📖 Testo originale di Bellinda e il Mostro (Montale Pistoiese)
C’era una volta un mercante di Livorno, padre di tre figlie: Assunta, Carolina e Bellinda. Era ricco e aveva abituato le figlie a non far mancare loro nulla. Erano belle tutte e tre, ma la più piccola, Bellinda, era di una bellezza straordinaria. Non solo era bella, ma anche buona, modesta e assennata, mentre le sorelle erano superbe, caparbie e dispettose, sempre cariche d’invidia.
Quando furono più grandi, i mercanti più ricchi della città andavano a chiederle in sposa. Assunta e Carolina, sprezzanti, li mandavano via dicendo:
- Noi un mercante non lo sposeremo mai.
Bellinda, invece, rispondeva con garbo:
- Sposare io non posso, perché sono ancora troppo giovane. Quando sarò più grande, se ne potrà riparlare.
Ma, come dice il proverbio: “Finché ci sono denti in bocca, non si sa quel che ci tocca.” Un giorno, al padre successe di perdere un bastimento con tutte le sue mercanzie, e in poco tempo andò in rovina. Di tante ricchezze, non gli rimase che una casetta in campagna. Si ritirò lì con tutta la famiglia, e dovette lavorare la terra come un contadino.
Le due figlie maggiori fecero mille smorfie quando seppero che dovevano lasciare la città:
- No, padre mio, – dissero, – alla vigna noi non ci verremo; restiamo qui in città. Grazie a Dio, abbiamo dei gran signori che vogliono prenderci per spose.
Ma quando i signori seppero che erano rimaste senza soldi, sparirono tutti, dicendo:
- Gli sta bene! Così impareranno come si sta al mondo. Abbasseranno un po’ la cresta.
Al contrario, Bellinda, che non aveva mai arricciato il naso per nessuno, suscitava compassione. Due o tre giovanotti andarono a chiederla in sposa, ma lei rifiutò, perché voleva aiutare il padre. Infatti, era lei ad alzarsi di buonora, fare le faccende domestiche e preparare il pranzo per le sorelle e il padre. Le sorelle, invece, si alzavano alle dieci e non muovevano un dito, anzi la chiamavano “villana” perché si era subito abituata a quella vita da contadini.
Un giorno, al padre arrivò una lettera che annunciava che il suo bastimento, creduto perso, era arrivato a Livorno con parte del carico salvato. Le sorelle maggiori, pensando di tornare presto in città, quasi impazzirono dalla gioia. Il mercante disse:
- Ora parto per Livorno per vedere di recuperare quel che mi spetta. Cosa volete che vi porti in regalo?
Assunta disse:
- Io voglio un bel vestito di seta color d’aria.
Carolina aggiunse:
- A me invece portatene uno color di pesca.
Bellinda, invece, stava zitta e non chiedeva nulla. Il padre insistette, e lei disse:
- Non è il momento di far tante spese. Portatemi una rosa, e sarò contenta.
Le sorelle la presero in giro, ma lei non se ne curò.
Il padre andò a Livorno, ma quando stava per mettere le mani sulle sue mercanzie, altri mercanti dimostrarono che lui era indebitato con loro, e quindi quella roba non gli apparteneva. Dopo molte discussioni, il povero vecchio restò con un pugno di mosche. Tuttavia, con i pochi soldi rimasti, comprò il vestito color aria per Assunta e quello color pesca per Carolina. Per Bellinda, invece, non aveva più un soldo e pensò che una rosa fosse così poca cosa da non meritare attenzione.
Sulla via del ritorno, s’addentrò in un bosco e perse la strada. Nevicava e tirava vento, una cosa da morire. Il mercante si rifugiò sotto un albero, aspettandosi di essere sbranato dai lupi, che già sentiva ululare. Mentre stava lì, vide un lume lontano e si avvicinò. Trovò un bel palazzo illuminato, ma non c’era anima viva. Entrò, si scaldò al camino acceso, mangiò a una tavola apparecchiata e poi andò a dormire in un letto ben rifatto.
Al mattino, svegliandosi, trovò un vestito nuovo sulla sedia. Si vestì, scese in giardino e vide un bellissimo rosaio. Ricordandosi del desiderio di Bellinda, colse la rosa più bella. In quel momento, un Mostro apparve tra le rose, brutto da far paura. Esclamò:
- Come ti permetti, dopo che t’ho alloggiato, nutrito e vestito, di rubarmi le rose? La pagherai con la vita!
Il mercante si buttò in ginocchio e gli raccontò che quel fiore era per sua figlia Bellinda. Il Mostro, ammansito, disse:
- Se hai una figlia così, portamela. Voglio tenerla con me, e starà come una regina. Ma se non me la mandi, perseguiterò te e la tua famiglia dovunque siate.
Il mercante, terrorizzato, accettò pur di andarsene. Il Mostro lo fece salire nel palazzo e riempì una cassa di gioielli, ori e broccati, che avrebbe fatto recapitare a casa.
Tornato alla vigna, il mercante diede i vestiti alle figlie maggiori e, con le lacrime agli occhi, porse la rosa a Bellinda, raccontandole la sua disgrazia. Le sorelle cominciarono a lamentarsi:
- Ecco! Lo dicevamo, noi! Con le sue idee strane. La rosa, la rosa! Ora dovremo tutti pagarne le conseguenze.
Ma Bellinda, calma, disse:
- Il Mostro ha detto che se vado da lui non ci fa nulla? Allora, io ci andrò, perché è meglio che mi sacrifichi io piuttosto di far patire tutti.
Il padre cercò di dissuaderla, ma Bellinda puntò i piedi e volle partire. La mattina dopo, padre e figlia si misero in viaggio. Prima di partire, il padre trovò la cassa con le ricchezze del Mostro e la nascose sotto il letto, senza dir nulla alle altre figlie.
Arrivarono al palazzo del Mostro di sera. Salirono le scale e trovarono una tavola imbandita per due. Finito di mangiare, si sentì un gran ruggito, e apparve il Mostro. Bellinda restò senza parole: brutto fino a quel punto non se l’era immaginato. Ma poi, piano piano, si fece coraggio. Quando il Mostro le chiese se era venuta di sua spontanea volontà, lei rispose francamente:
Il Mostro parve contento. Diede al padre una valigia piena di monete d’oro e gli disse di andarsene, promettendo di occuparsi di tutto ciò che serviva alla famiglia. Il padre, con il cuore spezzato, diede l’ultimo bacio a Bellinda e se ne andò piangendo.
Bellinda, rimasta sola, si spogliò e andò a letto, dormendo tranquilla per la contentezza di aver salvato suo padre. La mattina, si svegliò serena e fiduciosa, e volle visitare il palazzo. Ovunque vedeva cartelli che dicevano:
“La regina qui voi siete, / Quello che volete avrete.”
La sera, quando Bellinda si sedette a cena, comparve il Mostro.
- Posso farvi compagnia mentre cenate? – chiese.
- Siete voi il padrone, – rispose Bellinda.
Ma lui protestò:
- No, qui padrona siete solo voi. Tutto il palazzo e quel che contiene è roba vostra.
Dopo un po’, il Mostro chiese:
- È vero che sono così brutto?
E Bellinda, sincera:
- Brutto siete brutto, ma il cuore buono che avete vi fa quasi bello.
Allora lui domandò:
- Bellinda, mi vorresti sposare?
Lei tremò da capo a piedi e rispose:
- Se devo dire la verità, di sposarvi non me la sento proprio.
Il Mostro, senza dire una parola, le diede la buonanotte e se ne andò sospirando.
Così passarono tre mesi. Ogni sera il Mostro veniva a chiederle la stessa cosa, e ogni volta se ne andava sospirando. Bellinda ci aveva preso l’abitudine, e se una sera non l’avesse visto, se l’avrebbe avuta a male.
Un giorno, Bellinda vide che l’albero del pianto e del riso aveva le foglie diritte verso l’alto. Domandò al Mostro:
- Perché è così ringalluzzito?
- Sta andando sposa tua sorella Assunta, – rispose lui.
- Non potrei andare ad assistere alle nozze? – chiese Bellinda.
- Va’ pure, – disse il Mostro, – ma entro otto giorni devi essere tornata, altrimenti mi troveresti morto. Questo è un anello che ti do: quando la pietra s’intorbida, vuol dire che sto male e devi correre subito da me. Intanto, prendi pure nel palazzo quel che vuoi da portare in regalo di nozze.
Bellinda riempì un baule di vestiti di seta, gioielli e monete d’oro. La mattina si svegliò a casa di suo padre, col baule e tutto. Le fecero una gran festa, anche le sorelle, ma quando seppero che Bellinda era felice e ricca grazie al Mostro, ripresero a essere invidiose. Le trafugarono l’anello, e quando glielo restituirono, la pietra era intorbidita. Bellinda tornò piena di paura, e il Mostro non si fece vedere né a pranzo né a cena. La mattina dopo apparve languente e disse:
- Sono stato male. Se tardavi ancora, sarei morto.
Passarono altri due mesi. Un giorno, le foglie dell’albero del pianto e del riso pendevano tutte giù.
- Che c’è a casa mia? – gridò Bellinda.
- C’è tuo padre che sta per morire, – disse il Mostro.
Bellinda tornò a casa e assistette il padre, che migliorò grazie alla sua presenza. Ma una volta, lavandosi le mani, perse l’anello. Quando lo ritrovò, la pietra era nera, tranne un angolino. Tornò al palazzo, che era spento e buio. Corse disperata per il giardino, finché non trovò il Mostro steso sotto il rosaio, rantolante tra le spine.
Si inginocchiò accanto a lui, sentì che il cuore batteva ancora, ma debolmente. Si buttò su di lui a baciarlo e piangere, dicendo:
- Mostro, Mostro, se tu muori non c’è più bene per me! Oh, se tu vivessi, ti sposerei subito per farti felice!
Non aveva finito di dirlo, che il palazzo si illuminò e da ogni finestra uscirono canti e suoni. Quando Bellinda guardò di nuovo, il Mostro era sparito, e al suo posto c’era un bel cavaliere che si alzò tra le rose, fece una riverenza e disse:
- Grazie, Bellinda mia, m’hai liberato.
Bellinda, sbalordita, disse:
Il cavaliere si gettò in ginocchio e spiegò:
- Eccolo il Mostro. Per un incantesimo, dovevo restare mostro finché una bella giovane non avesse promesso di sposarmi brutto com’ero.
Bellinda diede la mano al giovane, che era un Re, e insieme andarono verso il palazzo. Sulla porta c’era il padre di Bellinda, che l’abbracciò, e le due sorelle. Le sorelle, per l’astio che avevano, restarono trasformate in statue.
Il giovane Re sposò Bellinda e la fece Regina. E vissero felici e contenti.