
Capitoli 11 e 12 dei Promessi Sposi
28 Dicembre 2019
Seconda parte del terzo capitolo dei Promessi Sposi
28 Dicembre 2019đ Analisi del Capitolo VII de ‘I Promessi Sposi’
Il Capitolo VII de I Promessi Sposi è un crocevia di eventi e decisioni, in cui la narrazione accelera verso il tentativo del “matrimonio a sorpresa” e il contemporaneo piano di rapimento di Don Rodrigo. Manzoni dosa con maestria la tensione, l’ironia e la profonda analisi psicologica dei personaggi, mostrando come le buone intenzioni possano scontrarsi con la realtĂ della malvagitĂ e come la Provvidenza si manifesti attraverso vie inaspettate.
1. Il Fallimento di Fra Cristoforo e la Furia di Renzo
Il capitolo si apre con il ritorno di Fra Cristoforo dalla casa di Don Rodrigo. Manzoni lo descrive con la similitudine di un “buon capitano che, perduta, senza sua colpa, una battaglia importante, afflitto ma non scoraggito”, che corre a “premunire i luoghi minacciati”. Questo paragone eleva la figura del frate, sottolineando la sua dignitĂ e la sua determinazione anche nella sconfitta.
Il suo annuncio (“Non câè nulla da sperare dallâuomo: tanto piĂš bisogna confidare in Dio: e giĂ ho qualche pegno della sua protezione”) è una triste conferma per i promessi sposi e Agnese. Nonostante nessuno si aspettasse un cedimento di Don Rodrigo per mere preghiere, la certezza del fallimento è un “colpo per tutti”.
- La reazione di Renzo: In lui, l’ira prevale sull’abbattimento. GiĂ “amareggiato da tante sorprese dolorose”, “tentativi andati a voto” e “speranze deluse” (riferimento alle vicende dei capitoli precedenti), e in piĂš “esacerbato… dalle ripulse di Lucia” (che rifiutava il matrimonio a sorpresa), Renzo esplode in un furore verbale. Egli chiede le “ragioni” del “cane” Don Rodrigo, mostrando la sua rabbia contro l’ingiustizia ingiustificata.
- La saggezza del frate: Fra Cristoforo risponde con “voce grave e pietosa”, spiegando che “se il potente che vuol commettere lâingiustizia fosse sempre obbligato a dir le sue ragioni, le cose non anderebbero come vanno”. Le “parole dell’iniquo che è forte, penetrano e sfuggono”, sono ambigue, insultanti ma inafferrabili. Il frate conferma l’irremovibilitĂ di Don Rodrigo, ma esorta alla “confidenza in Dio!” e rivela di avere un “filo” in mano, un segno della Provvidenza (il vecchio servitore), senza però poterne rivelare i dettagli. Ordina a Renzo di raggiungerlo al convento l’indomani, o di mandare un “garzoncello di giudizio”.
2. La Disputa sul “Matrimonio a Sorpresa” e la Coscienza di Lucia
Dopo la partenza di Fra Cristoforo, il silenzio nella casetta di Lucia è rotto da Agnese, che ha “maturato un progetto”. Il suo piano, il “matrimonio a sorpresa” (o matrimonio per procura), è una furbizia legale popolare, basata sulla validitĂ del matrimonio se gli sposi pronunciano la formula sacramentale davanti al curato e a due testimoni, anche se il curato non acconsente.
- Agnese: L’Astuzia Popolare: Agnese si presenta come la salvatrice della situazione: “Se volete aver cuore e destrezza, quanto bisogna, se vi fidate di vostra madre… io mâimpegno di cavarvi di questâimpiccio, meglio forse, e piĂš presto del padre Cristoforo”. La sua è una saggezza pratica, non spirituale, tipica della mentalitĂ popolare che cerca soluzioni immediate e concrete. Il suo motto implicito è “aiutati che Dio ti aiuta”, ma interpretato in chiave di astuzia.
- Renzo: L’Entusiasmo Pragmatico: Renzo accoglie il piano con entusiasmo. La sua logica è semplice: “maritati che fossimo… tutto il mondo è paese”, si andrebbe nel bergamasco da suo cugino Bortolo, vivendo in “santa pace, fuor dellâunghie di questo ribaldo”. Egli vede nel piano una via d’uscita immediata e risolutiva, l’unico modo per ottenere la sua amata. La sua “abilitĂ ” è quella di “giureconsulto” popolare, capace di trovare un “verso” per eludere gli ostacoli.
- Lucia: La Ferma MoralitĂ e il “Timor di Dio”: Lucia è l’unica a opporsi con fermezza e tormento morale. Il suo dilemma è chiaro: “o la cosa è cattiva, e non bisogna farla; o non è, e perchè non dirla al padre Cristoforo?”. La sua obiezione è etica e religiosa: “Io voglio esser vostra moglie… ma per la strada diritta, col timor di Dio, allâaltare.” La sua fede è pura e non accetta sotterfugi o inganni, affidandosi completamente alla Provvidenza divina (“Lasciamo fare a Quello lassĂš”). Questo scontro tra la moralitĂ rigida di Lucia e il pragmatismo dei due è un nodo etico fondamentale del romanzo.
- La Furia di Renzo e il Suo Contenimento: L’insistenza di Lucia scatena nuovamente l’ira di Renzo, che inizia a pronunciare minacce di vendetta contro Don Rodrigo. Lucia, terrorizzata, si butta ai suoi ginocchia, supplicandolo. Questo mostra la profonditĂ del suo amore e la sua capacitĂ di riportare Renzo alla ragione. La sua reazione ferma e la sua promessa di acconsentire al matrimonio a sorpresa (“verrò dal curato, domani, ora, se volete; verrò”) sono frutto della sua paura e del suo desiderio di salvare Renzo dalla violenza. Manzoni nota che non è chiaro se Renzo abbia “adoperato un poâ dâartifizio” per spaventare Lucia o se la sua furia fosse genuina, lasciando al lettore la libertĂ di interpretazione.
- Il Problema di Perpetua: Agnese, con la sua esperienza, individua un ostacolo: come far entrare Renzo e Lucia nella casa del curato, dato che Perpetua “avrĂ ordine di tenervi lontani”? Agnese risolve il problema proponendo di attirare Perpetua fuori casa con un “segreto” (la finta notizia di un pretendente) e consentire cosĂŹ l’accesso indisturbato dei due promessi.
3. I Preparativi e i Segnali di Pericolo
Il resto del capitolo descrive i preparativi per il piano e i primi segnali dell’imminente pericolo.
- Preparativi del “Matrimonio a Sorpresa”: Renzo si reca da Tonio, un suo conoscente in debito con Don Abbondio. Renzo si offre di saldare il debito di Tonio (25 lire) in cambio del suo servizio come testimone per il matrimonio a sorpresa. Tonio accetta con entusiasmo e coinvolge il fratello piĂš sempliciotto, Gervaso, come secondo testimone. Il colloquio all’osteria, dove la miseria è palpabile, mostra l’astuzia di Renzo e la disponibilitĂ di Tonio a fare un “servizietto” in cambio di un “grande” beneficio.
- La Cauta Indagine del Griso: Parallelamente, Manzoni svela il piano di rapimento di Don Rodrigo. Egli aveva incaricato il suo capo dei Bravi, il Griso, di rapire Lucia. Il Griso, “il piĂš valente della famiglia”, perlustra la zona con i suoi uomini sotto mentite spoglie (mendicanti, viandanti, spioni), raccogliendo informazioni sulla casetta di Lucia e sul movimento dei suoi abitanti. Il “falso pezzente” che si introduce in casa di Lucia non è altri che il Griso stesso. Questo crea una forte suspense drammatica: il lettore sa del pericolo imminente, mentre i personaggi sono ignari.
- Il Ruolo del Vecchio Servitore: Il vecchio servitore di Don Rodrigo, che aveva assistito al colloquio tra il padrone e Fra Cristoforo, si accorge dei movimenti sospetti dei Bravi e intuisce il piano. Animato dal desiderio di “salvar l’anima mia”, decide di andare ad avvisare Fra Cristoforo al convento, nonostante il rischio. Questo è il “filo” della Provvidenza di cui parlava il frate, un aiuto inatteso che dimostra l’intervento divino attraverso l’azione umana.
- La Scarsa Consapevolezza delle Donne: Mentre i pericoli si addensano, Agnese e Lucia, pur provando una “non so quale inquietudine” per le “strane figure” viste in giro, non ne conoscono la vera portata. Lucia, in particolare, perde gran parte del coraggio per la sera.
- L’Invio di Menico: Renzo, per evitare di insospettire Fra Cristoforo con la sua agitazione, decide di mandare al convento il ragazzetto Menico con l’incarico di portare un messaggio al frate. Agnese lo istruisce con cura, promettendogli una ricompensa. Questo creerĂ un’ulteriore complicazione narrativa e un’occasione di mancata comunicazione.
Conclusioni
Il Capitolo VII è un capolavoro di Manzoni per la sua capacitĂ di costruire una tensione crescente attraverso la narrazione parallela di due piani d’azione (quello del matrimonio a sorpresa e quello del rapimento) che convergono verso un unico, drammatico momento. L’ironia della Provvidenza, che sembra mettere un “filo” nelle mani di Fra Cristoforo ma che sarĂ vanificato dalla concatenazione di eventi e dall’astuzia della malvagitĂ , è qui evidente. Il capitolo mostra:
- La resilienza del male: Don Rodrigo non si arrende e intensifica la sua persecuzione.
- La complessitĂ dell’agire umano: I personaggi agiscono con motivazioni diverse (la fede di Lucia, la viltĂ di Don Abbondio, l’astuzia di Agnese, l’impeto di Renzo, la malvagitĂ di Don Rodrigo, la coscienza del vecchio servitore), tessendo una rete di eventi che sfuggono al controllo dei singoli.
- La presenza della Provvidenza: Il “filo” del vecchio servitore e l’intervento successivo di Fra Cristoforo, pur non riuscendo a impedire il rapimento, dimostreranno come la Provvidenza agisca anche in modo indiretto e non sempre immediatamente evidente per gli uomini.
Il capitolo si chiude con l’atmosfera carica di presagi, con i bravi del Griso in agguato e i promessi sposi ignari della trappola che li attende.
Testo del settimo capitolo dei Promessi Sposi

CAPITOLO VII
Â
â La pace sia con voi, â disse, nellâentrare. â Non câè nulla da sperare dallâuomo: tanto piĂš bisogna confidare in Dio: e giĂ ho qualche pegno della sua protezione. â
Sebbene nessuno dei tre sperasse molto nel tentativo del padre Cristoforo, giacchè il vedere un potente ritirarsi da una soverchieria, senza esserci costretto, e per mera condiscendenza a preghiere disarmate, era cosa piuttosto inaudita che rara; nulladimeno la trista certezza fu un colpo per tutti. Le donne abbassarono il capo; ma nellâanimo di Renzo, lâira prevalse allâabbattimento. Quellâannunzio lo trovava giĂ amareggiato da tante sorprese dolorose, da tanti tentativi andati a voto, da tante speranze deluse, e, per di piĂš, esacerbato, in quel momento, dalle ripulse di Lucia.
âVorrei sapere,â gridò, digrignando i denti, e alzando la voce, quanto non aveva mai fatto prima dâallora, alla presenza del padre Cristoforo; âvorrei sapere che ragioni ha dette quel cane, per sostenere… per sostenere che la mia sposa non devâessere la mia sposa.â
âPovero Renzo!â rispose il frate, con una voce grave e pietosa, e con uno sguardo che comandava amorevolmente la pacatezza: âse il potente che vuol commettere lâingiustizia fosse sempre obbligato a dir le sue ragioni, le cose non anderebbero come vanno.â
âHa detto dunque quel cane, che non vuole, perchè non vuole?â
âNon ha detto nemmen questo, povero Renzo! Sarebbe ancora un vantaggio se, per commetter lâiniquitĂ , dovessero confessarla apertamente.â
âMa qualcosa ha dovuto dire: cosâha detto quel tizzone dâinferno?â
âLe sue parole, io lâho sentite, e non te le saprei ripetere. Le parole dellâiniquo che è forte, penetrano e sfuggono. Può adirarsi che tu mostri sospetto di lui, e, nello stesso tempo, farti sentire che quello di che tu sospetti è certo: può insultare e chiamarsi offeso, schernire e chieder ragione, atterrire e lagnarsi, essere sfacciato e irreprensibile. Non chieder piĂš in lĂ . Colui non ha proferito il nome di questa innocente, nè il tuo, non ha figurato nemmen di conoscervi, non ha detto di pretender nulla; ma…… ma pur troppo ho dovuto intendere châè irremovibile. Nondimeno, confidenza in Dio! Voi, poverette, non vi perdete dâanimo; e tu, Renzo….. oh! credi pure, châio so mettermi neâ tuoi panni, châio sento quello che passa nel tuo cuore. Ma, pazienza! Ă una magra parola, una parola amara, per chi non crede; ma tu…..! non vorrai tu concedere a Dio un giorno, due giorni, il tempo che vorrĂ prendere, per far trionfare la giustizia? Il tempo è suo; e ce nâha promesso tanto! Lascia fare a Lui, Renzo; e sappi….. sappiate tutti châio ho giĂ in mano un filo, per aiutarvi. Per ora, non posso dirvi di piĂš. Domani io non verrò quassĂš; devo stare al convento tutto il giorno, per voi. Tu, Renzo, procura di venirci: o se, per caso impensato, tu non potessi, mandate un uomo fidato, un garzoncello di giudizio, per mezzo del quale io possa farvi sapere quello che occorrerĂ . Si fa buio; bisogna châio corra al convento. Fede, coraggio; e addio.â
Detto questo, uscĂŹ in fretta, e se nâandò, correndo, e quasi saltelloni, giĂš per quella viottola storta e sassosa, per non arrivar tardi al convento, a rischio di buscarsi una buona sgridata, o quel che gli sarebbe pesato ancor piĂš, una penitenza, che glâimpedisse, il giorno dopo, di trovarsi pronto e spedito a ciò che potesse richiedere il bisogno deâ suoi protetti.
â Avete sentito cosâha detto dâun non so che…. dâun filo che ha, per aiutarci? â disse Lucia. â Convien fidarsi a lui; è un uomo che, quando promette dieci….. â
â Se non câè altro….! â interruppe Agnese. â Avrebbe dovuto parlar piĂš chiaro, o chiamar me da una parte, e dirmi cosa sia questo… â
â Chiacchiere! la finirò io: io la finirò! â interruppe Renzo, questa volta, andando in su e in giĂš per la stanza, e con una voce, con un viso, da non lasciar dubbio sul senso di quelle parole.
â Oh Renzo! â esclamò Lucia.
â Cosa volete dire? â esclamò Agnese.
â Che bisogno câè di dire? La finirò io. Abbia pur cento, mille diavoli nellâanima, finalmente è di carne e ossa anche lui…. â
â No, no, per amor del cielo….! â cominciò Lucia; ma il pianto le troncò la voce.
â Non son discorsi da farsi, neppur per burla, â disse Agnese.
â Per burla? â gridò Renzo, fermandosi ritto in faccia ad Agnese seduta, e piantandole in faccia due occhi stralunati. â Per burla! vedrete se sarĂ burla. â
â Oh Renzo! â disse Lucia, a stento, tra i singhiozzi: â non vâho mai visto cosĂŹ. â
â Non dite queste cose, per amor del cielo, â riprese ancora in fretta Agnese, abbassando la voce. â Non vi ricordate quante braccia ha al suo comando colui? E quandâanche….. Dio liberi!… contro i poveri câè sempre giustizia. â
â La farò io, la giustizia, io! Ă ormai tempo. La cosa non è facile: lo so anchâio. Si guarda bene, il cane assassino: sa come sta; ma non importa. Risoluzione e pazienza…. e il momento arriva. SĂŹ, la farò io, la giustizia: lo libererò io, il paese: quanta gente mi benedirĂ ….! e poi in tre salti….! â
Lâorrore che Lucia sentĂŹ di queste piĂš chiare parole, le sospese il pianto, e le diede forza di parlare. Levando dalle palme il viso lagrimoso, disse a Renzo, con voce accorata, ma risoluta: â non vâimporta piĂš dunque dâavermi per moglie. Io mâera promessa a un giovine che aveva il timor di Dio; ma un uomo che avesse…. Fosse al sicuro dâogni giustizia e dâogni vendetta, fossâanche il figlio del re…. â
â E bene! â gridò Renzo, con un viso piĂš che mai stravolto: â io non vâavrò; ma non vâavrĂ nè anche lui. Io qui senza di voi, e lui a casa del…. â
â Ah no! per caritĂ , non dite cosĂŹ, non fate quegli occhi: no, non posso vedervi cosĂŹ, â esclamò Lucia, piangendo, supplicando, con le mani giunte; mentre Agnese chiamava e richiamava il giovine per nome, e gli palpava le spalle, le braccia, le mani, per acquietarlo. Stette egli immobile e pensieroso, qualche tempo, a contemplar quella faccia supplichevole di Lucia; poi, tuttâa un tratto, la guardò torvo, diede addietro, tese il braccio e lâindice verso di essa, e gridò: â questa! sĂŹ questa egli vuole. Ha da morire! â
â E io che male vâho fatto, perchè mi facciate morire? â disse Lucia, buttandosegli inginocchioni davanti.

â Voi! â rispose, con una voce châesprimeva unâira ben diversa, ma unâira tuttavia: â voi! Che bene mi volete voi? Che prova mâavete data? Non vâho io pregata, e pregata, e pregata? E voi: no! no! â
â SĂŹ sĂŹ, â rispose precipitosamente Lucia: â verrò dal curato, domani, ora, se volete; verrò. Tornate quello di prima; verrò. â
â Me lo promettete? â disse Renzo, con una voce e con un viso divenuto, tuttâa un tratto, piĂš umano.
â Ve lo prometto. â
â Me lâavete promesso. â
â Signore, vi ringrazio! â esclamò Agnese, doppiamente contenta.
In mezzo a quella sua gran collera, aveva Renzo pensato di che profitto poteva esser per lui lo spavento di Lucia? E non aveva adoperato un poâ dâartifizio a farlo crescere, per farlo fruttare? Il nostro autore protesta di non ne saper nulla; e io credo che nemmen Renzo non lo sapesse bene. Il fatto sta châera realmente infuriato contro don Rodrigo, e che bramava ardentemente il consenso di Lucia; e quando due forti passioni schiamazzano insieme nel cuor dâun uomo, nessuno, neppure il paziente, può sempre distinguer chiaramente una voce dallâaltra, e dir con sicurezza qual sia quella che predomini.
â Ve lâho promesso, â rispose Lucia, con un tono di rimprovero timido e affettuoso: â ma anche voi avevate promesso di non fare scandoli, di rimettervene al padre…. â
â Oh via! per amor di chi vado in furia? Volete tornare indietro, ora? e farmi fare uno sproposito? â
â No no, â disse Lucia, cominciando a rispaventarsi. â Ho promesso, e non mi ritiro. Ma vedete voi come mi avete fatto promettere. Dio non voglia…. â
â Perchè volete far deâ cattivi augĂšri, Lucia? Dio sa che non facciam male a nessuno. â
â Promettetemi almeno che questa sarĂ lâultima. â
â Ve lo prometto, da povero figliuolo. â
â Ma, questa volta, mantenete poi, â disse Agnese.
Qui lâautore confessa di non sapere unâaltra cosa: se Lucia fosse, in tutto e per tutto, malcontenta dâessere stata spinta ad acconsentire. Noi lasciamo, come lui, la cosa in dubbio.
Renzo avrebbe voluto prolungare il discorso, e fissare, a parte a parte, quello che si doveva fare il giorno dopo; ma era giĂ notte, e le donne glielâaugurarono buona; non parendo loro cosa conveniente che, a quellâora, si trattenesse piĂš a lungo.
La notte però fu a tuttâe tre cosĂŹ buona come può essere quella che succede a un giorno pieno dâagitazione e di guai, e che ne precede uno destinato a unâimpresa importante, e dâesito incerto. Renzo si lasciò veder di buonâora, e concertò con le donne, o piuttosto con Agnese, la grandâoperazione della sera, proponendo e sciogliendo a vicenda difficoltĂ , antivedendo contrattempi, e ricominciando, ora lâuno ora lâaltra, a descriver la faccenda, come si racconterebbe una cosa fatta. Lucia ascoltava; e, senza approvar con parole ciò che non poteva approvare in cuor suo, prometteva di far meglio che saprebbe.
â Anderete voi giĂš al convento, per parlare al padre Cristoforo, come vâha detto ier sera? â domandò Agnese a Renzo.
â Le zucche! â rispose questo: â sapete che diavoli dâocchi ha il padre: mi leggerebbe in viso, come sur un libro, che câè qualcosa per aria; e se cominciasse a farmi dellâinterrogazioni, non potrei uscirne a bene. E poi, io devo star qui, per accudire allâaffare. SarĂ meglio che mandiate voi qualcheduno. â
â Manderò Menico. â
â Va bene, â rispose Renzo; e partĂŹ, per accudire allâaffare, come aveva detto.
Agnese andò a una casa vicina, a cercar Menico, châera un ragazzetto di circa dodici anni, sveglio la sua parte, e che, per via di cugini e di cognati, veniva a essere un poâ suo nipote. Lo chiese ai parenti, come in prestito, per tutto quel giorno, – per un certo servizio, – diceva. Avutolo, lo condusse nella sua cucina, gli diede da colazione, e gli disse che andasse a Pescarenico, e si facesse vedere al padre Cristoforo, il quale lo rimanderebbe poi, con una risposta, quando sarebbe tempo. – Il padre Cristoforo, quel bel vecchio, tu sai, con la barba bianca, quello che chiamano il santo…
â Ho capito, â disse Menico: â quello che ci accarezza sempre, noi altri ragazzi, e ci dĂ , ogni tanto, qualche santino. â
â Appunto, Menico. E se ti dirĂ che tu aspetti qualche poco, lĂŹ vicino al convento, non ti sviare: bada di non andar, con deâ compagni, al lago, a veder pescare, nè a divertirti con le reti attaccate al muro ad asciugare, nè a far quellâaltro tuo giochetto solito…
Bisogna saper che Menico era bravissimo per fare a rimbalzello; e si sa che tutti, grandi e piccoli, facciam volentieri le cose alle quali abbiamo abilitĂ : non dico quelle sole.

â Poh! zia; non son poi un ragazzo. â â Bene, abbi giudizio; e, quando tornerai con la risposta… guarda; queste due belle parpagliole nuove son per te. â
â Datemele ora, châè lo stesso. â
â No, no, tu le giocheresti. Va, e portati bene; che nâavrai anche di piĂš. â
Nel rimanente di quella lunga mattinata, si videro certe novitĂ che misero non poco in sospetto lâanimo giĂ conturbato delle donne. Un mendico, nè rifinito nè cencioso come i suoi pari, e con un non so che dâoscuro e di sinistro nel sembiante, entrò a chieder la caritĂ , dando in qua e in lĂ certâocchiate da spione. Gli fu dato un pezzo di pane, che ricevette e ripose, con unâindifferenza mal dissimulata.

Si trattenne poi, con una certa sfacciataggine, e, nello stesso tempo, con esitazione, facendo molte domande, alle quali Agnese sâaffrettò di risponder sempre il contrario di quello che era. Movendosi, come per andar via, finse di sbagliar lâuscio, entrò in quello che metteva alla scala, e lĂŹ diede unâaltra occhiata in fretta, come potè. Gridatogli dietro: – ehi ehi! dove andate galantuomo? di qua! di qua! – tornò indietro, e uscĂŹ dalla parte che gli veniva indicata, scusandosi, con una sommissione, con unâumiltĂ affettata, che stentava a collocarsi nei lineamenti duri di quella faccia. Dopo costui, continuarono a farsi vedere, di tempo in tempo, altre strane figure. Che razza dâuomini fossero, non si sarebbe potuto dir facilmente; ma non si poteva creder neppure che fossero quegli onesti viandanti che volevan parere. Uno entrava col pretesto di farsi insegnar la strada; altri, passando davanti allâuscio, rallentavano il passo, e guardavan sottâocchio nella stanza, a traverso il cortile, come chi vuol vedere senza dar sospetto. Finalmente, verso il mezzogiorno, quella fastidiosa processione finĂŹ. Agnese sâalzava ogni tanto, attraversava il cortile, sâaffacciava allâuscio di strada, guardava a destra e a sinistra, e tornava dicendo: â nessunoâ: parola che proferiva con piacere, e che Lucia con piacere sentiva, senza che nè lâuna nè lâaltra ne sapessero ben chiaramente il perchè. Ma ne rimase a tuttâe due una non so quale inquietudine, che levò loro, e alla figliuola principalmente, una gran parte del coraggio che avevan messo in serbo per la sera.
Convien però che il lettore sappia qualcosa di piĂš preciso, intorno a queâ ronzatori misteriosi: e, per informarlo di tutto, dobbiam tornare un passo indietro, e ritrovar don Rodrigo, che abbiam lasciato ieri, solo in una sala del suo palazzotto, al partir del padre Cristoforo.
Don Rodrigo, come abbiam detto, misurava innanzi e indietro, a passi lunghi, quella sala, dalle pareti della quale pendevano ritratti di famiglia, di varie generazioni.
Quando si trovava col viso a una parete, e voltava, si vedeva in faccia un suo antenato guerriero, terrore deâ nemici e deâ suoi soldati, torvo nella guardatura, coâ capelli corti e ritti, coâ baffi tirati e a punta, che sporgevan dalle guance, col mento obliquo: ritto in piedi lâeroe, con le gambiere, coâ cosciali, con la corazza, coâ bracciali, coâ guanti, tutto di ferro; con la destra sul fianco, e la sinistra sul pomo della spada. Don Rodrigo lo guardava; e quando gli era arrivato sotto, e voltava, ecco in faccia un altro antenato, magistrato, terrore deâ litiganti e degli avvocati, a sedere sur una gran seggiola coperta di velluto rosso, ravvolto in unâampia toga nera; tutto nero, fuorchè un collare bianco, con due larghe facciole, e una fodera di zibellino arrovesciata (era il distintivo deâ senatori, e non lo portavan che lâinverno, ragion per cui non si troverĂ mai un ritratto di senatore vestito dâestate); macilento, con le ciglia aggrottate: teneva in mano una supplica, e pareva che dicesse: vedremo.

Di qua una matrona, terrore delle sue cameriere; di lĂ un abate, terrore deâ suoi monaci: tutta gente in somma che aveva fatto terrore, e lo spirava ancora dalle tele.

Alla presenza di tali memorie, don Rodrigo tanto piĂš sâarrovellava, si vergognava, non poteva darsi pace, che un frate avesse osato venirgli addosso, con la prosopopea di Nathan. Formava un disegno di vendetta, lâabbandonava, pensava come soddisfare insieme alla passione, e a ciò che chiamava onore; e talvolta (vedete un poco!) sentendosi fischiare ancora agli orecchi quellâesordio di profezia, si sentiva venir, come si dice, i bordoni, e stava quasi per deporre il pensiero delle due soddisfazioni. Finalmente, per far qualche cosa, chiamò un servitore, e gli ordinò che lo scusasse con la compagnia, dicendo châera trattenuto da un affare urgente. Quando quello tornò a riferire che queâ signori eran partiti, lasciando i loro rispetti: – e il conte Attilio? – domandò, sempre camminando, don Rodrigo.
â Ă uscito con queâ signori, illustrissimo. â
â Bene: sei persone di seguito, per la passeggiata: subito. La spada, la cappa, il cappello: subito. â
Il servitore partĂŹ, rispondendo con un inchino; e, poco dopo, tornò, portando la ricca spada, che il padrone si cinse; la cappa, che si buttò sulle spalle; il cappello a gran penne, che mise e inchiodò, con una manata, fieramente sul capo: segno di marina torbida. Si mosse, e, alla porta, trovò i sei ribaldi tutti armati, i quali, fatto ala, e inchinatolo, gli andaron dietro. PiĂš burbero, piĂš superbioso, piĂš accigliato del solito, uscĂŹ, e andò passeggiando verso Lecco. I contadini, gli artigiani, al vederlo venire, si ritiravan rasente al muro, e di lĂŹ facevano scappellate e inchini profondi, ai quali non rispondeva. Come inferiori, lâinchinavano anche quelli che da questi eran detti signori; chè, in queâ contorni, non ce nâera uno che potesse, a mille miglia, competer con lui, di nome, di ricchezze, dâaderenze e della voglia di servirsi di tutto ciò, per istare al di sopra degli altri. E a questi corrispondeva con una degnazione contegnosa. Quel giorno non avvenne, ma quando avveniva che sâincontrasse col signor castellano spagnolo, lâinchino allora era ugualmente profondo dalle due parti; la cosa era come tra due potentati, i quali non abbiano nulla da spartire tra loro; ma, per convenienza, fanno onore al grado lâuno dellâaltro. Per passare un poco la mattana, e per contrapporre allâimmagine del frate che gli assediava la fantasia, immagini in tutto diverse, don Rodrigo entrò, quel giorno, in una casa, dove andava, per il solito, molta gente, e dove fu ricevuto con quella cordialitĂ affaccendata e rispettosa, châè riserbata agli uomini che si fanno molto amare o molto temere; e, a notte giĂ fatta, tornò al suo palazzotto. Il conte Attilio era anche lui tornato in quel momento; e fu messa in tavola la cena, durante la quale, don Rodrigo fu sempre sopra pensiero, e parlò poco.
â Cugino, quando pagate questa scommessa? â disse, con un fare di malizia e di scherno, il conte Attilio, appena sparecchiato, e andati via i servitori.
â San Martino non è ancor passato. â
â Tantâè che la paghiate subito; perchè passeranno tutti i santi del lunario, prima che… â
â Questo è quel che si vedrĂ . â
â Cugino, voi volete fare il politico; ma io ho capito tutto, e son tanto certo dâaver vinta la scommessa, che son pronto a farne unâaltra. â
â Sentiamo. â
â Che il padre…… il padre…… che so io? quel frate in somma vâha convertito. â
â Eccone unâaltra delle vostre. â
â Convertito, cugino; convertito, vi dico. Io per me, ne godo. Sapete che sarĂ un bello spettacolo vedervi tutto compunto, e con gli occhi bassi! E che gloria per quel padre! Come sarĂ tornato a casa gonfio e pettoruto! Non son pesci che si piglino tutti i giorni, nè con tutte le reti. Siate certo che vi porterĂ per esempio; e, quando anderĂ a far qualche missione un poâ lontano, parlerĂ deâ fatti vostri. Mi par di sentirlo. â E qui, parlando col naso, e accompagnando le parole con gesti caricati, continuò, in tono di predica: â in una parte di questo mondo, che, per degni rispetti, non nomino, viveva, uditori carissimi, e vive tuttavia, un cavaliere scapestrato, amico piĂš delle femmine, che degli uomini dabbene, il quale, avvezzo a far dâogni erba un fascio, aveva messo gli occhi…. â
â Basta, basta, â interruppe don Rodrigo, mezzo sogghignando, e mezzo annoiato. â Se volete raddoppiar la scommessa, son pronto anchâio. â
â Diavolo! che aveste voi convertito il padre! â
â Non mi parlate di colui: e in quanto alla scommessa, san Martino deciderĂ . â La curiositĂ del conte era stuzzicata; non gli risparmiò interrogazioni, ma don Rodrigo le seppe eluder tutte, rimettendosi sempre al giorno della decisione, e non volendo comunicare alla parte avversa disegni che non erano nè incamminati, nè assolutamente fissati.
La mattina seguente, don Rodrigo si destò don Rodrigo. Lâapprensione che quel verrĂ un giorno gli aveva messa in corpo, era svanita del tutto, coâ sogni della notte; e gli rimaneva la rabbia sola, esacerbata anche dalla vergogna di quella debolezza passeggiera. Lâimmagini piĂš recenti della passeggiata trionfale, deglâinchini, dellâaccoglienze, e il canzonare del cugino, avevano contribuito non poco a rendergli lâanimo antico. Appena alzato, fece chiamare il Griso. â Cose grosse, â disse tra sè il servitore a cui fu dato lâordine; perchè lâuomo che aveva quel soprannome, non era niente meno che il capo deâ bravi, quello a cui sâimponevano le imprese piĂš rischiose e piĂš inique, il fidatissimo del padrone, lâuomo tutto suo, per gratitudine e per interesse. Dopo aver ammazzato uno, di giorno, in piazza, era andato ad implorar la protezione di don Rodrigo; e questo, vestendolo della sua livrea, lâaveva messo al coperto da ogni ricerca della giustizia. CosĂŹ, impegnandosi a ogni delitto che gli venisse comandato, colui si era assicurata lâimpunitĂ del primo. Per don Rodrigo, lâacquisto non era stato di poca importanza; perchè il Griso, oltre allâessere, senza paragone, il piĂš valente della famiglia, era anche una prova di ciò che il suo padrone aveva potuto attentar felicemente contro le leggi; di modo che la sua potenza ne veniva ingrandita, nel fatto e nellâopinione.
â Griso! â disse don Rodrigo: â in questa congiuntura, si vedrĂ quel che tu vali. Prima di domani, quella Lucia deve trovarsi in questo palazzo. â
â Non si dirĂ mai che il Griso si sia ritirato da un comando dellâillustrissimo signor padrone. â
â Piglia quanti uomini ti possono bisognare, ordina e disponi, come ti par meglio; purchè la cosa riesca a buon fine. Ma bada sopra tutto, che non le sia fatto male. â
â Signore, un poâ di spavento, perchè la non faccia troppo strepito….. non si potrĂ far di meno. â
â Spavento…. capisco…. è inevitabile. Ma non le si torca un capello; e sopra tutto, le si porti rispetto in ogni maniera. Hai inteso? â
â Signore, non si può levare un fiore dalla pianta, e portarlo a vossignoria, senza toccarlo. Ma non si farĂ che il puro necessario. â
â Sotto la tua sicurtĂ . E…. come farai? â
â Ci stavo pensando, signore. Siam fortunati che la casa è in fondo al paese. Abbiam bisogno dâun luogo per andarci a postare: e appunto câè, poco distante di lĂ , quel casolare disabitato e solo, in mezzo ai campi, quella casa… vossignoria non saprĂ niente di queste cose… una casa che bruciò, pochi anni sono, e non hanno avuto danari da riattarla, e lâhanno abbandonata, e ora ci vanno le streghe:
ma non è sabato, e me ne rido. Questi villani, che son pieni dâubbie, non ci bazzicherebbero, in nessuna notte della settimana, per tutto lâoro del mondo: sicchĂŠ possiamo andare a fermarci lĂ , con sicurezza che nessuno verrĂ a guastare i fatti nostri. â
â Va bene; e poi? â
Qui, il Griso a proporre, don Rodrigo a discutere, finchĂŠ dâaccordo ebbero concertata la maniera di condurre a fine lâimpresa, senza che rimanesse traccia degli autori, la maniera anche di rivolgere, con falsi indizi, i sospetti altrove, dâimpor silenzio alla povera Agnese, dâincutere a Renzo tale spavento, da fargli passare il dolore, e il pensiero di ricorrere alla giustizia, e anche la volontĂ di lagnarsi; e tutte lâaltre bricconerie necessarie alla riuscita della bricconeria principale. Noi tralasciamo di riferir queâ concerti, perchĂŠ, come il lettore vedrĂ , non son necessari allâintelligenza della storia; e siam contenti anche noi di non doverlo trattener piĂš lungamente a sentir parlamentare queâ due fastidiosi ribaldi. Basta che, mentre il Griso se nâandava, per metter mano allâesecuzione, don Rodrigo lo richiamò, e gli disse: â senti: se per caso, quel tanghero temerario vi desse nellâunghie questa sera, non sarĂ male che gli sia dato anticipatamente un buon ricordo sulle spalle. CosĂŹ, lâordine che gli verrĂ intimato domani di stare zitto, farĂ piĂš sicuramente lâeffetto. Ma non lâandate a cercare, per non guastare quello che piĂš importa: tu mâhai inteso. â
â Lasci fare a me, â rispose il Griso, inchinandosi, con un atto dâossequio e di millanteria; e se nâandò. La mattina fu spesa in giri, per riconoscere il paese. Quel falso pezzente che sâera inoltrato a quel modo nella povera casetta, non era altro che il Griso, il quale veniva per levarne a occhio la pianta: i falsi viandanti eran suoi ribaldi, ai quali, per operare sotto i suoi ordini, bastava una cognizione piĂš superficiale del luogo. E, fatta la scoperta, non sâeran piĂš lasciati vedere, per non dar troppo sospetto.
Tornati che furon tutti al palazzotto, il Griso rese conto, e fissò definitivamente il disegno dellâimpresa; assegnò le parti, diede istruzioni. Tutto ciò non si potè fare, senza che quel vecchio servitore, il quale stava a occhi aperti, e a orecchi tesi, sâaccorgesse che qualche gran cosa si macchinava. A forza di stare attento e di domandare; accattando una mezza notizia di qua, una mezza di lĂ , commentando tra sè una parola oscura, interpretando un andare misterioso, tanto fece, che venne in chiaro di ciò che si doveva eseguir quella notte. Ma quando ci fu riuscito, essa era giĂ poco lontana, e giĂ una piccola vanguardia di bravi era andata a imboscarsi in quel casolare diroccato. Il povero vecchio, quantunque sentisse bene a che rischioso giuoco giocava, e avesse anche paura di portare il soccorso di Pisa, pure non volle mancare: uscĂŹ, con la scusa di prendere un poâ dâaria, e sâincamminò in fretta in fretta al convento, per dare al padre Cristoforo lâavviso promesso. Poco dopo, si mossero gli altri bravi, e discesero spicciolati, per non parere una compagnia: il Griso venne dopo; e non rimase indietro che una bussola, la quale doveva esser portata al casolare, a sera inoltrata; come fu fatto. Radunati che furono in quel luogo, il Griso spedĂŹ tre di coloro allâosteria del paesetto: uno che si mettesse sullâuscio, a osservar ciò che accadesse nella strada, e a veder quando tutti gli abitanti fossero ritirati: gli altri due che stessero dentro a giocare e a bere, come dilettanti; e attendessero intanto a spiare se qualche cosa da spiare ci fosse. Egli, col grosso della truppa, rimase nellâagguato ad aspettare.
Il povero vecchio trottava ancora; i tre esploratori arrivavano al loro posto; il sole cadeva; quando Renzo entrò dalle donne, e disse: â Tonio e Gervaso mâaspettan fuori: vo con loro allâosteria, a mangiare un boccone; e, quando sonerĂ lâave maria, verremo a prendervi. Su, coraggio, Lucia! tutto dipende da un momento. â Lucia sospirò, e ripetè: â coraggio, â con una voce che smentiva la parola.
Quando Renzo e i due compagni giunsero allâosteria, vi trovaron quel tale giĂ piantato in sentinella, che ingombrava mezzo il vano della porta, appoggiato con la schiena a uno stipite, con le braccia incrociate sul petto; e guardava e riguardava, a destra e a sinistra, facendo lampeggiare ora il bianco, ora il nero di due occhi grifagni.

Un berretto piatto di velluto chermisi, messo storto, gli copriva la metĂ del ciuffo, che, dividendosi sur una fronte fosca, girava, da una parte e dallâaltra, sotto gli orecchi, e terminava in trecce, fermate con un pettine sulla nuca. Teneva sospeso in una mano un grosso randello; arme propriamente, non ne portava in vista; ma, solo a guardargli in viso, anche un fanciullo avrebbe pensato che doveva averne sotto quante ce ne poteva stare. Quando Renzo, châera innanzi agli altri, fu lĂŹ per entrare, colui, senza scomodarsi, lo guardò fisso fisso; ma il giovine, intento a schivare ogni questione, come suole ognuno che abbia unâimpresa scabrosa alle mani, non fece vista dâaccorgersene, non disse neppure: fatevi in lĂ ; e, rasentando lâaltro stipite, passò per isbieco, col fianco innanzi, per lâapertura lasciata da quella cariatide. I due compagni dovettero far la stessa evoluzione, se vollero entrare. Entrati, videro gli altri, deâ quali avevan giĂ sentita la voce, cioè queâ due bravacci, che seduti a un canto della tavola, giocavano alla mora, gridando tuttâe due insieme (lĂŹ, è il giuoco che lo richiede), e mescendosi or lâuno or lâaltro da bere, con un gran fiasco châera tra loro. Questi pure guardaron fisso la nuova compagnia; e un deâ due specialmente, tenendo una mano in aria, con tre ditacci tesi e allargati, e avendo la bocca ancora aperta, per un gran ” sei ” che nâera scoppiato fuori in quel momento, squadrò Renzo da capo a piedi; poi diede dâocchio al compagno, poi a quel dellâuscio, che rispose con un cenno del capo. Renzo insospettito e incerto guardava ai suoi due convitati, come se volesse cercare neâ loro aspetti unâinterpretazione di tutti queâ segni: ma i loro aspetti non indicavano altro che un buon appetito. Lâoste guardava in viso a lui, come per aspettar gli ordini: egli lo fece venir con sè in una stanza vicina, e ordinò la cena.
â Chi sono queâ forestieri? â gli domandò poi a voce bassa, quando quello tornò, con una tovaglia grossolana sotto il braccio, e un fiasco in mano.
â Non li conosco, â rispose lâoste, spiegando la tovaglia.
â Come? nè anche uno? â
â Sapete bene, â rispose ancora colui, stirando, con tuttâe due le mani, la tovaglia sulla tavola, â che la prima regola del nostro mestiere, è di non domandare i fatti degli altri: tanto che, fin le nostre donne non son curiose. Si starebbe freschi, con tanta gente che va e viene: è sempre un porto di mare: quando le annate son ragionevoli, voglio dire; ma stiamo allegri, che tornerĂ il buon tempo. A noi basta che gli avventori siano galantuomini: chi siano poi, o chi non siano, non fa niente. E ora vi porterò un piatto di polpette, che le simili non le avete mai mangiate. â
â Come potete sapere…? â ripigliava Renzo; ma lâoste, giĂ avviato alla cucina, seguitò la sua strada. E lĂŹ, mentre prendeva il tegame delle polpette summentovate, gli sâaccostò pian piano quel bravaccio che aveva squadrato il nostro giovine, e gli disse sottovoce: â Chi sono queâ galantuomini? â
â Buona gente qui del paese, â rispose lâoste, scodellando le polpette nel piatto.

â Va bene; ma come si chiamano? chi sono? â insistette colui, con voce alquanto sgarbata.
â Uno si chiama Renzo, â rispose lâoste, pur sottovoce: â un buon giovine, assestato; filatore di seta, che sa bene il suo mestiere. Lâaltro è un contadino che ha nome Tonio: buon camerata, allegro: peccato che nâabbia pochi; che gli spenderebbe tutti qui. Lâaltro è un sempliciotto, che mangia però volentieri, quando gliene danno. Con permesso. â
E, con uno sgambetto, uscĂŹ tra il fornello e lâinterrogante; e andò a portare il piatto a chi si doveva. â Come potete sapere, â riattaccò Renzo, quando lo vide ricomparire, â che siano galantuomini, se non li conoscete? â
â Le azioni, caro mio: lâuomo si conosce allâazioni. Quelli che bevono il vino senza criticarlo, che pagano il conto senza tirare, che non metton su lite con gli altri avventori, e se hanno una coltellata da consegnare a uno, lo vanno ad aspettar fuori, e lontano dallâosteria, tanto che il povero oste non ne vada di mezzo, quelli sono i galantuomini. Però, se si può conoscer la gente bene, come ci conosciamo tra noi quattro, è meglio. E che diavolo vi vien voglia di saper tante cose, quando siete sposo, e dovete aver tuttâaltro in testa? e con davanti quelle polpette, che farebbero resuscitare un morto? â CosĂŹ dicendo, se ne tornò in cucina.
Il nostro autore, osservando al diverso modo che teneva costui nel soddisfare alle domande, dice châera un uomo cosĂŹ fatto, che, in tutti i suoi discorsi, faceva professione dâesser molto amico deâ galantuomini in generale; ma, in atto pratico, usava molto maggior compiacenza con quelli che avessero riputazione o sembianza di birboni. Che carattere singolare! eh?
La cena non fu molto allegra. I due convitati avrebbero voluto godersela con tutto loro comodo; ma lâinvitante, preoccupato di ciò che il lettore sa, e infastidito, e anche un poâ inquieto del contegno strano di quegli sconosciuti, non vedeva lâora dâandarsene. Si parlava sottovoce, per causa loro; ed eran parole tronche e svogliate.
â Che bella cosa, â scappò fuori di punto in bianco Gervaso, â che Renzo voglia prender moglie, e abbia bisogno..! â Renzo gli fece un viso brusco. â Vuoi stare zitto, bestia? â gli disse Tonio, accompagnando il titolo con una gomitata. La conversazione fu sempre piĂš fredda, fino alla fine. Renzo, stando indietro nel mangiare, come nel bere, attese a mescere ai due testimoni, con discrezione, in maniera di dar loro un poâ di brio, senza farli uscir di cervello. Sparecchiato, pagato il conto da colui che aveva fatto men guasto, dovettero tutti e tre passar novamente davanti a quelle facce, le quali tutte si voltarono a Renzo, come quandâera entrato. Questo, fatti châebbe pochi passi fuori dellâosteria, si voltò indietro, e vide che i due che aveva lasciati seduti in cucina, lo seguitavano: si fermò allora, coâ suoi compagni, come se dicesse: vediamo cosa voglion da me costoro. Ma i due, quando sâaccorsero dâessere osservati, si fermarono anchâessi, si parlaron sottovoce, e tornarono indietro. Se Renzo fosse stato tanto vicino da sentir le loro parole, gli sarebbero parse molto strane. â Sarebbe però un bellâonore, senza contar la mancia, â diceva uno deâ malandrini, â se, tornando al palazzo, potessimo raccontare dâavergli spianate le costole in fretta in fretta, e cosĂŹ da noi, senza che il signor Griso fosse qui a regolare. â
â E guastare il negozio principale! â rispondeva lâaltro. â Ecco: sâè avvisto di qualche cosa; si ferma a guardarci. Ih! se fosse piĂš tardi! Torniamo indietro, per non dar sospetto. Vedi che vien gente da tutte le parti: lasciamoli andar tutti a pollaio. â
Câera in fatti quel brulichĂŹo, quel ronzĂŹo che si sente in un villaggio, sulla sera, e che, dopo pochi momenti, dĂ luogo alla quiete solenne della notte. Le donne venivan dal campo, portandosi in collo i bambini, e tenendo per la mano i ragazzi piĂš grandini, ai quali facevan dire le divozioni della sera; venivan gli uomini, con le vanghe, e con le zappe sulle spalle.

Allâaprirsi degli usci, si vedevan luccicare qua e lĂ i fuochi accesi per le povere cene: si sentiva nella strada barattare i saluti, e qualche parola, sulla scarsitĂ della raccolta, e sulla miseria dellâannata; e piĂš delle parole, si sentivano i tocchi misurati e sonori della campana, che annunziava il finir del giorno.
Quando Renzo vide che i due indiscreti sâeran ritirati, continuò la sua strada nelle tenebre crescenti, dando sottovoce ora un ricordo, ora un altro, ora allâuno, ora allâaltro fratello. Arrivarono alla casetta di Lucia, châera giĂ notte.
Tra il primo pensiero dâuna impresa terribile, e lâesecuzione di essa, (ha detto un barbaro che non era privo dâingegno) lâintervallo è un sogno, pieno di fantasmi e di paure. Lucia era, da molte ore, nellâangosce dâun tal sogno: e Agnese, Agnese medesima, lâautrice del consiglio, stava sopra pensiero, e trovava a stento parole per rincorare la figlia. Ma, al momento di destarsi, al momento cioè di dar principio allâopera, lâanimo si trova tutto trasformato. Al terrore e al coraggio che vi contrastavano, succede un altro terrore e un altro coraggio: lâimpresa sâaffaccia alla mente, come una nuova apparizione: ciò che prima spaventava di piĂš, sembra talvolta divenuto agevole tuttâa un tratto: talvolta comparisce grande lâostacolo a cui sâera appena badato; lâimmaginazione dĂ indietro sgomentata; le membra par che ricusino dâubbidire; e il cuore manca alle promesse che aveva fatte con piĂš sicurezza. Al picchiare sommesso di Renzo, Lucia fu assalita da tanto terrore, che risolvette, in quel momento, di soffrire ogni cosa, di star sempre divisa da lui, piuttosto châeseguire quella risoluzione; ma quando si fu fatto vedere, ed ebbe detto: â son qui, andiamo; â quando tutti si mostraron pronti ad avviarsi, senza esitazione, come a cosa stabilita, irrevocabile; Lucia non ebbe tempo nè forza di far difficoltĂ , e, come strascinata, prese tremando un braccio della madre, un braccio del promesso sposo, e si mosse con la brigata avventuriera.
Zitti zitti, nelle tenebre, a passo misurato, usciron dalla casetta, e preser la strada fuori del paese. La piĂš corta sarebbe stata dâattraversarlo: chè sâandava diritto alla casa di don Abbondio; ma scelsero quella, per non esser visti. Per viottole, tra gli orti e i campi, arrivaron vicino a quella casa, e lĂŹ si divisero. I due promessi rimaser nascosti dietro lâangolo di essa; Agnese con loro, ma un poâ piĂš innanzi, per accorrere in tempo a fermar Perpetua, e a impadronirsene; Tonio, con lo scempiato di Gervaso, che non sapeva far nulla da sè, e senza il quale non si poteva far nulla, sâaffacciaron bravamente alla porta, e picchiarono.

â Chi è, a questâora? â gridò una voce dalla finestra, che sâaprĂŹ in quel momento: era la voce di Perpetua. â Ammalati non ce nâè, châio sappia. Ă forse accaduta qualche disgrazia? â
â Son io, â rispose Tonio, â con mio fratello, che abbiam bisogno di parlare al signor curato. â â Ă ora da cristiani questa? â disse bruscamente Perpetua. â Che discrezione? Tornate domani. â
â Sentite: tornerò o non tornerò: ho riscosso non so che danari, e venivo a saldar quel debituccio che sapete: aveva qui venticinque belle berlinghe nuove; ma se non si può, pazienza: questi, so come spenderli, e tornerò quando nâabbia messi insieme degli altri. â
â Aspettate, aspettate: vo e torno. Ma perchè venire a questâora? â
â Gli ho ricevuti, anchâio, poco fa; e ho pensato, come vi dico, che, se li tengo a dormir con me, non so di che parere sarò domattina. Però, se lâora non vi piace, non so che dire: per me, son qui; e se non mi volete, me ne vo. â
â No, no, aspettate un momento: torno con la risposta. â CosĂŹ dicendo, richiuse la finestra. A questo punto, Agnese si staccò dai promessi, e, detto sottovoce a Lucia: â coraggio; è un momento; è come farsi cavar un dente,â si riunĂŹ ai due fratelli, davanti allâuscio; e si mise a ciarlare con Tonio, in maniera che Perpetua, venendo ad aprire, dovesse credere che si fosse abbattuta lĂŹ a caso, e che Tonio lâavesse trattenuta un momento.
