
Il capitolo terzo dei Promessi Sposi
28 Dicembre 2019
I discendenti di Enea, prima parte, Eneide, VI, 752-797
28 Dicembre 2019📚 Analisi del Capitolo II de ‘I Promessi Sposi’
Il Capitolo II de I Promessi Sposi prosegue e approfondisce la dinamica del sopruso già introdotta nel capitolo precedente, concentrandosi sulle reazioni dei protagonisti di fronte all’intimazione di Don Rodrigo. Manzoni esplora con finezza psicologica la viltà di Don Abbondio, la furia impotente di Renzo e la pudica sofferenza di Lucia, mettendo in scena il primo vero scontro tra l’innocenza degli umili e la prepotenza del potere, e avviando la catena di eventi che costringerà i promessi sposi a lasciare il loro paese.
1. Il Terrore di Don Abbondio e la Strategia del Rinvio
Il capitolo si apre con una vivida descrizione della notte angosciosa di Don Abbondio. Manzoni introduce un celebre paragone con il principe di Condé, che dormì serenamente prima della battaglia di Rocroi perché aveva già preso tutte le decisioni. Don Abbondio, al contrario, trascorre la notte in “consulte angosciose”, non avendo ancora stabilito nulla se non la certezza di una “battaglia” incombente. Questo paragone iniziale non è solo un topos retorico, ma un efficace strumento per sottolineare la natura vile e inetta del curato, la sua incapacità di prendere decisioni di fronte al pericolo e la sua cronica paura.
Le sue “consulte angosciose” rivelano i partiti che egli rifiuta:
- Celebrare il matrimonio: Un’opzione subito scartata per il terrore delle minacce dei Bravi. Il rimbombo di quell’ “ehm!” nella sua mente è una prova della sua profonda codardia.
- Confidare a Renzo l’accaduto: Temeva la reazione violenta di Renzo e le possibili conseguenze per sé.
- Fuggire: Considerata troppo “impicci” e “conti da rendere”.
La soluzione che gli sembra “il meglio o il men male” è la strategia del rinvio: guadagnare tempo, “menando Renzo per le lunghe”, sfruttando il tempo proibito per le nozze (la Quaresima) come scusa. Il suo cinico pensiero (“egli pensa alla morosa; ma io penso alla pelle: il più interessato son io, lasciando stare che sono il più accorto”) svela la sua assoluta priorità per la propria incolumità, a discapito del dovere pastorale e dei sentimenti dei promessi sposi. Il suo sonno tormentato, popolato da incubi di “Bravi, don Rodrigo, Renzo, viottole, rupi, fughe, inseguimenti, grida, schioppettate”, è la rappresentazione fisica della sua angoscia e del suo senso di colpa, pur non arrivando mai a una vera presa di coscienza morale.
2. L’Ingenuo Entusiasmo di Renzo e il Confronto con Don Abbondio
L’arrivo di Renzo, “con la lieta furia d’un uomo di vent’anni, che deve in quel giorno sposare quella che ama”, crea un fortissimo contrasto con la figura angosciata e incerta di Don Abbondio. Questa opposizione è subito evidenziata dalla descrizione fisica e psicologica di Renzo:
- Ritratto Sociale: Manzoni lo presenta come un “filatore di seta”, una professione un tempo lucrosa ma già in declino, e proprietario di un “poderetto”. È un uomo laborioso, onesto e “agiato” per la sua condizione, non colpito dalla carestia imminente. È un rappresentante del popolo laborioso, non ancora corrotto dalla violenza o dalla miseria.
- Abitudini e Aspetto: La sua “gran gala” con “penne di vario colore al cappello” e il “pugnale del manico bello” esprimono la sua gioia per il matrimonio e una certa “braverìa” comune all’epoca.
- Carattere: Renzo è risoluto, diretto, animato da una “lieta furia”. Il suo ottimismo e la sua ingenuità sono evidenti nel suo non cogliere subito l’inquietudine di Don Abbondio.
Il colloquio tra Renzo e Don Abbondio è un capolavoro di drammatizzazione psicologica e linguistica:
- La Tattica Evasiva di Don Abbondio: Il curato utilizza ogni sotterfugio per rinviare il matrimonio: finge malesseri (“non mi sento bene”), accenna a generici “imbrogli”, si lamenta di essere “tra l’ancudine e il martello” (tra Renzo e i “superiori”), e si rifugia nel “latinorum” (“Error, conditio, votum…”) per confondere Renzo. Il suo parlare è “stentato insieme e impaziente”, i suoi “occhi grigi… eran sempre andati scappando qua e là, come se avesser avuto paura d’incontrarsi con le parole che gli uscivan di bocca”. È un uomo che mente per paura, ma che non ha la capacità di mentire con convinzione.
- La Crescente Esasperazione di Renzo: Renzo, inizialmente rispettoso, diventa via via sempre più “alterato”, “attonito e adirato”, finché la sua furia, seppur contenuta, si manifesta nel “battere il pugno nell’aria”. La sua reazione è quella dell’uomo semplice che si scontra con l’ostruzionismo e la menzogna, senza comprenderne la vera causa.
Il dialogo si conclude con il rinvio di una settimana, frutto della viltà di Don Abbondio e della sua incapacità di essere diretto. Renzo, pur promettendo pazienza, se ne va con un “inchino men profondo del solito, e dandogli un’occhiata più espressiva che riverente”, presagio della sua crescente intuizione del “mistero” sottostante.
3. L’Intervento di Perpetua e la Rivelazione del Sopruso
L’intuizione di Renzo che “ci fosse sotto un mistero diverso” lo spinge a cercare conferma da Perpetua. La sua figura di serva ficcanaso e pettegola è funzionale a rivelare la verità, seppur involontariamente.
- Il Ruolo di Perpetua: Inizialmente fedele al suo padrone e reticente a parlare (“non posso dir niente, perché… non so niente”), Perpetua tradisce involontariamente il segreto a causa del suo carattere volubile e della sua loquacità. Le sue espressioni (“Mala cosa nascer povero”, “il mio padrone non vuol far torto… lui non ci ha colpa”, “C’è bene a questo mondo de’ birboni, de’ prepotenti, degli uomini senza timor di Dio…”) sono sufficienti a dare a Renzo gli indizi che cerca. La sua retorica difensiva si trasforma in accusa velata, come già nel capitolo I.
- La Scoperta di Renzo: Le parole di Perpetua, in particolare l’accenno ai “prepotenti”, accendono la lampadina nella mente di Renzo. La sua “agitazione crescente” lo spinge a tornare indietro e a mettere alle strette Don Abbondio.
- La Scena Climax: Il secondo colloquio tra Renzo e Don Abbondio è il climax del capitolo. Renzo entra con “fare ardito, e con gli occhi stralunati”, risoluto a ottenere una risposta. Don Abbondio, colto di sorpresa, diventa “bianco e floscio, come un cencio che esca del bucato”, e tenta la fuga, bloccato da Renzo che chiude a chiave la porta. La scena assume toni quasi violenti: Renzo, con la mano sul manico del coltello, strappa la confessione a un Don Abbondio terrorizzato, che a fatica proferisce il nome: “Don Rodrigo!”. Questa è la rivelazione del sopruso, il nome del nemico che darà il via a tutti gli eventi futuri del romanzo.
4. La Reazione di Renzo e la Sofferenza di Lucia
La rivelazione del nome di Don Rodrigo scatena in Renzo una reazione violenta e complessa:
- Furore Omicida: Inizialmente, il suo cuore “non batteva che per l’omicidio”, la sua mente “era occupata che a fantasticare un tradimento”. Si immagina di assaltare la casa di Don Rodrigo o di tendergli un agguato con lo schioppo. Manzoni sottolinea che Renzo, un “giovine pacifico e alieno dal sangue”, è spinto al “pervertimento” dall’ingiustizia subita, mostrando come il sopruso possa corrompere anche le anime più schiette. Questo si lega alla “Storia della colonna infame” (v. La Storia della colonna infame e la responsabilità degli uomini), dove l’ingiustizia e la paura possono portare al “pervertimento” delle anime.
- Il Richiamo di Lucia e della Fede: L’immagine di Lucia si “getta a traverso di quelle bieche fantasie”, richiamando i “migliori pensieri” di Renzo: il ricordo dei parenti, di Dio, della Madonna e dei santi. Questo lo “risveglia da quel sogno di sangue”, con “ispavento, con rimorso, e insieme con una specie di gioia di non aver fatto altro che immaginare”. È un momento di cruciale maturazione morale e religiosa, in cui la fede e l’amore per Lucia lo distolgono dalla violenza.
Nel frattempo, Lucia è presentata nel suo splendore di sposa:
- Ritratto della Sposa Contadina: Manzoni la descrive “tutta attillata dalle mani della madre”, con i capelli acconciati, il vezzo di granati, il busto di broccato e la gonnella di seta. Il suo aspetto è quello di una “modesta bellezza”, accresciuta dalla “gioia temperata da un turbamento leggiero” e dal “placido accoramento che si mostra di quand’in quando sul volto delle spose”. Questo ritratto idilliaco contrasta drammaticamente con la notizia che sta per ricevere.
- La Sofferenza Pudica e la Comprensione Immediata: Lucia riceve la notizia da Renzo con “angoscia”, e quando sente il nome di Don Rodrigo, “arrossì e tremò”, esclamando: “fino a questo segno!”. La sua reazione immediata (“Pur troppo! ma a questo segno!”) conferma a Renzo che lei sapeva del desiderio di Don Rodrigo, ma non della sua determinazione a impedire il matrimonio. Il suo arrossire e tremare, la sua reticenza a parlare (“Non mi fate ora parlare, non mi fate piangere”) e l’implorazione di “correre a chiamar mia madre, e a licenziar le donne” rivelano la sua profonda vergogna, la sua umiliazione e il suo desiderio di proteggere la propria intimità dal clamore pubblico. La sua dignità le impedisce di rivelare subito i dettagli del sopruso. La sua intenzione (“potete voi dubitare ch’io abbia taciuto se non per motivi giusti e puri?”) chiarisce a Renzo la purezza del suo silenzio.
Il capitolo si conclude con le donne che, ignare della vera portata del dramma, si “sparpagliano a raccontar l’accaduto”, alimentando le congetture. Don Abbondio, in preda alla febbre (vera o presunta, ma sicuramente psicosomatica), si mette a letto, lasciando i promessi sposi soli con il loro dramma e la consapevolezza del sopruso.
Temi e Significati del Capitolo II
Il Capitolo II è fondamentale per lo sviluppo del romanzo per diversi motivi:
- Il Male in Azione: Il sopruso di Don Rodrigo si manifesta concretamente, mettendo in moto la trama e mostrando la fragilità della giustizia e la viltà degli uomini di fronte alla prepotenza (Don Abbondio).
- La Crisi e la Maturazione: Renzo e Lucia sono gettati in una crisi profonda. Per Renzo, è l’inizio di un percorso di maturazione che lo porterà a controllare i suoi istinti violenti e a rafforzare la sua fede. Per Lucia, è la conferma della sua sofferenza e della sua fiducia nella Provvidenza.
- La Lingua Manzoniana: Il capitolo mostra la maestria di Manzoni nell’alternare registri stilistici: dalla narrazione oggettiva, all’analisi psicologica dei personaggi (con i loro monologhi interiori), ai dialoghi serrati e realistici, fino all’ironia che pervade il ritratto di Don Abbondio. Il “latinorum” di Don Abbondio è un esempio emblematico di come Manzoni utilizzi il linguaggio anche per caratterizzare i personaggi e i loro limiti culturali.
- L’Impatto della Storia sulla Vita degli Umili: Il capitolo mostra come un singolo atto di prepotenza da parte di un potente possa sconvolgere completamente la vita degli umili, costringendoli a lasciare il proprio ambiente e a intraprendere un percorso incerto e doloroso.
In sintesi, il Capitolo II è il punto in cui la vicenda si complica irrimediabilmente, ma è anche il luogo in cui emergono con forza la fragilità e la resilienza umana di fronte all’ingiustizia, e dove si comincia a delineare il ruolo centrale della fede e della Provvidenza nel guidare i protagonisti.
Testo del secondo capitolo dei Promessi Sposi
CAPITOLO II.
Si racconta che il principe di Condè dormì profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi: ma, in primo luogo, era molto affaticato; secondariamente aveva già date tutte le disposizioni necessarie, e stabilito ciò che dovesse fare, la mattina. Don Abbondio in vece non sapeva altro ancora se non che l’indomani sarebbe giorno di battaglia; quindi una gran parte della notte fu spesa in consulte angosciose. Non far caso dell’intimazione ribalda, nè delle minacce, e fare il matrimonio, era un partito, che non volle neppur mettere in deliberazione. Confidare a Renzo l’occorrente, e cercar con lui qualche mezzo…. Dio liberi! “Non si lasci scappar parola…. altrimenti…. ehm!” aveva detto un di que’ bravi; e, al sentirsi rimbombar quell’ehm! nella mente, don Abbondio, non che pensare a trasgredire una tal legge, si pentiva anche dell’aver ciarlato con Perpetua. Fuggire? Dove? E poi! Quant’impicci, e quanti conti da rendere! A ogni partito che rifiutava, il pover’uomo si rivoltava nel letto. Quello che, per ogni verso, gli parve il meglio o il men male, fu di guadagnar tempo, menando Renzo per le lunghe. Si rammentò a proposito, che mancavan pochi giorni al tempo proibito per le nozze; — e, se posso tenere a bada, per questi pochi giorni, quel ragazzone, ho poi due mesi di respiro; e, in due mesi, può nascer di gran cose. — Ruminò pretesti da metter in campo; e, benché gli paressero un po’ leggieri, pur s’andava rassicurando col pensiero che la sua autorità gli avrebbe fatti parer di giusto peso, e che la sua antica esperienza gli darebbe gran vantaggio sur un giovanetto ignorante. — Vedremo, — diceva tra sé: — egli pensa alla morosa; ma io penso alla pelle: il più interessato son io, lasciando stare che sono il più accorto. Figliuol caro, se tu ti senti il bruciore addosso, non so che dire; ma io non voglio andarne di mezzo. — Fermato così un poco l’animo a una deliberazione, potè finalmente chiuder occhio: ma che sonno! che sogni! Bravi, don Rodrigo, Renzo, viottole, rupi, fughe, inseguimenti, grida, schioppettate.

Il primo svegliarsi, dopo una sciagura, e in un impiccio, è un momento molto amaro. La mente, appena risentita, ricorre all’idee abituali della vita tranquilla antecedente; ma il pensiero del nuovo stato di cose le si affaccia subito sgarbatamente; e il dispiacere ne è più vivo in quel paragone istantaneo. Assaporato dolorosamente questo momento, don Abbondio ricapitolò subito i suoi disegni della notte, si confermò in essi, gli ordinò meglio, s’alzò, e stette aspettando Renzo con timore e, ad un tempo, con impazienza.
Lorenzo o, come dicevan tutti, Renzo non si fece molto aspettare.

Appena gli parve ora di poter, senza indiscrezione, presentarsi al curato, v’andò, con la lieta furia d’un uomo di vent’anni, che deve in quel giorno sposare quella che ama. Era, fin dall’adolescenza, rimasto privo de’ parenti, ed esercitava la professione di filatore di seta, ereditaria, per dir così, nella sua famiglia; professione, negli anni indietro, assai lucrosa; allora già in decadenza, ma non però a segno che un abile operaio non potesse cavarne di che vivere onestamente. Il lavoro andava di giorno in giorno scemando; ma l’emigrazione continua de’ lavoranti, attirati negli stati vicini da promesse, da privilegi e da grosse paghe, faceva sì che non ne mancasse ancora a quelli che rimanevano in paese. Oltre di questo, possedeva Renzo un poderetto che faceva lavorare e lavorava egli stesso, quando il filatoio stava fermo; di modo che, per la sua condizione, poteva dirsi agiato. E quantunque quell’annata fosse ancor più scarsa delle antecedenti, e già si cominciasse a provare una vera carestia, pure il nostro giovine, che, da quando aveva messi gli occhi addosso a Lucia, era divenuto massaio, si trovava provvisto bastantemente, e non aveva a contrastar con la fame. Comparve davanti a don Abbondio, in gran gala, con penne di vario colore al cappello, col suo pugnale del manico bello, nel taschino de’ calzoni, con una cert’aria di festa e nello stesso tempo di braverìa, comune allora anche agli uomini più quieti. L’accoglimento incerto e misterioso di don Abbondio fece un contrapposto singolare ai modi gioviali e risoluti del giovinotto.
— Che abbia qualche pensiero per la testa, — argomentò Renzo tra sé, poi disse: “son venuto, signor curato, per sapere a che ora le comoda che ci troviamo in chiesa.”
“Di che giorno volete parlare?”
“Come, di che giorno? non si ricorda che s’è fissato per oggi?”
“Oggi?” replicò don Abbondio, come se ne sentisse parlare per la prima volta. “Oggi, oggi… abbiate pazienza, ma oggi non posso.”
“Oggi non può! Cos’è nato?”
“Prima di tutto, non mi sento bene, vedete.”
“Mi dispiace; ma quello che ha da fare è cosa di così poco tempo, e di così poca fatica…”
“E poi, e poi, e poi…”
“E poi che cosa?”
“E poi c’è degli imbrogli.”
“Degl’imbrogli? Che imbrogli ci può essere?”
“Bisognerebbe trovarsi nei nostri piedi, per conoscer quanti impicci nascono in queste materie, quanti conti s’ha da rendere. Io son troppo dolce di cuore, non penso che a levar di mezzo gli ostacoli, a facilitar tutto, a far le cose secondo il piacere altrui, e trascuro il mio dovere; e poi mi toccan de’ rimproveri, e peggio.”
“Ma, col nome del cielo, non mi tenga così sulla corda, e mi dica chiaro e netto cosa c’è.”
“Sapete voi quante e quante formalità ci vogliono per fare un matrimonio in regola?”
“Bisogna ben ch’io ne sappia qualche cosa,” disse Renzo, cominciando ad alterarsi, “poiché me ne ha già rotta bastantemente la testa, questi giorni addietro. Ma ora non s’è sbrigato ogni cosa? non s’è fatto tutto ciò che s’aveva a fare?”
“Tutto, tutto, pare a voi: perché, abbiate pazienza, la bestia son io, che trascuro il mio dovere, per non far penare la gente. Ma ora… basta, so quel che dico. Noi poveri curati siamo tra l’ancudine e il martello: voi impaziente; vi compatisco, povero giovane; e i superiori…. basta, non si può dir tutto. E noi siam quelli che ne andiam di mezzo.”
“Ma mi spieghi una volta cos’è quest’altra formalità che s’ha a fare, come dice; e sarà subito fatta.”
“Sapete voi quanti siano gl’impedimenti dirimenti?”
“Che vuol ch’io sappia d’impedimenti?”
“Error, conditio, votum, cognatio, crimen,
Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas,
Si sis affinis,….”
cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita.
“Si piglia gioco di me?” interruppe il giovine. “Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?
“Dunque, se non sapete le cose, abbiate pazienza, e rimettetevi a chi le sa.”
“Orsù!….”
“Via, caro Renzo, non andate in collera, che son pronto a fare…. tutto quello che dipende da me. Io, io vorrei vedervi contento; vi voglio bene io. Eh!…. quando penso che stavate così bene; cosa vi mancava? V’è saltato il grillo di maritarvi….”
“Che discorsi son questi, signor mio?” proruppe Renzo, con un volto tra l’attonito e l’adirato.
“Dico per dire, abbiate pazienza, dico per dire. Vorrei vedervi contento.”
“In somma….”
“In somma, figliuol caro, io non ci ho colpa; la legge non l’ho fatta io. E, prima di conchiudere un matrimonio, noi siam proprio obbligati a far molte e molte ricerche, per assicurarci che non ci siano impedimenti.”
“Ma via, mi dica una volta che impedimento è sopravvenuto?”
“Abbiate pazienza, non son cose da potersi decifrare così su due piedi. Non ci sarà niente, così spero; ma, non ostante, queste ricerche noi le dobbiam fare. Il testo è chiaro e lampante: antequam matrimonium denunciet….”
“Le ho detto che non voglio latino.”
“Ma bisogna pur che vi spieghi….”
“Ma non le ha già fatte queste ricerche?”
“Non le ho fatte tutte, come avrei dovuto, vi dico.”
“Perchè non le ha fatte a tempo? perchè dirmi che tutto era finito? perchè aspettare….”
“Ecco! mi rimproverate la mia troppa bontà. Ho facilitato ogni cosa per servirvi più presto: ma…. ma ora mi son venute…. basta, so io.”
“E che vorrebbe ch’io facessi?”
“Che aveste pazienza per qualche giorno. Figliuol caro, qualche giorno non è poi l’eternità: abbiate pazienza.”
“Per quanto?”
— Siamo a buon porto, — pensò tra sè don Abbondio; e, con un fare più manieroso che mai, “via,” disse: “in quindici giorni cercherò,…. procurerò….”
“Quindici giorni! oh questa sì ch’è nuova! S’è fatto tutto ciò che ha voluto lei; s’è fissato il giorno; il giorno arriva; e ora lei mi viene a dire che aspetti quindici giorni! Quindici…” riprese poi, con voce più alta e stizzosa, stendendo il braccio, e battendo il pugno nell’aria; e chi sa qual diavoleria avrebbe attaccata a quel numero, se don Abbondio non l’avesse interrotto, prendendogli l’altra mano, con un’amorevolezza timida e premurosa: “via, via, non v’alterate, per amor del cielo. Vedrò, cercherò se, in una settimana….”

“E a Lucia che devo dire?”
“Ch’è stato un mio sbaglio.”
“E i discorsi del mondo?”
“Dite pure a tutti, che ho sbagliato io, per troppa furia, per troppo buon cuore: gettate tutta la colpa addosso a me. Posso parlar meglio? via, per una settimana.”
“E poi, non ci sarà più altri impedimenti?”
“Quando vi dico…”
“Ebbene: avrò pazienza per una settimana; ma ritenga bene che, passata questa, non m’appagherò più di chiacchiere. Intanto la riverisco.” E così detto, se n’andò, facendo a don Abbondio un inchino men profondo del solito, e dandogli un’occhiata più espressiva che riverente.
Uscito poi, e camminando di mala voglia, per la prima volta, verso la casa della sua promessa, in mezzo alla stizza, tornava con la mente su quel colloquio; e sempre più lo trovava strano. L’accoglienza fredda e impicciata di don Abbondio, quel suo parlare stentato insieme e impaziente, que’ due occhi grigi che, mentre parlava, eran sempre andati scappando qua e là, come se avesser avuto paura d’incontrarsi con le parole che gli uscivan di bocca, quel farsi quasi nuovo del matrimonio così espressamente concertato, e sopra tutto quell’accennar sempre qualche gran cosa, non dicendo mai nulla di chiaro; tutte queste circostanze messe insieme facevan pensare a Renzo che ci fosse sotto un mistero diverso da quello che don Abbondio aveva voluto far credere. Stette il giovine in forse un momento di tornare indietro, per metterlo alle strette, e farlo parlar più chiaro; ma, alzando gli occhi, vide Perpetua che camminava dinanzi a lui, ed entrava in un orticello pochi passi distante dalla casa. Le diede una voce, mentre essa apriva l’uscio; studiò il passo, la raggiunse, la ritenne sulla soglia, e, col disegno di scovar qualche cosa di più positivo, si fermò ad attaccar discorso con essa.
“Buon giorno, Perpetua: io speravo che oggi si sarebbe stati allegri insieme.”
“Ma! quel che Dio vuole, il mio povero Renzo.”
“Fatemi un piacere: quel benedett’uomo del signor curato m’ha impastocchiate certe ragioni che non ho potuto ben capire: spiegatemi voi meglio perché non può o non vuole maritarci oggi.”
“Oh! vi par egli ch’io sappia i segreti del mio padrone?”
— L’ho detto io, che c’era mistero sotto, — pensò Renzo; e, per tirarlo in luce, continuò: “via, Perpetua; siamo amici; ditemi quel che sapete, aiutate un povero figliuolo.”
“Mala cosa nascer povero, il mio caro Renzo.”
“È vero,” riprese questo, sempre più confermandosi ne’ suoi sospetti; e, cercando d’accostarsi più alla questione, “è vero,” soggiunse, “ma tocca ai preti a trattar male co’ poveri?”
“Sentite, Renzo; io non posso dir niente, perché… non so niente; ma quello che vi posso assicurare è che il mio padrone non vuol far torto, né a voi né a nessuno; e lui non ci ha colpa.”
“C‘hi è dunque che ci ha colpa?” domandò Renzo, con un cert’atto trascurato, ma col cuor sospeso, e con l’orecchio all’erta.
“Quando vi dico che non so niente… In difesa del mio padrone, posso parlare; perché mi fa male sentire che gli si dia carico di voler far dispiacere a qualcheduno. Pover’uomo! se pecca, è per troppa bontà. C’è bene a questo mondo de’ birboni, de’ prepotenti, degli uomini senza timor di Dio…”
— Prepotenti! birboni! — pensò Renzo: — questi non sono i superiori. “Via,” disse poi, nascondendo a stento l’agitazione crescente, “via, ditemi chi è.”

“Ah! voi vorreste farmi parlare; e io non posso parlare, perché… non so niente: quando non so niente, è come se avessi giurato di tacere. Potreste darmi la corda, che non mi cavereste nulla di bocca. Addio; è tempo perduto per tutt’e due.” Così dicendo, entrò in fretta nell’orto, e chiuse l’uscio. Renzo, rispostole con un saluto, tornò indietro pian piano, per non farla accorgere del cammino che prendeva; ma, quando fu fuor del tiro dell’orecchio della buona donna, allungò il passo; in un momento fu all’uscio di don Abbondio; entrò, andò diviato al salotto dove l’aveva lasciato, ve lo trovò, e corse verso lui, con un fare ardito, e con gli occhi stralunati.
“Eh! eh! che novità è questa?” disse don Abbondio.
“Chi è quel prepotente,” disse Renzo, con la voce d’un uomo ch’è risoluto d’ottenere una risposta precisa, “chi è quel prepotente che non vuol ch’io sposi Lucia?”
“Che? che? che?” balbettò il povero sorpreso, con un volto fatto in un istante bianco e floscio, come un cencio che esca del bucato. E, pur brontolando, spiccò un salto dal suo seggiolone, per lanciarsi all’uscio. Ma Renzo, che doveva aspettarsi quella mossa, e stava all’erta, vi balzò prima di lui, girò la chiave, e se la mise in tasca.
“Ah! ah! parlerà ora, signor curato? Tutti sanno i fatti miei, fuori di me. Voglio saperli, per bacco, anch’io. Come si chiama colui?”
“Renzo! Renzo! per carità, badate a quel che fate; pensate all’anima vostra.”
“Penso che lo voglio saper subito, sul momento.” E, così dicendo, mise, forse senza avvedersene, la mano sul manico del coltello che gli usciva dal taschino.
“Misericordia!” esclamò con voce fioca don Abbondio.
“Lo voglio sapere.”
“Chi v’ha detto…”
“No, no; non più fandonie. Parli chiaro e subito.”
“Mi volete morto?”
“Voglio sapere ciò che ho ragion di sapere.”
“Ma se parlo, son morto. Non m’ha da premere la mia vita?”
“Dunque parli.”
Quel “dunque” fu proferito con una tale energia, l’aspetto di Renzo divenne così minaccioso, che don Abbondio non poté più nemmen supporre la possibilità di disubbidire.
“Mi promettete, mi giurate,” disse “di non parlarne con nessuno, di non dir mai…?”
“Le prometto che fo uno sproposito, se lei non mi dice subito subito il nome di colui.”
A quel nuovo scongiuro, don Abbondio, col volto, e con lo sguardo di chi ha in bocca le tanaglie del cavadenti, proferì: “don…”
“Don?” ripetè Renzo, come per aiutare il paziente a buttar fuori il resto; e stava curvo, con l’orecchio chino sulla bocca di lui, con le braccia tese, e i pugni stretti all’indietro.

“Don Rodrigo!” pronunziò in fretta il forzato, precipitando quelle poche sillabe, e strisciando le consonanti, parte per il turbamento, parte perché, rivolgendo pure quella poca attenzione che gli rimaneva libera, a fare una transazione tra le due paure, pareva che volesse sottrarre e fare scomparir la parola, nel punto stesso ch’era costretto a metterla fuori.
“Ah cane!” urlò Renzo. “E come ha fatto? Cosa le ha detto per…?”
“Come eh? come?” rispose, con voce quasi sdegnosa, don Abbondio, il quale, dopo un così gran sagrifizio, si sentiva in certo modo divenuto creditore. “Come eh? Vorrei che la fosse toccata a voi, come è toccata a me, che non c’entro per nulla; che certamente non vi sarebber rimasti tanti grilli in capo.” E qui si fece a dipinger con colori terribili il brutto incontro; e, nel discorrere, accorgendosi sempre più d’una gran collera che aveva in corpo, e che fin allora era stata nascosta e involta nella paura, e vedendo nello stesso tempo che Renzo, tra la rabbia e la confusione, stava immobile, col capo basso, continuò allegramente: “avete fatta una bella azione! M’avete reso un bel servizio! Un tiro di questa sorte a un galantuomo, al vostro curato! in casa sua! in luogo sacro! Avete fatta una bella prodezza! Per cavarmi di bocca il mio malanno, il vostro malanno! ciò ch’io vi nascondevo per prudenza, per vostro bene! E ora che lo sapete? Vorrei vedere che mi faceste…! Per amor del cielo! Non si scherza. Non si tratta di torto o di ragione; si tratta di forza. E quando, questa mattina, vi davo un buon parere… eh! subito nelle furie. Io avevo giudizio per me e per voi; ma come si fa? Aprite almeno; datemi la mia chiave.”
“Posso aver fallato,” rispose Renzo, con voce raddolcita verso don Abbondio, ma nella quale si sentiva il furore contro il nemico scoperto: “posso aver fallato; ma si metta la mano al petto, e pensi se nel mio caso…”
Così dicendo, s’era levata la chiave di tasca, e andava ad aprire. Don Abbondio gli andò dietro, e, mentre quegli girava la chiave nella toppa, se gli accostò, e, con volto serio e ansioso, alzandogli davanti agli occhi le tre prime dita della destra, come per aiutarlo anche lui dal canto suo, “giurate almeno…” gli disse.
“Posso aver fallato; e mi scusi,” rispose Renzo, aprendo, e disponendosi ad uscire.
“Giurate…” replicò don Abbondio, afferrandogli il braccio con la mano tremante.
“Posso aver fallato,” ripetè Renzo, sprigionandosi da lui; e partì in furia, troncando così la questione, che, al pari d’una questione di letteratura o di filosofia o d’altro, avrebbe potuto durar dei secoli, giacché ognuna delle parti non faceva che replicare il suo proprio argomento.
“Perpetua! Perpetua!” gridò don Abbondio, dopo avere invano richiamato il fuggitivo. Perpetua non risponde: don Abbondio non sapeva più in che mondo si fosse.
È accaduto più d’una volta a personaggi di ben più alto affare che don Abbondio, di trovarsi in frangenti così fastidiosi, in tanta incertezza di partiti, che parve loro un ottimo ripiego mettersi a letto con la febbre. Questo ripiego, egli non lo dovette andare a cercare, perché gli si offerse da sé. La paura del giorno avanti, la veglia angosciosa della notte, la paura avuta in quel momento, l’ansietà dell’avvenire, fecero l’effetto. Affannato e balordo, si ripose sul suo seggiolone, cominciò a sentirsi qualche brivido nell’ossa, si guardava le unghie sospirando, e chiamava di tempo in tempo, con voce tremolante e stizzosa: “Perpetua!” La venne finalmente, con un gran cavolo sotto il braccio, e con la faccia tosta, come se nulla fosse stato. Risparmio al lettore i lamenti, le condoglianze, le accuse, le difese, i “voi sola potete aver parlato,” e i “non ho parlato,” tutti i pasticci in somma di quel colloquio. Basti dire che don Abbondio ordinò a Perpetua di metter la stanga all’uscio, di non aprir più per nessuna cagione, e, se alcun bussasse, risponder dalla finestra che il curato era andato a letto con la febbre. Salì poi lentamente le scale, dicendo, ogni tre scalini, “son servito;” e si mise davvero a letto, dove lo lasceremo.
Renzo intanto camminava a passi infuriati verso casa, senza aver determinato quel che dovesse fare, ma con una smania addosso di far qualcosa di strano e di terribile. I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi. Renzo era un giovine pacifico e alieno dal sangue, un giovine schietto e nemico d’ogni insidia; ma, in que’ momenti, il suo cuore non batteva che per l’omicidio, la sua mente non era occupata che a fantasticare un tradimento. Avrebbe voluto correre alla casa di don Rodrigo, afferrarlo per il collo, e… ma gli veniva in mente ch’era come una fortezza, guarnita di bravi al di dentro, e guardata al di fuori; che i soli amici e servitori ben conosciuti v’entravan liberamente, senza essere squadrati da capo a piedi; che un artigianello sconosciuto non vi potrebb’entrare senza un esame, e ch’egli sopra tutto… egli vi sarebbe forse troppo conosciuto. Si figurava allora di prendere il suo schioppo, d’appiattarsi dietro una siepe, aspettando se mai, se mai colui venisse a passar solo; e, internandosi, con feroce compiacenza, in quell’immaginazione, si figurava di sentire una pedata, quella pedata, d’alzar chetamente la testa; riconosceva lo scellerato, spianava lo schioppo, prendeva la mira, sparava, lo vedeva cadere e dare i tratti, gli lanciava una maledizione, e correva sulla strada del confine a mettersi in salvo. — E Lucia? —

Appena questa parola si fu gettata a traverso di quelle bieche fantasie, i migliori pensieri a cui era avvezza la mente di Renzo, v’entrarono in folla. Si rammentò degli ultimi ricordi de’ suoi parenti, si rammentò di Dio, della Madonna e de’ santi, pensò alla consolazione che aveva tante volte provata di trovarsi senza delitti, all’orrore che aveva tante volte provato al racconto d’un omicidio; e si risvegliò da quel sogno di sangue, con ispavento, con rimorso, e insieme con una specie di gioia di non aver fatto altro che immaginare. Ma il pensiero di Lucia, quanti pensieri tirava seco! Tante speranze, tante promesse, un avvenire così vagheggiato, e così tenuto sicuro, e quel giorno così sospirato! E come, con che parole annunziarle una tal nuova? E poi, che partito prendere? Come farla sua, a dispetto della forza di quell’iniquo potente? E insieme a tutto questo, non un sospetto formato, ma un’ombra tormentosa gli passava per la mente. Quella soverchieria di don Rodrigo non poteva esser mossa che da una brutale passione per Lucia. E Lucia? Che avesse data a colui la più piccola occasione, la più leggiera lusinga, non era un pensiero che potesse fermarsi un momento nella testa di Renzo. Ma n’era informata? Poteva colui aver concepita quell’infame passione, senza che lei se n’avvedesse? Avrebbe spinte le cose tanto in là, prima d’averla tentata in qualche modo? E Lucia non ne aveva mai detta una parola a lui! al suo promesso!
Dominato da questi pensieri, passò davanti a casa sua, ch’era nel mezzo del villaggio, e, attraversatolo, s’avviò a quella di Lucia, ch’era in fondo, anzi un po’ fuori. Aveva quella casetta un piccolo cortile dinanzi, che la separava dalla strada, ed era cinto da un murettino. Renzo entrò nel cortile, e sentì un misto e continuo ronzìo che veniva da una stanza di sopra. S’immaginò che sarebbero amiche e comari, venute a far corteggio a Lucia; e non si volle mostrare a quel mercato, con quella nuova in corpo e sul volto. Una fanciulletta che si trovava nel cortile, gli corse incontro gridando: “lo sposo! lo sposo!”
“Zitta, Bettina, zitta!” disse Renzo. “Vien qua; va su da Lucia, tirala in disparte, e dille all’orecchio… ma che nessun senta, né sospetti di nulla, ve’… dille che ho da parlarle, che l’aspetto nella stanza terrena, e che venga subito.” La fanciulletta salì in fretta le scale, lieta e superba d’avere una commission segreta da eseguire.
Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. Le amiche si rubavano la sposa, e le facevan forza perché si lasciasse vedere; e lei s’andava schermendo, con quella modestia un po’ guerriera delle contadine, facendosi scudo alla faccia col gomito, chinandola sul busto, e aggrottando i lunghi e neri sopraccigli, mentre però la bocca s’apriva al sorriso. I neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile dirizzatura, si ravvolgevan, dietro il capo, in cerchi moltiplici di trecce, trapassate da lunghi spilli d’argento, che si dividevano all’intorno, quasi a guisa de’ raggi d’un’aureola, come ancora usano le contadine nel Milanese. Intorno al collo aveva un vezzo di granati alternati con bottoni d’oro a filigrana: portava un bel busto di broccato a fiori, con le maniche separate e allacciate da bei nastri: una corta gonnella di filaticcio di seta, a pieghe fitte e minute, due calze vermiglie, due pianelle, di seta anch’esse, a ricami. Oltre a questo, ch’era l’ornamento particolare del giorno delle nozze, Lucia aveva quello quotidiano d’una modesta bellezza, rilevata allora e accresciuta dalle varie affezioni che le si dipingevan sul viso: una gioia temperata da un turbamento leggiero, quel placido accoramento che si mostra di quand’in quando sul volto delle spose, e, senza scompor la bellezza, le dà un carattere particolare. La piccola Bettina si cacciò nel crocchio, s’accostò a Lucia, le fece intendere accortamente che aveva qualcosa da comunicarle, e le disse la sua parolina all’orecchio.

“Vo un momento, e torno,” disse Lucia alle donne; e scese in fretta. Al veder la faccia mutata, e il portamento inquieto di Renzo, “cosa c’è?” disse, non senza un presentimento di terrore.
“Lucia!” rispose Renzo, “per oggi, tutto è a monte; e Dio sa quando potremo esser marito e moglie.”
“Che?” disse Lucia tutta smarrita. Renzo le raccontò brevemente la storia di quella mattina: ella ascoltava con angoscia: e quando udì il nome di don Rodrigo, “ah!” esclamò, arrossendo e tremando, “fino a questo segno!”
“Dunque voi sapevate…?” disse Renzo.
“Pur troppo!” rispose Lucia; “ma a questo segno!”
“Che cosa sapevate?”
“Non mi fate ora parlare, non mi fate piangere. Corro a chiamar mia madre, e a licenziar le donne: bisogna che siam soli. ”
Mentre ella partiva, Renzo sussurrò: “non m’avete mai detto niente.”
“Ah, Renzo!” rispose Lucia, rivolgendosi un momento, senza fermarsi. Renzo intese benissimo che il suo nome pronunziato in quel momento, con quel tono, da Lucia, voleva dire: potete voi dubitare ch’io abbia taciuto se non per motivi giusti e puri?
Intanto la buona Agnese (così si chiamava la madre di Lucia), messa in sospetto e in curiosità dalla parolina all’orecchio, e dallo sparir della figlia, era discesa a veder cosa c’era di nuovo. La figlia la lasciò con Renzo, tornò alle donne radunate, e, accomodando l’aspetto e la voce, come potè meglio, disse: “il signor curato è ammalato; e oggi non si fa nulla.” Ciò detto, le salutò tutte in fretta, e scese di nuovo.
Le donne sfilarono, e si sparsero a raccontar l’accaduto. Due o tre andaron fin all’uscio del curato, per verificar se era ammalato davvero.
“Un febbrone,” rispose Perpetua dalla finestra; e la trista parola, riportata all’altre, troncò le congetture che già cominciavano a brulicar ne’ loro cervelli, e ad annunziarsi tronche e misteriose ne’ loro discorsi.
