuova dimora, seppur sicura, è estranea e impone nuove sfide.
4. L’Innominato e la Nuova Vita: Il Capitolo XXIII mostra l’Innominato che inizia concretamente la sua nuova vita. Ritorna al suo castello trasformato, non piĂš signore della violenza, ma uomo di fede e caritĂ . La sua conversione ha un impatto immediato sul territorio circostante: la violenza diminuisce, le ingiustizie vengono sanate. Egli diventa un esempio vivente della grazia divina.
Connessione Tematica tra Capitolo XXI e XXIII: Provvidenza, Crisi e Redenzione
I Capitoli XXI e XXIII sono intrinsecamente legati e rappresentano un potente percorso di cause ed effetti nel disegno manzoniano:
- L’Opera della Provvidenza: La Provvidenza Divina è il filo conduttore. Il rapimento di Lucia (un atto malvagio) diventa lo strumento attraverso cui la grazia divina opera la conversione dell’Innominato (Capitolo XXI). Questa conversione, a sua volta, è la causa diretta della liberazione di Lucia e del suo ricovero (Capitolo XXIII). Il male è utilizzato come occasione per il bene.
- Dalla Crisi Individuale alle Conseguenze Collettive: Il Capitolo XXI si concentra sulla crisi interiore dell’Innominato, un dramma personale e spirituale. Il Capitolo XXIII mostra le conseguenze concrete di questa trasformazione sull’individuo (Lucia liberata) e sulla comunitĂ (l’ordine ristabilito nel territorio dell’Innominato). La redenzione di un singolo porta beneficio a molti.
- La Sofferenza come Strumento: La sofferenza di Lucia nel Capitolo XXI, la sua preghiera e il suo voto, sono elementi catalizzatori per la crisi dell’Innominato. Nel Capitolo XXIII, la sua sofferenza continua, seppur in una condizione di sicurezza, a causa del voto e della separazione, dimostrando che la Provvidenza non elimina ogni ostacolo, ma offre le vie per affrontarli.
- La Chiesa come Agente di Bene: Il Cardinale Federigo Borromeo emerge come figura esemplare della carità e della saggezza pastorale della Chiesa, che agisce attivamente per sanare le ferite sociali e spirituali. La sua presenza è un punto di riferimento morale e pratico, a differenza delle autorità civili spesso assenti o corrotte.
In conclusione, i Capitoli XXI e XXIII, pur saltando il fondamentale momento della conversione diretta (Capitolo XXII), disegnano un quadro completo dell’azione della grazia. Il tormento notturno dell’Innominato nel XXI capitolo è il preludio necessario alla sua trasformazione e alla conseguente liberazione di Lucia nel XXIII. Manzoni ci mostra come la fede e la Provvidenza possano sovvertire il male e aprire nuove strade, sebbene non senza nuove sfide e prove per i suoi personaggi.
Testo del ventunesimo capitolo dei Promessi Sposi

CAPITOLO XXI
La vecchia era corsa a ubbidire e a comandare, con lâautoritĂ di quel nome che, da chiunque fosse pronunziato in quel luogo, li faceva spicciar tutti; perchè a nessuno veniva in testa che ci fosse uno tanto ardito da servirsene falsamente. Si trovò infatti alla Malanotte un poâ prima che la carrozza ci arrivasse; e vistala venire, uscĂŹ di bussola, fece segno al cocchiere che fermasse, sâavvicinò allo sportello; e al Nibbio, che mise il capo fuori, riferĂŹ sottovoce gli ordini del padrone.
Lucia, al fermarsi della carrozza, si scosse, e rinvenne da una specie di letargo. Si sentĂŹ da capo rimescolare il sangue, spalancò la bocca e gli occhi, e guardò. Il Nibbio sâera tirato indietro; e la vecchia, col mento sullo sportello, guardando Lucia, diceva: âvenite, la mia giovine; venite, poverina; venite con me, che ho ordine di trattarvi bene e di farvi coraggio.â
Al suono dâuna voce di donna, la poverina provò un conforto, un coraggio momentaneo; ma ricadde subito in uno spavento piĂš cupo. âChi siete?â disse con voce tremante, fissando lo sguardo attonito in viso alla vecchia.

âVenite, venite, poverina,â andava questa ripetendo. Il Nibbio e gli altri due, argomentando dalle parole e dalla voce cosĂŹ straordinariamente raddolcita di colei, quali fossero lâintenzioni del signore, cercavano di persuader con le buone lâoppressa a ubbidire. Ma lei seguitava a guardar fuori; e benchè il luogo selvaggio e sconosciuto, e la sicurezza deâ suoi guardiani non le lasciassero concepire speranza di soccorso, apriva non ostante la bocca per gridare; ma vedendo il Nibbio far gli occhiacci del fazzoletto, ritenne il grido, tremò, si storse, fu presa e messa nella bussola. Dopo, câentrò la vecchia; il Nibbio disse ai due altri manigoldi che andassero dietro, e prese speditamente la salita, per accorrere ai comandi del padrone.
âChi siete?â domandava con ansietĂ Lucia al ceffo sconosciuto e deforme: âperchè son con voi? dove sono? dove mi conducete?â
âDa chi vuol farvi del bene,â rispondeva la vecchia, âda un gran… Fortunati quelli a cui vuol far del bene! Buon per voi, buon per voi. Non abbiate paura, state allegra, chè mâha comandato di farvi coraggio. Glielo direte, eh? che vâho fatto coraggio?â
âChi è? perchè? che vuol da me? Io non son sua. Ditemi dove sono; lasciatemi andare; dite a costoro che mi lascino andare, che mi portino in qualche chiesa. Oh! voi che siete una donna, in nome di Maria Vergine…!â
Quel nome santo e soave, giĂ ripetuto con venerazione neâ primi anni, e poi non piĂš invocato per tanto tempo, nè forse sentito proferire, faceva nella mente della sciagurata che lo sentiva in quel momento, unâimpressione confusa, strana, lenta, come la rimembranza della luce, in un vecchione accecato da bambino.
Intanto lâinnominato, ritto sulla porta del castello, guardava in giĂš; e vedeva la bussola venir passo passo, come prima la carrozza, e avanti, a una distanza che cresceva ogni momento, salir di corsa il Nibbio. Quando questo fu in cima, il signore gli accennò che lo seguisse; e andò con lui in una stanza del castello.
âEbbene?â disse, fermandosi lĂŹ.
âTutto a un puntino â rispose, inchinandosi, il Nibbio: âlâavviso a tempo, la donna a tempo, nessuno sul luogo, un urlo solo, nessuno comparso, il cocchiere pronto, i cavalli bravi, nessun incontro: ma…â
âMa che?â
âMa… dico il vero, che avrei avuto piĂš piacere che lâordine fosse stato di darle una schioppettata nella schiena, senza sentirla parlare, senza vederla in viso.â
âCosa? cosa? che vuoi tu dire?â
âVoglio dire che tutto quel tempo, tutto quel tempo… Mâha fatto troppa compassione.â
âCompassione! Che sai tu di compassione? Cosâè la compassione?â
âNon lâho mai capito cosĂŹ bene come questa volta: è una storia la compassione un poco come la paura: se uno la lascia prender possesso, non è piĂš uomo.â
âSentiamo un poco come ha fatto costei per moverti a compassione.â
âO signore illustrissimo! tanto tempo…! piangere, pregare, e far certâocchi, e diventar bianca bianca come morta, e poi singhiozzare, e pregar di nuovo, e certe parole…â
â Non la voglio in casa costei, â pensava intanto lâinnominato. â Sono stato una bestia a impegnarmi; ma ho promesso, ho promesso. Quando sarĂ lontana… â E alzando la testa, in atto di comando, verso il Nibbio, âora,â gli disse, âmetti da parte la compassione: monta a cavallo, prendi un compagno, due se vuoi; e vaâ di corsa a casa di quel don Rodrigo che tu sai. Digli che mandi… ma subito subito, perchè altrimenti…â
Ma un altro no interno piĂš imperioso del primo gli proibĂŹ di finire. âNo,â disse con voce risoluta, quasi per esprimere a sè stesso il comando di quella voce segreta, âno: vaâ a riposarti; e domattina… farai quello che ti dirò!â
â Un qualche demonio ha costei dalla sua, – pensava poi, rimasto solo, ritto, con le braccia incrociate sul petto, e con lo sguardo immobile sur una parte del pavimento, dove il raggio della luna, entrando da una finestra alta, disegnava un quadrato di luce pallida, tagliata a scacchi dalle grosse inferriate, e intagliata piĂš minutamente dai piccoli compartimenti delle vetriate.

Un qualche demonio, o…. un qualche angelo che la protegge…. Compassione al Nibbio!…. Domattina, domattina di buonâora, fuor di qui costei; al suo destino, e non se ne parli piĂš, e, â proseguiva tra sè, con quellâanimo con cui si comanda a un ragazzo indocile, sapendo che non ubbidirĂ â e non ci si pensi piĂš. Quellâanimale di don Rodrigo non mi venga a romper la testa con ringraziamenti; che…. non voglio piĂš sentir parlar di costei. Lâho servito perchè…. perchè ho promesso: e ho promesso perchè…. è il mio destino. Ma voglio che me lo paghi bene questo servizio, colui. Vediamo un poco…. â
E voleva almanaccare cosa avrebbe potuto richiedergli di scabroso per compenso, e quasi per pena; ma gli si attraversaron di nuovo alla mente quelle parole: compassione al Nibbio! â Come può aver fatto costei? – continuava, strascinato da quel pensiero. â Voglio vederla…. Eh! no…. SĂŹ, voglio vederla.
E dâuna stanza in unâaltra, trovò una scaletta, e su a tastone, andò alla camera della vecchia, e picchiò allâuscio con un calcio.
â Chi è? â
â Apri. â
A quella voce, la vecchia fece tre salti; e subito si sentĂŹ scorrere il paletto negli anelli, e lâuscio si spalancò. Lâinnominato, dalla soglia, diede unâocchiata in giro; e, al lume dâuna lucerna che ardeva sur un tavolino, vide Lucia rannicchiata in terra, nel canto il piĂš lontano dallâuscio.
â Chi tâha detto che tu la buttassi lĂ come un sacco di cenci, sciagurata? â disse alla vecchia, con un cipiglio iracondo.
â Sâè messa dove le è piaciuto, â rispose umilmente colei: â io ho fatto di tutto per farle coraggio: lo può dire anche lei; ma non câè stato verso. â
â Alzatevi, â disse lâinnominato a Lucia, andandole vicino. Ma Lucia, a cui il picchiare, lâaprire, il comparir di quellâuomo, le sue parole, avevan messo un nuovo spavento nellâanimo spaventato, stava piĂš che mai raggomitolata nel cantuccio, col viso nascosto tra le mani, e non movendosi, se non che tremava tutta.
â Alzatevi, chè non voglio farvi del male…. e posso farvi del bene, â ripetè il signore…. â Alzatevi! â tonò poi quella voce, sdegnata dâaver due volte comandato invano.
Come rinvigorita dallo spavento, lâinfelicissima si rizzò subito inginocchioni; e giungendo le mani, come avrebbe fatto davanti a unâimmagine, alzò gli occhi in viso allâinnominato, e riabbassandoli subito, disse: â son qui: mâammazzi. â
â Vâho detto che non voglio farvi del male, â rispose, con voce mitigata, lâinnominato, fissando quel viso turbato dallâaccoramento e dal terrore.
â Coraggio, coraggio, â diceva la vecchia: â se ve lo dice lui, che non vuol farvi del male…. â
â E perchè, â riprese Lucia con una voce, in cui, col tremito della paura, si sentiva una certa sicurezza dellâindegnazione disperata, â perchè mi fa patire le pene dellâinferno? Cosa le ho fatto io?…. â

â Vâhanno forse maltrattata? Parlate. â
â Oh maltrattata! Mâhanno presa a tradimento, per forza! perchè?
perchè mâhanno presa? perchè son qui? dove sono? Sono una povera creatura: cosa le ho fatto? In nome di Dio…. â
â Dio, Dio, â interruppe lâinnominato: â sempre Dio: coloro che non possono difendersi da sè, che non hanno la forza, sempre han questo Dio da mettere in campo, come se gli avessero parlato. Cosa pretendete con codesta vostra parola? Di farmi….? â e lasciò la frase a mezzo.
â Oh Signore! pretendere! Cosa posso pretendere io meschina, se non che lei mi usi misericordia? Dio perdona tante cose, per unâopera di misericordia! Mi lasci andare; per caritĂ mi lasci andare! Non torna conto a uno che un giorno deve morire di far patir tanto una povera creatura. Oh! lei che può comandare, dica che mi lascino andare! Mâhanno portata qui per forza. Mi mandi con questa donna a ***, dovâè mia madre. Oh Vergine santissima! mia madre! mia madre, per caritĂ , mia madre! Forse non è lontana di qui…. ho veduto i miei monti! Perchè lei mi fa patire? Mi faccia condurre in una chiesa. Pregherò per lei, tutta la mia vita. Cosa le costa dire una parola? Oh ecco! vedo che si move a compassione: dica una parola, la dica. Dio perdona tante cose, per unâopera di misericordia! â
â Oh perchè non è figlia dâuno di queâ cani che mâhanno bandito! â pensava lâinnominato: â dâuno di queâ vili che mi vorrebbero morto! che ora godrei di questo suo strillare; e in vece…. â
â Non iscacci una buona ispirazione! â proseguiva fervidamente Lucia, rianimata dal vedere una certâaria dâesitazione nel viso e nel contegno del suo tiranno. â Se lei non mi fa questa caritĂ , me la farĂ il Signore: mi farĂ morire, e per me sarĂ finita; ma lei!…. Forse un giorno anche lei…. Ma no, no; pregherò sempre io il Signore che la preservi da ogni male. Cosa le costa dire una parola? Se provasse lei a patir queste pene….! â
â Via, fatevi coraggio, â interruppe lâinnominato, con una dolcezza che fece strasecolar la vecchia. â Vâho fatto nessun male? Vâho minacciata? â
â Oh no! Vedo che lei ha buon cuore, e che sente pietĂ di questa povera creatura. Se lei volesse, potrebbe farmi paura piĂš di tutti gli altri, potrebbe farmi morire; e in vece mi ha…. un poâ allargato il cuore. Dio gliene renderĂ merito. Compisca lâopera di misericordia: mi liberi, mi liberi. â
â Domattina…. â
â Oh mi liberi ora, subito…. â
â Domattina ci rivedremo, vi dico. Via, intanto fatevi coraggio. Riposate. Dovete aver bisogno di mangiare. Ora ve ne porteranno. â
â No, no; io moio se alcuno entra qui: io moio. Mi conduca lei in chiesa…. queâ passi Dio glieli conterĂ . â
â VerrĂ una donna a portarvi da mangiare, â disse lâinnominato; e dettolo, rimase stupito anche lui che gli fosse venuto in mente un tal ripiego, e che gli fosse nato il bisogno di cercarne uno, per rassicurare una donnicciola.
â E tu, â riprese poi subito, voltandosi alla vecchia, â falle coraggio che mangi; mettila a dormire in questo letto: e se ti vuole in compagnia, bene; altrimenti, tu puoi ben dormire una notte in terra. Falle coraggio, ti dico; tienla allegra. E che non abbia a lamentarsi di te! â
CosĂŹ detto, si mosse rapidamente verso lâuscio. Lucia sâalzò e corse per trattenerlo, e rinnovare la sua preghiera; ma era sparito.
â Oh povera me! Chiudete, chiudete subito. â E sentito châebbe accostare i battenti e scorrere il paletto, tornò a rannicchiarsi nel suo cantuccio. â Oh povera me! â esclamò di nuovo singhiozzando: â chi pregherò ora? Dove sono? Ditemi voi, ditemi per caritĂ , chi è quel signore…. quello che mâha parlato? â
â Chi è, eh? chi è? Volete châio ve lo dica. Aspetta châio te lo dica.

Perchè vi protegge, avete messo su superbia; e volete esser soddisfatta voi, e farne andar di mezzo me. Domandatene a lui. Sâio vi contentassi anche in questo, non mi toccherebbe di quelle buone parole che avete sentite voi. â â Io son vecchia, son vecchia, â continuò, mormorando tra i denti. â Maledette le giovani, che fanno bel vedere a piangere e a ridere, e hanno sempre ragione. â Ma sentendo Lucia singhiozzare, e tornandole minaccioso alla mente il comando del padrone, si chinò verso la povera rincantucciata, e, con voce raddolcita, riprese: â via, non vâho detto niente di male: state allegra. Non mi domandate di quelle cose che non vi posso dire; e del resto, state di buon animo. Oh se sapeste quanta gente sarebbe contenta di sentirlo parlare come ha parlato a voi! State allegra, che or ora verrĂ da mangiare; e io che capisco…. nella maniera che vâha parlato, ci sarĂ della roba buona. E poi anderete a letto, e…. mi lascerete un cantuccino anche a me, spero, â soggiunse, con una voce, suo malgrado, stizzosa.
â Non voglio mangiare, non voglio dormire. Lasciatemi stare; non vâaccostate; non partite di qui! â
â No, no, via, â disse la vecchia, ritirandosi, e mettendosi a sedere sur una seggiolaccia, donde dava alla poverina certe occhiate di terrore e dâastio insieme; e poi guardava il suo covo, rodendosi dâesserne forse esclusa per tutta la notte, e brontolando contro il freddo. Ma si rallegrava col pensiero della cena, e con la speranza che ce ne sarebbe anche per lei. Lucia non sâavvedeva del freddo, non sentiva la fame, e come sbalordita, non aveva deâ suoi dolori, deâ suoi terrori stessi, che un sentimento confuso, simile allâimmagini sognate da un febbricitante.
Si riscosse quando sentĂŹ picchiare; e, alzando la faccia atterrita, gridò: â chi è? chi è? Non venga nessuno! â
â Nulla, nulla; buone nuove, â disse la vecchia: â è Marta che porta da mangiare. â
â Chiudete, chiudete! â gridava Lucia.
â Ih! subito, subito, â rispondeva la vecchia; e presa una paniera dalle mani di quella Marta, la mandò via, richiuse, e venne a posar la paniera sur una tavola nel mezzo della camera. Invitò poi piĂš volte Lucia che venisse a goder di quella buona roba. Adoprava le parole piĂš efficaci, secondo lei, a mettere appetito alla poverina, prorompeva in esclamazioni sulla squisitezza deâ cibi: â di queâ bocconi che, quando le persone come noi possono arrivare a assaggiarne, se ne ricordan per un pezzo! Del vino che beve il padrone coâ suoi amici…. quando capita qualcheduno di quelli…! e vogliono stare allegri! Ehm! â Ma vedendo che tutti glâincanti riuscivano inutili, â siete voi che non volete, â disse. â Non istate poi a dirgli domani châio non vâho fatto coraggio. Mangerò io; e ne resterĂ piĂš che abbastanza per voi, per quando metterete giudizio, e vorrete ubbidire. â CosĂŹ detto, si mise a mangiare avidamente. Saziata che fu, sâalzò, andò verso il cantuccio, e, chinandosi sopra Lucia, lâinvitò di nuovo a mangiare, per andar poi a letto.
â No, no, non voglio nulla, â rispose questa, con voce fiacca e come sonnolenta. Poi, con piĂš risolutezza, riprese: â è serrato lâuscio? è serrato bene? â E dopo aver guardato in giro per la camera, sâalzò, e, con le mani avanti, con passo sospettoso, andava verso quella parte.
La vecchia ci corse prima di lei, stese la mano al paletto, lo scosse, e disse: â sentite? vedete? è serrato bene? siete contenta ora? â

â Oh contenta! contenta io qui! â disse Lucia, rimettendosi di nuovo nel suo cantuccio. â Ma il Signore lo sa che ci sono! â
â Venite a letto: cosa volete far lĂŹ, accucciata come un cane? Sâè mai visto rifiutare i comodi, quando si possono avere? â
â No, no; lasciatemi stare. â
â Siete voi che lo volete. Ecco, io vi lascio il posto buono: mi metto sulla sponda; starò incomoda per voi. Se volete venire a letto, sapete come avete a fare. Ricordatevi che vâho pregata piĂš volte.â CosĂŹ dicendo, si cacciò sotto vestita; e tutto tacque.
Lucia stava immobile in quel cantuccio, tutta in un gomitolo, con le ginocchia alzate, con le mani appoggiate sulle ginocchia, e col viso nascosto nelle mani. Non era il suo nè sonno nè veglia, ma una rapida successione, una torbida vicenda di pensieri, dâimmaginazioni, di spaventi. Ora, piĂš presente a sè stessa, e rammentandosi piĂš distintamente gli orrori veduti e sofferti in quella giornata, sâapplicava dolorosamente alle circostanze dellâoscura e formidabile realtĂ in cui si trovava avviluppata; ora la mente, trasportata in una regione ancor piĂš oscura, si dibatteva contro i fantasmi nati dallâincertezza e dal terrore. Stette un pezzo in questâangoscia; alfine, piĂš che mai stanca e abbattuta, stese le membra intormentite, si sdraiò, o cadde sdraiata, e rimase alquanto in uno stato piĂš somigliante a un sonno vero. Ma tuttâa un tratto si risentĂŹ, come a una chiamata interna, e provò il bisogno di risentirsi interamente, di riaver tutto il suo pensiero, di conoscere dove fosse, come, perchè. Tese lâorecchio a un suono: era il russare lento, arrantolato della vecchia; spalancò gli occhi, e vide un chiarore fioco apparire e sparire a vicenda: era il lucignolo della lucerna, che, vicino a spegnersi, scoccava una luce tremola, e subito la ritirava, per dir cosĂŹ, indietro, come è il venire e lâandare dellâonda sulla riva: e quella luce, fuggendo dagli oggetti, prima che prendessero da essa rilievo e colore distinto, non rappresentava allo sguardo che una successione di guazzabugli. Ma ben presto le recenti impressioni, ricomparendo nella mente, lâaiutarono a distinguere ciò che appariva confuso al senso. Lâinfelice risvegliata riconobbe la sua prigione: tutte le memorie dellâorribil giornata trascorsa, tutti i terrori dellâavvenire, lâassalirono in una volta: quella nuova quiete stessa dopo tante agitazioni, quella specie di riposo, quellâabbandono in cui era lasciata, le facevano un nuovo spavento: e fu vinta da un tale affanno, che desiderò di morire. Ma in quel momento, si rammentò che poteva almen pregare, e insieme con quel pensiero, le spuntò in cuore come unâimprovvisa speranza. Prese di nuovo la sua corona, e ricominciò a dire il rosario; e, di mano in mano che la preghiera usciva dal suo labbro tremante, il cuore sentiva crescere una fiducia indeterminata. Tuttâa un tratto, le passò per la mente un altro pensiero: che la sua orazione sarebbe stata piĂš accetta e piĂš certamente esaudita, quando, nella sua desolazione, facesse anche qualche offerta. Si ricordò di quello che aveva di piĂš caro, o che di piĂš caro aveva avuto; giacchè, in quel momento, lâanimo suo non poteva sentire altra affezione che di spavento, nè concepire altro desiderio che della liberazione; se ne ricordò, e risolvette subito di farne un sacrifizio. Sâalzò, e si mise in ginocchio, e tenendo giunte al petto le mani, dalle quali pendeva la corona, alzò il viso e le pupille al cielo, e disse: âo Vergine santissima! Voi, a cui mi sono raccomandata tante volte, e che tante volte mâavete consolata, voi che avete patito tanti dolori, e siete ora tanto gloriosa, e avete fatti tanti miracoli per i poveri tribolati; aiutatemi! fatemi uscire da questo pericolo, fatemi tornar salva con mia madre, o Madre del Signore; e fo voto a voi di rimaner vergine; rinunzio per sempre a quel mio poveretto, per non esser mai dâaltri che vostra.â

Proferite queste parole, abbassò la testa, e si mise la corona intorno al collo, quasi come un segno di consacrazione, e una salvaguardia a un tempo, come unâarmatura della nuova milizia a cui sâera ascritta. Rimessasi a sedere in terra, sentĂŹ entrar nellâanimo una certa tranquillitĂ , una piĂš larga fiducia. Le venne in mente quel domattina ripetuto dallo sconosciuto potente, e le parve di sentire in quella parola una promessa di salvazione. I sensi affaticati da tanta guerra sâassopirono a poco a poco in quellâacquietamento di pensieri; e finalmente, giĂ vicino a giorno, col nome della sua protettrice tronco tra le labbra, Lucia sâaddormentò dâun sonno perfetto e continuo.

Ma câera qualchedun altro in quello stesso castello, che avrebbe voluto fare altrettanto, e non potè mai. Partito, o quasi scappato da Lucia, dato lâordine per la cena di lei, fatta una consueta visita a certi posti del castello, sempre con quellâimmagine viva nella mente, e con quelle parole risonanti allâorecchio, il signore sâera andato a cacciare in camera, sâera chiuso dentro in fretta e in furia, come se avesse avuto a trincerarsi contro una squadra di nemici; e spogliatosi, pure in furia, era andato a letto. Ma quellâimmagine, piĂš che mai presente, parve che in quel momento gli dicesse: tu non dormirai. â Che sciocca curiositĂ da donnicciola, â pensava, â mâè venuta di vederla? Ha ragione quel bestione del Nibbio; uno non è piĂš uomo; [p. 406 modifica]è vero, non è piĂš uomo!… Io?… io non son piĂš uomo, io? Cosâè stato? che diavolo mâè venuto addosso? che câè di nuovo? Non lo sapevo io prima dâora, che le donne strillano? Strillano anche gli uomini alle volte, quando non si possono rivoltare. Che diavolo! non ho mai sentito belar donne?
E qui, senza che sâaffaticasse molto a rintracciare nella memoria, la memoria da sè gli rappresentò piĂš dâun caso in cui nè preghi nè lamenti non lâavevano punto smosso dal compire le sue risoluzioni. Ma la rimembranza di tali imprese, non che gli ridonasse la fermezza, che giĂ gli mancava, di compir questa; non che spegnesse nellâanimo quella molesta pietĂ ; vi destava invece una specie di terrore, una non so qual rabbia di pentimento. Di maniera che gli parve un sollievo il tornare a quella prima immagine di Lucia, contro la quale aveva cercato di rinfrancare il suo coraggio. â Ă viva costei, â pensava, â è qui; sono a tempo; le posso dire: andate, rallegratevi; posso veder quel viso cambiarsi, le posso anche dire: perdonatemi…. Perdonatemi? io domandar perdono? a una donna? io…! Ah, eppure! se una parola, una parola tale mi potesse far bene, levarmi dâaddosso un poâ di questa diavoleria, la direi; eh! sento che la direi. A che cosa son ridotto! Non son piĂš uomo, non son piĂš uomo!… Via! â disse, poi, rivoltandosi arrabbiatamente nel letto divenuto duro duro, sotto le coperte divenute pesanti pesanti: â via! sono sciocchezze che mi son passate per la testa altre volte. PasserĂ anche questa. â
E per farla passare, andò cercando col pensiero qualche cosa importante, qualcheduna di quelle che solevano occuparlo fortemente, onde applicarvelo tutto; ma non ne trovò nessuna. Tutto gli appariva cambiato: ciò che altre volte stimolava piĂš fortemente i suoi desidèri, ora non aveva piĂš nulla di desiderabile: la passione, come un cavallo divenuto tuttâa un tratto restĂŹo per unâombra, non voleva piĂš andare avanti. Pensando allâimprese avviate e non finite, in vece dâanimarsi al compimento, in vece dâirritarsi degli ostacoli (chè lâira in quel momento gli sarebbe parsa soave), sentiva una tristezza, quasi uno spavento deâ passi giĂ fatti. Il tempo gli sâaffacciò davanti voto dâogni intento, dâogni occupazione, dâogni volere, pieno soltanto di memorie intollerabili; tutte lâore somiglianti a quella che gli passava cosĂŹ lenta, cosĂŹ pesante sul capo. Si schierava nella fantasia tutti i suoi malandrini, e non trovava da comandare a nessuno di loro una cosa che glâimportasse; anzi lâidea di rivederli, di trovarsi tra loro, era un nuovo peso, unâidea di schifo e dâimpiccio. E se volle trovare unâoccupazione per lâindomani, unâopera fattibile, dovette pensare che allâindomani poteva lasciare in libertĂ quella poverina.
â La libererò, sĂŹ; appena spunta il giorno, correrò da lei, e le dirò: andate, andate. La farò accompagnare… E la promessa? e lâimpegno? e don Rodrigo?… Chi è don Rodrigo? â
A guisa di chi è colto da una interrogazione inaspettata e imbarazzante dâun superiore, lâinnominato pensò subito a rispondere a questa che sâera fatta lui stesso, o piuttosto quel nuovo lui, che cresciuto terribilmente a un tratto, sorgeva come a giudicare lâantico. Andava dunque cercando le ragioni per cui, prima quasi dâesser pregato, sâera potuto risolvere a prender lâimpegno di far tanto patire, senzâodio, senza timore, unâinfelice sconosciuta, per servire colui; ma, non che riuscisse a trovar ragioni che in quel momento gli paressero buone a scusare il fatto, non sapeva quasi spiegare a sè stesso come ci si fosse indotto. Quel volere, piuttosto che una deliberazione, era stato un movimento istantaneo dellâanimo ubbidiente a sentimenti antichi, abituali, una conseguenza di mille fatti antecedenti; e il tormentato esaminator di sè stesso, per rendersi ragione dâun sol fatto, si trovò ingolfato nellâesame di tutta la sua vita. Indietro, indietro, dâanno in anno, dâimpegno in impegno, di sangue in sangue, di scelleratezza in scelleratezza: ognuna ricompariva allâanimo consapevole e nuovo, separata daâ sentimenti che lâavevan fatta volere e commettere; ricompariva con una mostruositĂ che queâ sentimenti non avevano allora lasciato scorgere in essa. Eran tutte sue, eran lui: lâorrore di questo pensiero, rinascente a ognuna di quellâimmagini, attaccato a tutte, crebbe fino alla disperazione. Sâalzò in furia a sedere, gettò in furia le mani alla parete accanto al letto, afferrò una pistola, la staccò, e… al momento di finire una vita divenuta insopportabile, il suo pensiero sorpreso da un terrore, da unâinquietudine, per dir cosĂŹ, superstite, si slanciò nel tempo che pure continuerebbe a scorrere dopo la sua fine. Sâimmaginava con raccapriccio il suo cadavere sformato, immobile, in balĂŹa del piĂš vile sopravvissuto; la sorpresa, la confusione nel castello, il giorno dopo: ogni cosa sottosopra; lui, senza forza, senza voce, buttato chi sa dove. Immaginava i discorsi che se ne sarebber fatti lĂŹ, dâintorno, lontano; la gioia deâ suoi nemici. Anche le tenebre, anche il silenzio, gli facevan veder nella morte qualcosa di piĂš tristo, di spaventevole; gli pareva che non avrebbe esitato, se fosse stato di [p. 408 modifica]giorno, allâaperto, in faccia alla gente: buttarsi in un fiume e sparire. E assorto in queste contemplazioni tormentose, andava alzando e riabbassando, con una forza convulsiva del pollice, il cane della pistola;

quando gli balenò in mente un altro pensiero. â Se quellâaltra vita di cui mâhanno parlato quandâero ragazzo, di cui parlano sempre, come se fosse cosa sicura; se quella vita non câè; se è unâinvenzione deâ preti; che fo io? perchè morire? cosâimporta quello che ho fatto? cosâimporta? è una pazzia la mia… E se câè questâaltra vita…! â
A un tal dubbio, a un tal rischio, gli venne addosso una disperazione piĂš nera, piĂš grave, dalla quale non si poteva fuggire, neppur con la morte. Lasciò cader lâarme, e stava con le mani neâ capelli, battendo i denti, tremando. Tuttâa un tratto, gli tornarono in mente parole che aveva sentite e risentite, poche ore prima: â Dio perdona tante cose, per unâopera di misericordia! â E non gli tornavan giĂ con quellâaccento dâumile preghiera, con cui erano state proferite; ma con un suono pieno dâautoritĂ , e che insieme induceva una lontana speranza. Fu quello un momento di sollievo: levò le mani dalle tempie, e, in unâattitudine piĂš composta, fissò gli occhi della mente in colei da cui aveva sentite quelle parole; e la vedeva, non come la sua prigioniera, non come una supplichevole, ma in atto di chi dispensa grazie e consolazioni. Aspettava ansiosamente il giorno, per correre a liberarla, a sentire dalla bocca di lei altre parole di refrigerio e di vita; sâimmaginava di condurla lui stesso alla madre. â E poi? che farò domani, il resto della giornata? che farò doman lâaltro? che farò dopo doman lâaltro? E la notte? la notte, che tornerĂ tra dodici ore! Oh la notte! no, no, la notte! â E ricaduto nel vòto penoso dellâavvenire, cercava indarno un impiego del tempo, una maniera di passare i giorni, le notti. Ora si proponeva dâabbandonare il castello, e dâandarsene in paesi lontani, dove nessun lo conoscesse, neppur di nome; ma sentiva che lui, lui sarebbe sempre con sè: ora gli rinasceva una fosca speranza di ripigliar lâanimo antico, le antiche voglie; e che quello fosse come un delirio passeggiero; ora temeva il giorno, che doveva farlo vedere aâ suoi cosĂŹ miserabilmente mutato; ora lo sospirava, come se dovesse portar la luce anche neâ suoi pensieri. Ed ecco, appunto sullâalbeggiare, pochi momenti dopo che Lucia sâera addormentata, ecco che, stando cosĂŹ immoto a sedere, sentĂŹ arrivarsi allâorecchio come unâonda di suono non bene espresso, ma che pure aveva non so che dâallegro. Stette attento, e riconobbe uno scampanare a festa lontano; e dopo qualche momento, sentĂŹ anche lâeco del monte, che ogni tanto ripeteva languidamente il concento, e si confondeva con esso. Di lĂŹ a poco, sente un altro scampanĂŹo piĂš vicino, anche quello a festa; poi un altro. â Che allegria câè? cosâhanno di bello tutti costoro? â Saltò fuori da quel covile di pruni; e vestitosi a mezzo, corse a aprire una finestra, e guardò. Le montagne eran mezze velate di nebbia; il cielo, piuttosto che nuvoloso, era tutto una nuvola cenerognola; ma, al chiarore che pure andava a poco a poco crescendo, si distingueva, nella strada in fondo alla valle, gente che passava, altra che usciva dalle case, e sâavviava, tutti dalla stessa parte, verso lo sbocco, a destra del castello, tutti col vestito delle feste, e con unâalacritĂ straordinaria.
â Che diavolo hanno costoro? che câè dâallegro in questo maledetto paese? dove va tutta quella canaglia? â E data una voce a un bravo fidato che dormiva in una stanza accanto, gli domandò qual fosse la cagione di quel movimento. Quello, che ne sapeva quanto lui, rispose che anderebbe subito a informarsene. Il signore rimase appoggiato alla finestra, tutto intento al mobile spettacolo. Erano uomini, donne, fanciulli, a brigate, a coppie, soli; uno, raggiungendo chi gli era avanti, sâaccompagnava con lui; un altro, uscendo di casa, sâuniva col primo che rintoppasse; e andavano insieme, come amici a un viaggio convenuto. Gli atti indicavano manifestamente una fretta e una gioia comune; e quel rimbombo non accordato ma consentaneo delle varie campane, quali piĂš, quali meno vicine, pareva, per dir cosĂŹ, la voce di queâ gesti, e il supplimento delle parole che non potevano arrivar lassĂš. Guardava, guardava; e gli cresceva in cuore una piĂš che curiositĂ di saper cosa mai potesse comunicare un trasporto uguale a tanta gente diversa.

Testo del CAPITOLO ventitreesimo

CAPITOLO XXIII
Il cardinal Federigo, intanto che aspettava lâora dâandar in chiesa a celebrar gli ufizi divini, stava studiando, comâera solito di fare in tutti i ritagli di tempo; quando entrò il cappellano crocifero, con un viso alterato.
âUna strana visita, strana davvero, monsignore illustrissimo!â
âChi è?â domandò il cardinale.
âNiente meno che il signor…â riprese il cappellano; e spiccando le sillabe con una gran significazione, proferĂŹ quel nome che noi non possiamo scrivere ai nostri lettori. Poi soggiunse: âè qui fuori in persona; e chiede nientâaltro che dâesser introdotto da vossignoria illustrissima.â
âLui!â disse il cardinale, con un viso animato, chiudendo il libro, e alzandosi da sedere: âvenga! venga subito!â
âMa…â replicò il cappellano, senza moversi: âvossignoria illustrissima deve sapere chi è costui: quel bandito, quel famoso…â
âE non è una fortuna per un vescovo, che a un tal uomo sia nata la volontĂ di venirlo a trovare?â
âMa…â insistette il cappellano: ânoi non possiamo mai parlare di certe cose, perchè monsignore dice che le son ciance: però, quando viene il caso, mi pare che sia un dovere… Lo zelo fa deâ nemici, monsignore; e noi sappiamo positivamente che piĂš dâun ribaldo ha osato vantarsi che, un giorno o lâaltro…â
âE che hanno fatto?â interruppe il cardinale.
âDico che costui è un appaltatore di delitti, un disperato, che tiene corrispondenza coâ disperati piĂš furiosi, e che può esser mandato…â
âOh, che disciplina è codesta,â interruppe ancora sorridendo Federigo, âche i soldati esortino il generale ad aver paura?â Poi, divenuto serio e pensieroso, riprese: âsan Carlo non si sarebbe trovato nel caso di dibattere se dovesse ricevere un tal uomo: sarebbe andato a cercarlo. Fatelo entrar subito: ha giĂ aspettato troppo.â

Il cappellano si mosse, dicendo tra sè: â non câè rimedio: tutti questi santi sono ostinati. â
Aperto lâuscio, e affacciatosi alla stanza dovâera il signore e la brigata, vide questa ristretta in una parte, a bisbigliare e a guardar di sottâocchio quello, lasciato solo in un canto. Sâavviò verso di lui; e intanto squadrandolo, come poteva, con la coda dellâocchio, andava pensando che diavolo dâarmeria poteva esser nascosta sotto quella casacca; e che, veramente, prima dâintrodurlo, avrebbe dovuto proporgli almeno… ma non si seppe risolvere. Gli sâaccostò, e disse: âmonsignore aspetta vossignoria. Si contenti di venir con me.â E precedendolo in quella piccola folla, che subito fece ala, dava a destra e a sinistra occhiate, le quali significavano: cosa volete? non lo sapete anche voi altri, che fa sempre a modo suo?

Appena introdotto lâinnominato, Federigo gli andò incontro, con un volto premuroso e sereno, e con le braccia aperte, come a una persona desiderata, e fece subito cenno al cappellano che uscisse: il quale ubbidĂŹ.
I due rimasti stettero alquanto senza parlare, e diversamente sospesi. Lâinnominato, châera stato come portato lĂŹ per forza da una smania inesplicabile, piuttosto che condotto da un determinato disegno, ci stava anche come per forza, straziato da due passioni opposte, quel desiderio e quella speranza confusa di trovare un refrigerio al tormento interno, e dallâaltra parte una stizza, una vergogna di venir lĂŹ come un pentito, come un sottomesso, come un miserabile, a confessarsi in colpa, a implorare un uomo: e non trovava parole, nè quasi ne cercava. Però, alzando gli occhi in viso a quellâuomo, si sentiva sempre piĂš penetrare da un sentimento di venerazione imperioso insieme e soave, che, aumentando la fiducia, mitigava il dispetto, e senza prender lâorgoglio di fronte, lâabbatteva, e, dirò cosĂŹ, glâimponeva silenzio.
La presenza di Federigo era infatti di quelle che annunziano una superioritĂ , e la fanno amare. Il portamento era naturalmente composto, e quasi involontariamente maestoso, non incurvato nè impigrito punto dagli anni; lâocchio grave e vivace, la fronte serena e pensierosa; con la canizie, nel pallore, tra i segni dellâastinenza, della meditazione, della fatica, una specie di floridezza verginale: tutte le forme del volto indicavano che, in altre etĂ , câera stata quella che piĂš propriamente si chiama bellezza; lâabitudine deâ pensieri solenni e benevoli, la pace interna dâuna lunga vita, lâamore degli uomini, la gioia continua dâuna speranza ineffabile, vi avevano sostituita una, direi quasi, bellezza senile, che spiccava ancor piĂš in quella magnifica semplicitĂ della porpora.
Tenne anche lui, qualche momento, fisso nellâaspetto dellâinnominato il suo sguardo penetrante, ed esercitato da lungo tempo a ritrarre dai sembianti i pensieri; e, sotto a quel fosco e a quel turbato, parendogli di scoprire sempre piĂš qualcosa di conforme alla speranza da lui concepita al primo annunzio dâuna tal visita, tuttâanimato, âoh!â disse: âche preziosa visita è questa! e quanto vi devo esser grato dâuna sĂŹ buona risoluzione; quantunque per me abbia un poâ del rimprovero!â
âRimprovero!â esclamò il signore maravigliato, ma raddolcito da quelle parole e da quel fare, e contento che il cardinale avesse rotto il ghiaccio, e avviato un discorso qualunque.
âCerto, mâè un rimprovero,â riprese questo, âchâio mi sia lasciato prevenir da voi; quando, da tanto tempo, tante volte, avrei dovuto venir da voi io.â
âDa me, voi! Sapete chi sono? Vâhanno detto bene il mio nome?â
âE questa consolazione châio sento, e che, certo, vi si manifesta nel mio aspetto, vi par egli châio dovessi provarla allâannunzio, alla vista dâuno sconosciuto? Siete voi che me la fate provare; voi, dico, che avrei dovuto cercare; voi che almeno ho tanto amato e pianto, per cui ho tanto pregato; voi, deâ miei figli, che pure amo tutti e di cuore, quello che avrei piĂš desiderato dâaccogliere e dâabbracciare, se avessi creduto di poterlo sperare. Ma Dio sa fare Egli solo le maraviglie, e supplisce alla debolezza, alla lentezza deâ suoi poveri servi.â
Lâinnominato stava attonito a quel dire cosĂŹ infiammato, a quelle parole, che rispondevano tanto risolutamente a ciò che non aveva ancor detto, nè era ben determinato di dire; e commosso ma sbalordito, stava in silenzio. âE che?â riprese, ancor piĂš affettuosamente, Federigo: âvoi avete una buona nuova da darmi, e me la fate tanto sospirare?â

âUna buona nuova, io? Ho lâinferno nel cuore; e vi darò una buona nuova? Ditemi voi, se lo sapete, qual è questa buona nuova che aspettate da un par mio.â
âChe Dio vâha toccato il cuore, e vuol farvi suo,â rispose pacatamente il cardinale.
âDio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dovâè questo Dio?â
âVoi me lo domandate? voi? E chi piĂš di voi lâha vicino? Non ve lo sentite in cuore, che vâopprime, che vâagita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo vâattira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, dâuna consolazione che sarĂ piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, lâimploriate?â
âOh, certo! ho qui qualche cosa che mâopprime, che mi rode! Ma Dio! Se câè questo Dio, se è quello che dicono, cosa volete che faccia di me?â
Queste parole furon dette con un accento disperato; ma Federigo, con un tono solenne, come di placida ispirazione, rispose: âcosa può far Dio di voi? cosa vuol farne? Un segno della sua potenza e della sua bontĂ : vuol cavar da voi una gloria che nessun altro gli potrebbe dare. Che il mondo gridi da tanto tempo contro di voi, che mille e mille voci detestino le vostre opere…â (lâinnominato si scosse, e rimase stupefatto un momento nel sentir quel linguaggio cosĂŹ insolito, piĂš stupefatto ancora di non provarne sdegno, anzi quasi un sollievo); âche gloria,â proseguiva Federigo, âne viene a Dio? Son voci di terrore, son voci dâinteresse; voci forse anche di giustizia, ma dâuna giustizia cosĂŹ facile, cosĂŹ naturale! alcune forse, pur troppo, dâinvidia di codesta vostra sciagurata potenza, di codesta, fino ad oggi, deplorabile sicurezza dâanimo. Ma quando voi stesso sorgerete a condannare la vostra vita, ad accusar voi stesso, allora! allora Dio sarĂ glorificato! E voi domandate cosa Dio possa far di voi? Chi son io poverâuomo, che sappia dirvi fin dâora che profitto possa ricavar da voi un tal Signore? cosa possa fare di codesta volontĂ impetuosa, di codesta imperturbata costanza, quando lâabbia animata, infiammata dâamore, di speranza, di pentimento? Chi siete voi, poverâuomo, che vi pensiate dâaver saputo da voi immaginare e fare cose piĂš grandi nel male, che Dio non possa farvene volere e operare nel bene? Cosa può Dio far di voi? E perdonarvi? e farvi salvo? e compire in voi lâopera della redenzione? Non son cose magnifiche e degne di Lui? Oh pensate! se io omiciattolo, io miserabile, e pur cosĂŹ pieno di me stesso, io qual mi sono, mi struggo ora tanto della vostra salute, che per essa darei con gaudio (Egli mâè testimonio) questi pochi giorni che mi rimangono; oh pensate! quanta, quale debba essere la caritĂ di Colui che mâinfonde questa cosĂŹ imperfetta, ma cosĂŹ viva; come vi ami, come vi voglia Quello che mi comanda e mâispira un amore per voi che mi divora!â
A misura che queste parole uscivan dal suo labbro, il volto, lo sguardo, ogni moto ne spirava il senso. La faccia del suo ascoltatore, di stravolta e convulsa, si fece da principio attonita e intenta; poi si compose a una commozione piĂš profonda e meno angosciosa; i suoi occhi, che dallâinfanzia piĂš non conoscevan le lacrime, si gonfiarono; quando le parole furon cessate, si coprĂŹ il viso con le mani, e diede in un dirotto pianto, che fu come lâultima e piĂš chiara risposta.
âDio grande e buono!â esclamò Federigo, alzando gli occhi e le mani al cielo: âche ho mai fatto io, servo inutile, pastore sonnolento, perchè Voi mi chiamaste a questo convito di grazia, perchè mi faceste degno dâassistere a un sĂŹ giocondo prodigio!â CosĂŹ dicendo, stese la mano a prender quella dellâinnominato.
âNo!â gridò questo, âno! lontano, lontano da me voi: non lordate quella mano innocente e benefica. Non sapete tutto ciò che ha fatto questa che volete stringere.â
âLasciate,â disse Federigo, prendendola con amorevole violenza, âlasciate châio stringa codesta mano che riparerĂ tanti torti, che spargerĂ tante beneficenze, che solleverĂ tanti afflitti, che si stenderĂ disarmata, pacifica, umile a tanti nemici.â
âĂ troppo!â disse, singhiozzando, lâinnominato. âLasciatemi, monsignore; buon Federigo, lasciatemi. Un popolo affollato vâaspetta; tantâanime buone, tantâinnocenti, tanti venuti da lontano, per vedervi una volta, per sentirvi: e voi vi trattenete… con chi!â
âLasciamo le novantanove pecorelle,â rispose il cardinale: âsono in sicuro sul monte: io voglio ora stare con quella châera smarrita. Quellâanime son forse ora ben piĂš contente, che di vedere questo povero vescovo. Forse Dio, che ha operato in voi il prodigio della misericordia, diffonde in esse una gioia di cui non sentono ancora la cagione. Quel popolo è forse unito a noi senza saperlo: forse lo Spirito mette neâ loro cuori un ardore indistinto di caritĂ , una preghiera châesaudisce per voi, un rendimento di grazie di cui voi siete lâoggetto non ancor conosciuto.â CosĂŹ dicendo, stese le braccia al collo dellâinnominato; il quale, dopo aver tentato di sottrarsi, e resistito un momento, cedette, come vinto da quellâimpeto di caritĂ , abbracciò anche lui il cardinale, e abbandonò sullâomero di lui il suo volto tremante e mutato. Le sue lacrime ardenti cadevano sulla porpora incontaminata di Federigo; e le mani incolpevoli di questo stringevano affettuosamente quelle membra, premevano quella casacca, avvezza a portar lâarmi della violenza e del tradimento.
Lâinnominato, sciogliendosi da quellâabbraccio, si coprĂŹ di nuovo gli occhi con una mano, e, alzando insieme la faccia, esclamò: âDio veramente grande! Dio veramente buono! io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquitĂ mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso; eppure…! eppure provo un refrigerio, una gioia, sĂŹ una gioia, quale non ho provata mai in tutta questa mia orribile vita!â
âĂ un saggio,â disse Federigo, âche Dio vi dĂ per cattivarvi al suo servizio, per animarvi ad entrar risolutamente nella nuova vita in cui avrete tanto da disfare, tanto da riparare, tanto da piangere!â
âMe sventurato!â esclamò il signore, âquante, quante…. cose, le quali non potrò se non piangere! Ma almeno ne ho dâintraprese, dâappena avviate, che posso, se non altro, rompere a mezzo: una ne ho, che posso romper subito, disfare, riparare.â
Federigo si mise in attenzione; e lâinnominato raccontò brevemente, ma con parole dâesecrazione anche piĂš forti di quelle che abbiamo adoprato noi, la prepotenza fatta a Lucia, i terrori, i patimenti della poverina, e come aveva implorato, e la smania che quellâimplorare aveva messa addosso a lui, e come essa era ancor nel castello….
âAh, non perdiam tempo!â esclamò Federigo, ansante di pietĂ e di sollecitudine. âBeato voi! Questo è pegno del perdono di Dio! far che possiate diventare strumento di salvezza a chi volevate esser di rovina. Dio vi benedica! Dio vâha benedetto! Sapete di dove sia questa povera nostra travagliata?â
Il signore nominò il paese di Lucia.
âNon è lontano di qui,â disse il cardinale: âlodato sia Dio; e probabilmente….â CosĂŹ dicendo, corse a un tavolino, e scosse un campanello. E subito entrò con ansietĂ il cappellano crocifero, e per la prima cosa, guardò lâinnominato; e vista quella faccia mutata, e quegli occhi rossi di pianto, guardò il cardinale; e sotto quellâinalterabile compostezza, scorgendogli in volto come un grave contento, e una premura quasi impaziente, era per rimanere estatico con la bocca aperta, se il cardinale non lâavesse subito svegliato da quella contemplazione, domandandogli se, tra i parrochi radunati lĂŹ, si trovasse quello di ***.
âCâè, monsignore illustrissimo,â rispose il cappellano.
âFatelo venir subito,â disse Federigo, âe con lui il parroco qui della chiesa.â
Il cappellano uscĂŹ, e andò nella stanza dovâeran queâ preti riuniti: tutti gli occhi si rivolsero a lui. Lui, con la bocca tuttavia aperta, col viso ancor tutto dipinto di quellâestasi, alzando le mani, e movendole per aria, disse: âsignori! signori! haec mutatio dexterae Excelsi.â E stette un momento senza dir altro. Poi, ripreso il tono e la voce della carica, soggiunse: âsua signoria illustrissima e reverendissima vuole il signor curato della parrocchia, e il signor curato di ***.â
Il primo chiamato venne subito avanti, e nello stesso tempo, uscĂŹ di mezzo alla folla un: âio?â strascicato, con unâintonazione di maraviglia.
âNon è lei il signor curato di ***?â riprese il cappellano.
âPer lâappunto; ma…â
âSua signoria illustrissima e reverendissima vuol lei.â
âMe?â disse ancora quella voce, significando chiaramente in quel monosillabo: come ci posso entrar io? Ma questa volta, insieme con la voce, venne fuori lâuomo, don Abbondio in persona, con un passo forzato, e con un viso tra lâattonito e il disgustato. Il cappellano gli fece un cenno con la mano, che voleva dire: a noi, andiamo; ci vuol tanto? E precedendo i due curati, andò allâuscio, lâaprĂŹ, e glâintrodusse.

Il cardinale lasciò andar la mano dellâinnominato, col quale intanto aveva concertato quello che dovevan fare; si discostò un poco, e chiamò con un cenno il curato della chiesa. Gli disse in succinto di che si trattava; e se saprebbe trovar subito una buona donna che volesse andare in una lettiga al castello, a prender Lucia: una donna di cuore e di testa, da sapersi ben governare in una spedizione cosĂŹ nuova, e usar le maniere piĂš a proposito, trovar le parole piĂš adattate, a rincorare, a tranquillizzare quella poverina, a cui, dopo tante angosce, e in tanto turbamento, la liberazione stessa poteva metter nellâanimo una nuova confusione. Pensato un momento, il curato disse che aveva la persona a proposito, e uscĂŹ. Il cardinale chiamò con un altro cenno il cappellano, al quale ordinò che facesse preparare subito la lettiga e i lettighieri, e sellare due mule. Uscito anche il cappellano, si voltò a don Abbondio.
Questo, che giĂ gli era vicino, per tenersi lontano da quellâaltro signore, e che intanto dava unâocchiatina di sotto in su ora allâuno ora allâaltro, seguitando a almanaccar tra sè che cosa mai potesse essere tutto quel rigirĂŹo, sâaccostò di piĂš, fece una riverenza, e disse: âmâhanno significato che vossignoria illustrissima mi voleva me; ma io credo che abbiano sbagliato.â
âNon hanno sbagliato,â rispose Federigo: âho una buona nuova da darvi, e un consolante, un soavissimo incarico. Una vostra parrocchiana, che avrete pianta per ismarrita, Lucia Mondella, è ritrovata, è qui vicino, in casa di questo mio caro amico; e voi anderete ora con lui, e con una donna che il signor curato di qui è andato a cercare, anderete, dico, a prendere quella vostra creatura, e lâaccompagnerete qui.â
Don Abbondio fece di tutto per nascondere la noia, che dico? lâaffanno e lâamaritudine che gli dava una tale proposta, o comando che fosse; e non essendo piĂš a tempo a sciogliere e a scomporre un versaccio giĂ formato sulla sua faccia, lo nascose, chinando profondamente la testa, in segno dâubbidienza. E non lâalzò che per fare un altro profondo inchino allâinnominato, con unâocchiata pietosa che diceva: sono nelle vostre mani: abbiate misericordia: parcere subjectis.
Gli domandò poi il cardinale, che parenti avesse Lucia.
âDi stretti, e con cui viva, o vivesse, non ha che la madre,â rispose don Abbondio.
âE questa si trova al suo paese?â
âMonsignor, sĂŹ.â
âGiacchè,â riprese Federigo, âquella povera giovine non potrĂ esser cosĂŹ presto restituita a casa sua, le sarĂ una gran consolazione di veder subito la madre: quindi, se il signor curato di qui non torna prima châio vada in chiesa, fatemi voi il piacere di dirgli che trovi un baroccio o una cavalcatura; e spedisca un uomo di giudizio a cercar quella donna, per condurla qui.â
âE se andassi io?â disse don Abbondio.
âNo, no, voi: vâho giĂ pregato dâaltro,â rispose il cardinale.
âDicevo,â replicò don Abbondio, âper disporre quella povera madre. Ă una donna molto sensitiva; e ci vuole uno che la conosca, e la sappia prendere per il suo verso, per non farle male in vece di bene.â
âE per questo, vi prego dâavvertire il signor curato che scelga un uomo di proposito: voi siete molto piĂš necessario altrove,â rispose il cardinale. E avrebbe voluto dire: quella povera giovine ha molto piĂš bisogno di veder subito una faccia conosciuta, una persona sicura, in quel castello, dopo tantâore di spasimo, e in una terribile oscuritĂ dellâavvenire. Ma questa non era ragione da dirsi cosĂŹ chiaramente davanti a quel terzo. Parve però strano al cardinale che don Abbondio non lâavesse intesa per aria, anzi pensata da sè; e cosĂŹ fuor di luogo gli parve la proposta e lâinsistenza, che pensò doverci esser sotto qualche cosa. Lo guardò in viso, e vi scoprĂŹ facilmente la paura di viaggiare con quellâuomo tremendo, dâandare in quella casa, anche per pochi momenti. Volendo quindi dissipare affatto quellâombre codarde, e non piacendogli di tirare in disparte il curato e di bisbigliar con lui in segreto, mentre il suo nuovo amico era lĂŹ in terzo, pensò che il mezzo piĂš opportuno era di far ciò che avrebbe fatto anche senza questo motivo, parlare allâinnominato medesimo; e dalle sue risposte don Abbondio intenderebbe finalmente che quello non era piĂš uomo da averne paura. Sâavvicinò dunque allâinnominato, e con quellâaria di spontanea confidenza, che si trova in una nuova e potente affezione, come in unâantica intrinsichezza, ânon crediate,â gli disse, âchâio mi contenti di questa visita per oggi. Voi tornerete, nâè vero? in compagnia di questo ecclesiastico dabbene?â
âSâio tornerò?â rispose lâinnominato: âquando voi mi rifiutaste, rimarrei ostinato alla vostra porta, come il povero. Ho bisogno di parlarvi! ho bisogno di sentirvi, di vedervi! ho bisogno di voi!â
Federigo gli prese la mano, gliela strinse, e disse: âfavorirete dunque di restare a desinare con noi. Vâaspetto. Intanto, io vo a pregare, e a render grazie col popolo; e voi a cogliere i primi frutti della misericordia.â
Don Abbondio, a quelle dimostrazioni, stava come un ragazzo pauroso, che veda uno accarezzar con sicurezza un suo cagnaccio grosso, rabbuffato, con gli occhi rossi, con un nomaccio famoso per morsi e per ispaventi, e senta dire al padrone che il suo cane è un buon bestione, quieto, quieto: guarda il padrone, e non contraddice nè approva; guarda il cane, e non ardisce accostarglisi, per timore che il buon bestione non gli mostri i denti, fosse anche per fargli le feste; non ardisce allontanarsi, per non farsi scorgere; e dice in cuor suo: oh se fossi a casa mia!
Al cardinale, che sâera mosso per uscire, tenendo sempre per la mano e conducendo seco lâinnominato, diede di nuovo nellâocchio il poverâuomo, che rimaneva indietro, mortificato, malcontento, facendo il muso senza volerlo. E pensando che forse quel dispiacere gli potesse anche venire dal parergli dâesser trascurato, e come lasciato in un canto, tanto piĂš in paragone dâun facinoroso cosĂŹ ben accolto, cosĂŹ accarezzato, se gli voltò nel passare, si fermò un momento, e con un sorriso amorevole, gli disse: âsignor curato, voi siete sempre con me nella casa del nostro buon Padre; ma questo… questo perierat, et inventus est.â
âOh quanto me ne rallegro!â disse don Abbondio, facendo una gran riverenza a tuttâe due in comune.
Lâarcivescovo andò avanti, spinse lâuscio, che fu subito spalancato di fuori da due servitori, che stavano uno di qua e uno di lĂ : e la mirabile coppia apparve agli sguardi bramosi del clero raccolto nella stanza. Si videro queâ due volti sui quali era dipinta una commozione diversa, ma ugualmente profonda; una tenerezza riconoscente, unâumile gioia nellâaspetto venerabile di Federigo; in quello dellâinnominato, una confusione temperata di conforto, un nuovo pudore, una compunzione, dalla quale però traspariva tuttavia il vigore di quella selvaggia e risentita natura. E si seppe poi, che a piĂš dâuno deâ riguardanti era allora venuto in mente quel detto dâIsaia: il lupo e lâagnello andranno ad un pascolo; il leone e il bue mangeranno insieme lo strame. Dietro veniva don Abbondio, a cui nessuno badò.

Quando furono nel mezzo della stanza, entrò dallâaltra parte lâaiutante di camera del cardinale, e gli sâaccostò, per dirgli che aveva eseguiti gli ordini comunicatigli dal cappellano; che la lettiga e le due mule eran preparate, e sâaspettava soltanto la donna che il curato avrebbe condotta. Il cardinale gli disse che, appena arrivato questo, lo facesse parlar subito con don Abbondio: e tutto poi fosse agli ordini di questo e dellâinnominato; al quale strinse di nuovo la mano, in atto di commiato, dicendo: â vâaspetto. â Si voltò a salutar don Abbondio, e sâavviò dalla parte che conduceva alla chiesa. Il clero gli andò dietro, tra in folla e in processione: i due compagni di viaggio rimasero soli nella stanza.
Stava lâinnominato tutto raccolto in sè, pensieroso, impaziente che venisse il momento dâandare a levar di pene e di carcere la sua Lucia: sua ora in un senso cosĂŹ diverso da quello che lo fosse il giorno avanti: e il suo viso esprimeva unâagitazione concentrata, che allâocchio ombroso di don Abbondio poteva facilmente parere qualcosa di peggio. Lo sogguardava, avrebbe voluto attaccare un discorso amichevole; ma, â cosa devo dirgli? â pensava: â devo dirgli ancora: mi rallegro? Mi rallegro di che? che essendo stato finora un demonio, vi siate finalmente risoluto di diventare un galantuomo come gli altri? Bel complimento! Eh eh eh! in qualunque maniera io le rigiri, le congratulazioni non vorrebbero dir altro che questo. E se sarĂ poi vero che sia diventato galantuomo: cosĂŹ a un tratto! Delle dimostrazioni se ne fanno tante a questo mondo, e per tante cagioni! Che so io, alle volte? E intanto mi tocca a andar con lui! in quel castello! Oh che storia! che storia! che storia! Chi me lâavesse detto stamattina! Ah, se posso uscirne a salvamento, mâha da sentire la signora Perpetua, dâavermi cacciato qui per forza, quando non câera necessitĂ , fuor della mia pieve: e che tutti i parrochi dâintorno accorrevano, anche piĂš da lontano; e che non bisognava stare indietro; e che questo, e che questâaltro; e imbarcarmi in un affare di questa sorte! Oh povero me! Eppure qualcosa bisognerĂ dirgli a costui. â E pensa e ripensa, aveva trovato che gli avrebbe potuto dire: non mi sarei mai aspettato questa fortuna dâincontrarmi in una cosĂŹ rispettabile compagnia; e stava per aprir bocca, quando entrò lâaiutante di camera, col curato del paese, il quale annunziò che la donna era pronta nella lettiga; e poi si voltò a don Abbondio, per ricevere da lui lâaltra commissione del cardinale. Don Abbondio se ne sbrigò come potè, in quella confusione di mente; e accostatosi poi allâaiutante, gli disse: â mi dia almeno una bestia quieta; perchè, dico la veritĂ , sono un povero cavalcatore. â
â Si figuri, â rispose lâaiutante, con un mezzo sogghigno: â è la mula del segretario, che è un letterato. â
â Basta… â replicò don Abbondio, e continuò pensando: â il cielo me la mandi buona. â
Il signore sâera incamminato di corsa, al primo avviso: arrivato allâuscio, sâaccorse di don Abbondio, châera rimasto indietro. Si fermò ad aspettarlo; e quando questo arrivò frettoloso, in aria di chieder perdono, lâinchinò, e lo fece passare avanti, con un atto cortese e umile: cosa che raccomodò alquanto lo stomaco al povero tribolato. Ma appena messo piede nel cortiletto, vide unâaltra novitĂ che gli guastò quella poca consolazione; vide lâinnominato andar verso un canto, prender per la canna, con una mano, la sua carabina, poi per la cigna con lâaltra, e, con un movimento spedito, come se facesse lâesercizio, mettersela ad armacollo.
â Ohi! ohi! ohi! â pensò don Abbondio: â cosa vuol farne di quellâordigno, costui? Bel cilizio, bella disciplina da convertito! E se gli salta qualche grillo? Oh che spedizione! oh che spedizione! â

Se quel signore avesse potuto appena sospettare che razza di pensieri passavano per la testa al suo compagno, non si può dire cosa avrebbe fatto per rassicurarlo; ma era lontano le mille miglia da un tal sospetto; e don Abbondio stava attento a non far nessun atto che significasse chiaramente: non mi fido di vossignoria. Arrivati allâuscio di strada, trovarono le due cavalcature in ordine: lâinnominato saltò su quella che gli fu presentata da un palafreniere.
â Vizi non ne ha? â – disse allâaiutante di camera don Abbondio, rimettendo in terra il piede, che aveva giĂ alzato verso la staffa.
â Vada pur su di buon animo: è un agnello. â Don Abbondio, arrampicandosi alla sella, sorretto dallâaiutante, su, su, su, è a cavallo.

La lettiga, châera innanzi qualche passo, portata da due mule, si mosse, a una voce del lettighiero; e la comitiva partĂŹ.
Si doveva passar davanti alla chiesa piena zeppa di popolo, per una piazzetta piena anchâessa dâaltro popolo del paese e forestieri, che non avevan potuto entrare in quella. GiĂ la gran nuova era corsa; e allâapparir della comitiva, allâapparir di quellâuomo, oggetto ancor poche ore prima di terrore e dâesecrazione, ora di lieta maraviglia, sâalzò nella folla un mormorĂŹo quasi dâapplauso; e facendo largo, si faceva insieme alle spinte, per vederlo da vicino. La lettiga passò, lâinnominato passò; e davanti alla porta spalancata della chiesa, si levò il cappello, e chinò quella fronte tanto temuta, fin sulla criniera della mula, tra il susurro di cento voci che dicevano: Dio la benedica! Don Abbondio si levò anche lui il cappello, si chinò, si raccomandò al cielo; ma sentendo il concerto solenne deâ suoi confratelli che cantavano a distesa, provò unâinvidia, una mesta tenerezza, un accoramento tale, che durò fatica a tener le lacrime.

Fuori poi dellâabitato, nellâaperta campagna, negli andirivieni talvolta affatto deserti della strada, un velo piĂš nero si stese sui suoi pensieri. Altro oggetto non aveva su cui riposar con fiducia lo sguardo, che il lettighiero, il quale, essendo al servizio del cardinale, doveva essere certamente un uomo dabbene, e insieme non aveva aria dâimbelle. Ogni tanto, comparivano viandanti, anche a comitive, che accorrevano per vedere il cardinale; ed era un ristoro per don Abbondio; ma passeggiero, ma sâandava verso quella valle tremenda, dove non sâincontrerebbe che sudditi dellâamico: e che sudditi! Con lâamico avrebbe desiderato ora piĂš che mai dâentrare in discorso, tanto per tastarlo sempre piĂš, come per tenerlo in buona; ma vedendolo cosĂŹ soprappensiero, gliene passava la voglia. Dovette dunque parlar con se stesso; ed ecco una parte di ciò che il poverâuomo si disse in quel tragitto: chè, a scriver tutto, ci sarebbe da farne un libro.
â Ă un gran dire che tanto i santi come i birboni gli abbiano a aver lâargento vivo addosso, e non si contentino dâesser sempre in moto loro, ma voglian tirare in ballo, se potessero, tutto il genere umano; e che i piĂš faccendoni mi devan proprio venire a cercar me, che non cerco nessuno, e tirarmi per i capelli neâ loro affari: io che non chiedo altro che dâesser lasciato vivere! Quel matto birbone di don Rodrigo! Cosa gli mancherebbe per esser lâuomo il piĂš felice di questo mondo, se avesse appena un pochino di giudizio? Lui ricco, lui giovine, lui rispettato, lui corteggiato: gli dĂ noia il bene stare; e bisogna che vada accattando guai per sè e per gli altri. Potrebbe far lâarte di Michelaccio; no signore: vuol fare il mestiere di molestar le femmine: il piĂš pazzo, il piĂš ladro, il piĂš arrabbiato mestiere di questo mondo; potrebbe andare in paradiso in carrozza, e vuol andare a casa del diavolo a piè zoppo. E costui…! â E qui lo guardava, come se avesse sospetto che quel costui sentisse i suoi pensieri, â costui, dopo aver messo sottosopra il mondo con le scelleratezze, ora lo mette sottosopra con la conversione… se sarĂ vero. Intanto tocca a me a farne lâesperienza!… Ă finita: quando son nati con quella smania in corpo, bisogna che faccian sempre fracasso. Ci vuol tanto a fare il galantuomo tutta la vita, comâho fattâio? No signore: si deve squartare, ammazzare, fare il diavolo… oh povero me!… e poi uno scompiglio, anche per far penitenza. La penitenza, quando sâha buona volontĂ , si può farla a casa sua, quietamente, senza tantâapparato, senza dar tantâincomodo al prossimo. E sua signoria illustrissima, subito subito, a braccia aperte, caro amico, amico caro; stare a tutto quel che gli dice costui, come se lâavesse visto far miracoli; e prendere addirittura una risoluzione, mettercisi dentro con le mani e coâ piedi, presto di qua, presto di lĂ : a casa mia si chiama precipitazione. E senza avere una minima caparra, dargli in mano un povero curato! questo si chiama giocare un uomo a pari e caffo. Un vescovo santo, comâè lui, deâ curati dovrebbe esserne geloso, come della pupilla degli occhi suoi. Un pochino di flemma, un pochino di prudenza, un pochino di caritĂ , mi pare che possa stare anche con la santitĂ … E se fosse tutto unâapparenza? Chi può conoscer tutti i fini degli uomini? e dico degli uomini come costui? A pensare che mi tocca a andar con lui, a casa sua! Ci può esser sotto qualche diavolo: oh povero me! è meglio non ci pensare. Che imbroglio è questo di Lucia? Che ci fosse unâintesa con don Rodrigo? che gente! ma almeno la cosa sarebbe chiara. Ma come lâha avuta nellâunghie costui? Chi lo sa? Ă tutto un segreto con monsignore: e a me che mi fanno trottare in questa maniera, non si dice nulla. Io non mi curo di sapere i fatti degli altri; ma quando uno ci ha a metter la pelle, ha anche ragione di sapere. Se fosse proprio per andare a prendere quella povera creatura, pazienza! Benchè, poteva ben condurla con sè addirittura. E poi, se è cosĂŹ convertito, se è diventato un santo padre, che bisogno câera di me? Oh che caos! Basta; voglia il cielo che la sia cosĂŹ: sarĂ stato un incomodo grosso, ma pazienza! Sarò contento anche per quella povera Lucia: anche lei deve averla scampata grossa; sa il cielo cosâha patito: la compatisco; ma è nata per la mia rovina… Almeno potessi vedergli proprio in cuore a costui, come la pensa. Chi lo può conoscere? Ecco lĂŹ, ora pare santâAntonio nel deserto; ora pare Oloferne in persona. Oh povero me! povero me! Basta: il cielo è in obbligo dâaiutarmi, perchè non mi ci son messo io di mio capriccio. â
Infatti, sul volto dellâinnominato si vedevano, per dir cosĂŹ, passare i pensieri, come, in unâora burrascosa, le nuvole trascorrono dinanzi alla faccia del sole, alternando ogni momento una luce arrabbiata e un freddo buio. Lâanimo, ancor tutto inebriato dalle soavi parole di Federigo, e come rifatto e ringiovanito nella nuova vita, sâelevava a quellâidee di misericordia, di perdono e dâamore; poi ricadeva sotto il peso del terribile passato. Correva con ansietĂ a cercare quali fossero le iniquitĂ riparabili, cosa si potesse troncare a mezzo, quali i rimedi piĂš espedienti e piĂš sicuri, come scioglier tanti nodi, che fare di tanti complici: era uno sbalordimento a pensarci. A quella stessa spedizione, châera la piĂš facile e cosĂŹ vicina al termine, andava con unâimpazienza mista dâangoscia, pensando che intanto quella creatura pativa, Dio sa quanto, e che lui, il quale pure si struggeva di liberarla, era lui che la teneva intanto a patire. Dove câeran due strade, il lettighiero si voltava, per saper quale dovesse prendere: lâinnominato glielâindicava con la mano, e insieme accennava di far presto.
Entrano nella valle. Come stava allora il povero don Abbondio! Quella valle famosa, della quale aveva sentito raccontar tante storie orribili, esserci dentro: queâ famosi uomini, il fiore della braveria dâItalia, quegli uomini senza paura e senza misericordia, vederli in carne e in ossa; incontrarne uno o due o tre a ogni voltata di strada. Si chinavano sommessamente al signore; ma certi visi abbronzati! certi baffi irti! certi occhiacci, che a don Abbondio pareva che volessero dire: fargli la festa a quel prete?

A segno che, in un punto di somma costernazione, gli venne detto tra sè: â gli avessi maritati! non mi poteva accader di peggio. â Intanto sâandava avanti per un sentiero sassoso, lungo il torrente: al di lĂ quel prospetto di balze aspre, scure, disabitate; al di qua quella popolazione da far parer desiderabile ogni deserto: Dante non istava peggio nel mezzo di Malebolge.
Passan davanti la Malanotte; bravacci sullâuscio, inchini al signore, occhiate al suo compagno e alla lettiga. Coloro non sapevan cosa si pensare: giĂ la partenza dellâinnominato solo, la mattina, aveva dello straordinario; il ritorno non lo era meno. Era una preda che conduceva? E come lâaveva fatta da sè? E come una lettiga forestiera? E di chi poteva esser quella livrea? Guardavano, guardavano, ma nessuno si moveva, perchè questo era lâordine che il padrone dava loro con dellâocchiate.
Fanno la salita, sono in cima. I bravi che si trovan sulla spianata e sulla porta, si ritirano di qua e di lĂ , per lasciare il passo libero: lâinnominato fa segno che non si movan di piĂš; sprona, e passa davanti alla lettiga; accenna al lettighiero e a don Abbondio che lo seguano; entra in un primo cortile, da quello in un secondo; va verso un usciolino, fa stare indietro con un gesto un bravo che accorreva per tenergli la staffa, e gli dice: â tu staâ costĂŹ, e non venga nessuno.â Smonta, lega in fretta la mula a unâinferriata, va alla lettiga, sâaccosta alla donna, che aveva tirata la tendina, e le dice sottovoce: â consolatela subito; fatele subito capire che è libera, in mano dâamici. Dio ve ne renderĂ merito. â Poi fa cenno al lettighiero, che apra; poi sâavvicina a don Abbondio, e, con un sembiante cosĂŹ sereno come questo non gliel aveva ancor visto, nĂŠ credeva che lo potesse avere, con dipintavi la gioia dellâopera buona che finalmente stava per compire, gli dice, ancora sotto voce: â signor curato, non le chiedo scusa dellâincomodo che ha per cagion mia: lei lo fa per Uno che paga bene, e per questa sua poverina. â Ciò detto, prende con una mano il morso, con lâaltra la staffa, per aiutar don Abbondio a scendere.
Quel volto, quelle parole, quellâatto, gli avevan dato la vita. Mise un sospiro, che da unâora gli sâaggirava dentro, senza mai trovar lâuscita; si chinò verso lâinnominato, rispose a voce bassa bassa: âle pare? Ma, ma, ma, ma,…! â e sdrucciolò alla meglio dalla sua cavalcatura. Lâinnominato legò anche quella, e detto al lettighiero che stesse lĂŹ a aspettare, si levò una chiave di tasca, aprĂŹ lâuscio, entrò, fece entrare il curato e la donna, sâavviò davanti a loro alla scaletta; e tuttâe tre salirono in silenzio.
