
Operazione Pasqualino dai Racconti romani di Alberto Moravia
28 Dicembre 2019
Nella nebbia di Giovanni Pascoli
28 Dicembre 2019Introduzione al Testo: “Nei campi” di Guy de Maupassant
Il racconto “Nei campi” di Guy de Maupassant si apre con una descrizione semplice ma evocativa della vita contadina, ambientata in un contesto rurale caratterizzato da povertà e fatica. Le due capanne, situate ai piedi di una collina nei pressi di una piccola città termale, rappresentano il fulcro di un microcosmo familiare dove la sopravvivenza quotidiana è garantita solo dal duro lavoro nei campi. Attraverso questa cornice, Maupassant esplora temi universali come la lotta per la vita, la solidarietà tra esseri umani e le gioie e i dolori dell’esistenza contadina.
ANALISI
1. 🌟 Contesto Generale
Il testo si concentra sulle vite di due famiglie contadine che vivono fianco a fianco, impegnate nella coltivazione di una terra infeconda. Nonostante la durezza della loro condizione, le famiglie trovano modo di coesistere e di affrontare insieme le difficoltà quotidiane. La presenza dei bambini, che riempiono l’aria con il loro chiasso incessante, aggiunge un tocco di vitalità e speranza alla scena, contrastando con la monotonia e la fatica del lavoro nei campi.
Maupassant utilizza questo scenario per riflettere sulla natura umana e sulle dinamiche sociali delle classi più umili. La narrazione, realistica e priva di sentimentalismi, mette in luce la resilienza e la dignità di chi vive in condizioni difficili.
2. 🖼️ Personaggi Principali
I Contadini
- Vita di Fatica : I due contadini rappresentano l’archetipo del lavoratore rurale, costretto a lottare quotidianamente contro una terra ingrata per garantire il sostentamento della propria famiglia.
- Solidarietà Silenziosa : Sebbene non ci sia un dialogo diretto tra i due protagonisti, la loro vicinanza fisica e la condivisione delle stesse condizioni suggeriscono una forma di mutuo supporto, anche se non esplicitamente dichiarato.
I Bambini
- Simbolo di Vita e Futuro : I figli delle due famiglie, compresi tra i sei anni e i quindici mesi, rappresentano la continuità della vita nonostante le avversità. Il loro chiasso incessante è un segno di energia vitale e di speranza per il futuro.
- Contrasto con la Fatica Adulta : Mentre gli adulti sono impegnati nel duro lavoro, i bambini giocano e corrono liberamente, incarnando l’innocenza e la spensieratezza dell’infanzia.
3. 🌟 Temi Principali
1. Lotta per la Sopravvivenza
Il tema centrale del racconto è la lotta quotidiana per la sopravvivenza. I contadini devono affrontare una terra infeconda e condizioni di vita difficili, ma continuano a lavorare con determinazione, dimostrando una resilienza straordinaria.
2. Solidarietà e Comunità
Nonostante la povertà, le due famiglie vivono fianco a fianco in un clima di tacita solidarietà. Questo aspetto riflette l’importanza della comunità nelle società rurali, dove il sostegno reciproco è fondamentale per superare le difficoltà.
3. Contrasto tra Infanzia e Adulti
La presenza dei bambini introduce un contrasto significativo tra la spensieratezza dell’infanzia e la gravità della vita adulta. Mentre i genitori sono impegnati nel duro lavoro, i figli rappresentano la gioia e la speranza per il futuro.
4. Ciclo della Vita
Il racconto sottolinea il ciclo naturale della vita: nascita, crescita, lavoro e morte. I bambini, simbolo di nuova vita, crescono sotto lo sguardo vigile dei genitori, che sacrificano tutto per garantire loro un futuro migliore.
4. 🎭 Stile e Linguaggio
1. Realismo Sociale
Maupassant adotta uno stile realistico per descrivere la vita contadina, senza indulgere in sentimentalismi o idealizzazioni. La sua narrazione è oggettiva e attenta ai dettagli, restituendo un quadro autentico delle condizioni di vita delle classi più umili.
2. Descrizione Evocativa
L’autore utilizza immagini vivide per descrivere il paesaggio e le attività quotidiane. Ad esempio:
- “Le due capanne erano l’una vicino all’altra, a’ piedi della collina.”
- “Davanti alle due porte, tutta quella piccola marmaglia faceva un chiasso indiavolato.”
Questi dettagli contribuiscono a creare un’atmosfera immersiva che coinvolge il lettore.
3. Simbolismo
- La Terra Infeconda : Simboleggia le difficoltà e le sfide della vita contadina, ma anche la perseveranza e la resilienza umana.
- I Bambini : Rappresentano la speranza e il futuro, un antidoto alla durezza della realtà presente.
5. 🌌 Riflessione Finale
“Nei campi” è un breve ma intenso racconto che offre uno spaccato della vita rurale attraverso la lente del realismo sociale. Guy de Maupassant riesce a catturare la complessità della condizione umana, evidenziando come la lotta per la sopravvivenza possa coesistere con momenti di gioia e speranza. Il testo invita il lettore a riflettere sulla dignità del lavoro e sull’importanza della solidarietà comunitaria.
Riassumendo : 📜 “Nei campi” di Guy de Maupassant è un racconto realistico che esplora temi universali come la lotta per la sopravvivenza, la solidarietà familiare e il ciclo della vita, offrendo un ritratto autentico della condizione contadina. 🌟
6. 📜 “Nei campi” di Guy de Maupassant
Ad Ottavio Mirbeau.
Le due capanne erano l’una vicino all’altra, a’ piedi della collina, nei dintorni di una piccola città di bagni. I due contadini zappavano la terra infeconda per tirare avanti i loro piccini. Ogni famiglia ne aveva quattro. Davanti alle due porte, tutta quella piccola marmaglia faceva un chiasso indiavolato, dalla mattina alla sera. I due figliuoli primogeniti avevano sei anni, e gli ultimi quindici mesi circa; i matrimonî e poi le nascite avevano avuto luogo quasi nello stesso tempo nell’una e nell’altra famiglia.
Le due madri distinguevano appena i loro figliuoli in quell’assembramento; i genitori li confondevano. Gli otto nomi ballavano nella loro testa, mischiandosi sempre; e quando ne dovevano chiamare uno, gli uomini spesso ne gridavano tre, prima di dire il vero!
La prima di quelle due capanne era abitata dai Tuvache, che avevano tre femminuccie ed un maschietto; l’altra ricoverava i Vallin, che avevano una fanciulla e tre marmocchî.
Tutti questi bambini dovevano accontentarsi di zuppa, di patate e di aria, aria saluberrima. Alle sette, la mattina, poi a mezzogiorno, poi alle sei, la sera, le mamme chiamavano tutti i piccini per dar loro il pasto, come i guardiani d’oche radunano le loro bestiuole. Sedevano, a seconda della loro età, davanti alla tavola di legno verniciato da cinquant’anni d’uso. L’ultimo marmocchio aveva appena la bocca a livello della tavola. Davanti a loro veniva posato un gran piatto pieno di pane inzuppato nell’acqua, nella quale erano state cotte le patate, un mezzo cavolo e tre cipolle; e tutti mangiavano fino a che non avevano più fame. Le mamme imboccavano i più piccini. Un pochino di carne nella pignatta, la domenica era una festa per tutti; e il padre allora tardava ad alzarsi da tavola, dicendo:
— Quanto lo farei volentieri tutti i giorni!
Nel pomeriggio d’un giorno di agosto, una elegante carrozza si fermò ad un tratto davanti alle due capanne; e una giovane signora, che guidava da sè stessa, disse al signore che le sedeva a lato:
— Oh! guarda, Enrico, che reggimento di bimbi! Eppure sono belli, rotolati, come majaletti, nella polvere!
L’uomo non rispose, abituato a quelle ammirazioni che erano un dolore e, quasi, un rimprovero per lui.
La giovane signora soggiunse:
— Bisogna ch’io li baci! Oh! quanto desidererei di averne uno come quello; il più piccino.
E, saltando dalla carrozza, corse ai fanciulli, prese uno dei due ultimi, quello dei Tuvache, e, alzandolo fra le braccia, gli baciò, appassionatamente, le guancie sudicie, i capelli biondi arricciati e impomatati di terra, le manine grassottelle che il bambino agitava per liberarsi da quelle nojose carezze.
Poi rimontò nella vettura e il cavallo corse al trotto. Ma ritornò la settimana dopo; si sedette anche lei in terra, prese il marmocchio fra le braccia, lo rimpinzò di dolci, ne diede a tutti gli altri; e ruzzò con loro come una bambina, mentre il marito l’aspettava pazientemente nella elegante carrozza.
Ella ritornò ancora, fece conoscenza con i genitori; ricomparve tutti i giorni, con le tasche piene di leccornie e di soldi.
Era la moglie del signor Enrico d’Hubières.
Una mattina, appena arrivati, il marito discese con lei; e, senza fermarsi co’ bimbi, che ora la conoscevano, entrò nella capanna.
I contadini stavano tagliando la legna per cuocere la minestra; si alzarono, sorpresi; diedero loro le sedie ed attesero gli ordini.
Allora la giovane signora, con voce tremante, disse:
— Brava gente, vengo a trovarvi, perchè desidererei… desidererei condurre con me il vostro… il vostro piccino…
I contadini, stupefatti e rimasti senza idee, non risposero.
Ella riprese fiato e continuò:
— Noi non abbiamo figliuoli; siamo soli, io e mio marito. Ne avremmo cura… ce lo volete dare?
La madre incominciò a capire. E domandò:
— Volete prenderci Carlino? Ah! questo poi no, no, davvero.
Allora intervenne il signor d’Hubières:
— Mia moglie si è spiegata male. Noi vogliamo adottarlo; ma ritornerà a vedervi. Se si porta bene, come speriamo, sarà il nostro erede. Se, per caso, avremo figli, il vostro bambino dividerà con loro, in parti uguali, l’eredità. Ma se non rispondesse alle nostre cure, gli daremo, appena maggiorenne, ventimila lire, che saranno immediatamente depositate a nome suo, da un notajo. E, siccome abbiamo pensato anche a voi, vi sarà passata, vita natural durante, una rendita di cento lire al mese. Avete capito?
La contadina si era alzata, furibonda.
— Voi volete che vi vendiamo Carlino? Ah! no; non sono cose che si domandano ad una madre, queste; no. Sarebbe abbominevole!
L’uomo non diceva nulla, serio e pensoso, ma approvava quello che diceva la moglie con un movimento continuo della testa.
La signora d’Hubières, accorata, si mise a piangere, e, rivolgendosi al marito, colla voce piena di singhiozzi, una voce di bambina che ha sempre avuto soddisfatti tutti i desiderî, balbettò:
— Non vogliono, Enrico, non vogliono!
Allora fecero un ultimo tentativo.
— Ma, amici miei, pensate all’avvenire del vostro bambino, alla sua felicità, a…
La contadina, esasperata, gli tagliò la parola:
— Abbiamo veduto, abbiamo capito, abbiamo pensato a tutto… Andatevene, e che non vi vegga più qui. Come è mai permesso di volersi prendere un angioletto come questo?
Allora la signora d’Hubières, nell’uscire, si avvide che ve n’erano due di piccini, e domandò, colle lagrime agli occhi, con una tenacità di donna malavvezza che non vuole mai aspettare:
— Ma quell’altro piccino non è vostro?
Babbo Tuvache rispose:
— No, è dei vicini; potete andare da loro, se volete.
E rientrò nella sua capanna, che risuonava della voce sdegnata della moglie.
I Vallin erano a tavola, e mangiavano delle fette di pane, sulle quali piano piano mettevano, con parsimonia, un po’ di burro, con la punta di un coltello, e le riponevano sopra un piatto che serviva a tutti e due.
La signora d’Hubières ricominciò le sue proposte; ma con maggiore insinuazione, con certe precauzioni oratorie, con astuzia.
I contadini alzarono la testa in segno di rifiuto; ma, quando seppero che avrebbero avuto cento lire al mese, si guardarono in faccia, si consultarono con la coda dell’occhio, vivamente commossi.
Stettero, per molto tempo, zitti, torturati dalla speranza, esitanti. Finalmente la moglie domandò:
— Che ne dici, uomo?
Egli pronunziò, come se dicesse una sentenza, queste parole:
— Dico che la proposta non mi dispiace.
Allora la signora d’Hubières, che tremava dall’angoscia, parlò dell’avvenire del loro bambino, della sua felicità, e di tutto il denaro che poi avrebbe potuto dare ai genitori.
Il contadino domandò:
— La rendita di mille e duecento lire verrà promessa davanti al notajo?
Il signor d’Hubières rispose:
— Ma, certo, e anche domani, se volete.
La fattoressa, che meditava, soggiunse:
— Cento lire al mese non sono sufficienti per privarci di lui, chè potrà lavorare fra qualche anno, questo bambino; ci vorrebbero centoventi lire.
La signora d’Hubières, battendo i piedi per l’impazienza, li accordò subito; e, siccome voleva portar via il fanciullo, diede cento lire in dono, mentre il marito faceva la scritta.
Il sindaco ed un vicino, chiamati lì, servirono da testimonî compiacenti.
E la giovane signora, allegra e contenta, si portò via il marmocchio urlante, come si porta via da una bottega un giocattolo agognato.
I Tuvache, sulla loro porta, la guardavano partire, muti, serî, rimpiangenti, forse, il loro rifiuto.
Non si udì più parlare di Ninetto Vallin. I genitori, ogni mese, andavano a riscuotere le centoventi lire dal notajo; e si erano bisticciati con i loro vicini, perchè mamma Tuvache li tempestava d’insolenze, ripetendo sempre, di porta in porta, che bisognava essere senza cuore per vendere i proprî figliuoli, che era un orrore, una barbarie, una depravazione!…
E, talvolta, ella si prendeva Carlino tra le braccia, con ostentazione, dicendogli, come se avesse potuto comprendere:
— Non ti ho venduto, io, non ti ho venduto, bello mio. Non vendo i miei figliuoli, io. Non sono ricca; ma non vendo i figliuoli, io; capisci?
E, per anni ed anni, fu così ogni giorno; ogni giorno vociferava allusioni grossolane, davanti alla porta, tanto che erano udite nella capanna vicina. Mamma Tuvache aveva finito per credersi superiore a tutte le mamme del villaggio, perchè non aveva venduto Carlino. E chi parlava di lei diceva:
— Lo so che vi era un’attrattiva potente, lo so; ma ella si è condotta da buona madre di famiglia.
Veniva portata ad esempio; e Carlino che era allora in sui diciotto anni, cresciuto con questa idea, che tutti gli ripetevano, senza tregua, anch’egli si giudicava superiore ai compagni, perchè i genitori non lo avevano venduto.
I Vallin vivacchiavano, grazie alla pensione. Il furore inestinguibile dei Tuvache, rimasti poveri, proveniva da ciò.
Il loro primogenito dovette andare sotto le armi. Il secondo morì. Carlino restò solo a penare con il vecchio padre per dar da mangiare alla madre ed alla sorella.
Aveva ventun’anni, quando una mattina una bellissima carrozza si fermò davanti alle due capanne. Un giovane signore, con una catena d’oro all’orologio, scese; dando la mano ad una vecchia signora dai capelli bianchi, che gli disse:
— È quella là, figlio mio, la seconda capanna.
Ed egli entrò, come in casa propria, nella dimora dei Vallin.
La vecchia madre lavava un grembiale; il padre infermo sonnecchiava vicino al focolare. Tutti e due alzarono la testa, ed il giovane signore disse:
— Buon giorno, babbo; buon giorno, mamma.
Essi si guardarono in faccia, stupiti. La contadina lasciò cadere, dalla commozione, il grembiale nell’acqua e balbettò:
— Sei tu, figlio mio? sei tu?
Egli l’abbracciò forte forte, e ripeteva:
— Buon giorno, mamma: — mentre il vecchio, tutto tremante, diceva, con la calma che gli era abituale: — Eccoti di ritorno, Nino! — come se l’avesse veduto un mese prima soltanto.
E, quando si riconobbero, i genitori vollero subito uscire per il villaggio a farlo vedere. Venne condotto dal sindaco, dal segretario, dal curato, dal maestro.
Carlino, in piedi, sulla porta della capanna, li vedeva passare.
La sera, a cena, egli disse ai vecchî:
— Dovete essere stati abbastanza sciocchi da lasciar prendere quel marmocchio ai Vallin.
La madre rispose ostinatamente:
— Non volemmo vendere i figliuoli, noi.
Il padre non diceva nulla.
Il figlio soggiunse:
— Non era un sacrificio, quello.
Allora babbo Tuvache, con voce piena di collera, disse:
— Rimproveraci, dunque, di averti tenuto.
Ed il giovane, brutalmente:
— Sì, ve lo rimprovero. Siete stati voi la causa della mia infelicità.
La vecchia si alzò e, piangendo, andò a prendere nella credenza un pezzo di pane, del quale dava un boccone a ciascuno mentre camminavano. Poi, con le gote rigate dalle lagrime, prese il suo posto e seguitò a mangiare, così come facevano le povere bestiuole, delle quali ella aveva cura. Gemeva, inghiottendo a sorsi il cucchiaio di minestra, di cui lasciava cadere la metà sulla tavola.
— Stentare la vita per tirare avanti i figli.
Allora il giovane, cinicamente:
— Sarebbe stato meglio che non fossi nato piuttosto che essere quello che sono. Quando ho veduto quell’altro, ora, il sangue mi è andato alla testa. Ho detto a me stesso: “Ecco quello che sarei, adesso!”
E si alzò.
— Sentite, è meglio che io non resti più qui, perchè ve lo rimprovererei dalla mattina alla sera, e vi farei menare una vita disgraziata… Già, io non ve la perdonerà mai, non ve la perdonerò!
I due vecchî tacquero, stupiti, lagrimanti. Egli riprese:
— No; questa idea sarebbe terribile, per me. È meglio ch’io vada a passare la mia vita altrove.
Aprì la porta. Un gran vocìo entrò per quella. I Vallin festeggiavano il ritorno del loro figliuolo.
Carlino battè forte il piede, e, rivolgendosi ai genitori, gridò:
— Contadinacci!
E disparve nella oscurità della notte.