[Canto VIII, dove si tratta de la quinta qualitade, cioè di coloro che, per timore di non perdere onore e signoria e offizi e massimalmente per non ritrarre le mani da l’utilità de la pecunia, si tardaro a confessare di qui a l’ultima ora di loro vita e non facendo penitenza di lor peccati; dove nomina iudice Nino e Currado marchese Malespini.]
Era già l’ora che volge il disio ai navicanti e ‘ntenerisce il core lo dì c’han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d’amore punge, se ode squilla di lontano che paia il giorno pianger che si more;
quand’ io incominciai a render vano l’udire e a mirare una de l’alme surta, che l’ascoltar chiedea con mano.
Ella giunse e levò ambo le palme, ficcando li occhi verso l’orïente, come dicesse a Dio: ‘D’altro non calme’.
‘Te lucis ante’ sì devotamente le uscìo di bocca e con sì dolci note, che fece me a me uscir di mente;
e l’altre poi dolcemente e devote seguitar lei per tutto l’inno intero, avendo li occhi a le superne rote.
Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero, ché ‘l velo è ora ben tanto sottile, certo che ‘l trapassar dentro è leggero.
Io vidi quello essercito gentile tacito poscia riguardare in sùe, quasi aspettando, palido e umìle;
e vidi uscir de l’alto e scender giùe due angeli con due spade affocate, tronche e private de le punte sue.
Verdi come fogliette pur mo nate erano in veste, che da verdi penne percosse traean dietro e ventilate.
L’un poco sovra noi a star si venne, e l’altro scese in l’opposita sponda, sì che la gente in mezzo si contenne.
Ben discernëa in lor la testa bionda; ma ne la faccia l’occhio si smarria, come virtù ch’a troppo si confonda.
«Ambo vegnon del grembo di Maria», disse Sordello, «a guardia de la valle, per lo serpente che verrà vie via».
Ond’ io, che non sapeva per qual calle, mi volsi intorno, e stretto m’accostai, tutto gelato, a le fidate spalle.
E Sordello anco: «Or avvalliamo omai tra le grandi ombre, e parleremo ad esse; grazïoso fia lor vedervi assai».
Solo tre passi credo ch’i’ scendesse, e fui di sotto, e vidi un che mirava pur me, come conoscer mi volesse.
Temp’ era già che l’aere s’annerava, ma non sì che tra li occhi suoi e ‘ miei non dichiarisse ciò che pria serrava.
Ver’ me si fece, e io ver’ lui mi fei: giudice Nin gentil, quanto mi piacque quando ti vidi non esser tra ‘ rei!
Nullo bel salutar tra noi si tacque; poi dimandò: «Quant’ è che tu venisti a piè del monte per le lontane acque?».
«Oh!», diss’ io lui, «per entro i luoghi tristi venni stamane, e sono in prima vita, ancor che l’altra, sì andando, acquisti».
E come fu la mia risposta udita, Sordello ed elli in dietro si raccolse come gente di sùbito smarrita.
L’uno a Virgilio e l’altro a un si volse che sedea lì, gridando: «Sù, Currado! vieni a veder che Dio per grazia volse».
Poi, vòlto a me: «Per quel singular grado che tu dei a colui che sì nasconde lo suo primo perché, che non lì è guado,
quando sarai di là da le larghe onde, dì a Giovanna mia che per me chiami là dove a li ‘nnocenti si risponde.
Non credo che la sua madre più m’ami, poscia che trasmutò le bianche bende, le quai convien che, misera!, ancor brami.
Per lei assai di lieve si comprende quanto in femmina foco d’amor dura, se l’occhio o ‘l tatto spesso non l’accende.
Non le farà sì bella sepultura la vipera che Melanesi accampa, com’avria fatto il gallo di Gallura».
Così dicea, segnato de la stampa, nel suo aspetto, di quel dritto zelo che misuratamente in core avvampa.
Li occhi miei ghiotti andavan pur al cielo, pur là dove le stelle son più tarde, sì come rota più presso a lo stelo.
E ‘l duca mio: «Figliuol, che là sù guarde?». E io a lui: «A quelle tre facelle di che ‘l polo di qua tutto quanto arde».
Ond’ elli a me: «Le quattro chiare stelle che vedevi staman, son di là basse, e queste son salite ov’ eran quelle».
Com’ ei parlava, e Sordello a sé il trasse dicendo: «Vedi là ‘l nostro avversaro»; e drizzò il dito perché ‘n là guardasse.
Da quella parte onde non ha riparo la picciola vallea, era una biscia, forse qual diede ad Eva il cibo amaro.
Tra l’erba e ‘ fior venìa la mala striscia, volgendo ad ora ad or la testa, e ‘l dosso leccando come bestia che si liscia.
Io non vidi, e però dicer non posso, come mosser li astor celestïali; ma vidi bene e l’uno e l’altro mosso.
Sentendo fender l’aere a le verdi ali, fuggì ‘l serpente, e li angeli dier volta, suso a le poste rivolando iguali.
L’ombra che s’era al giudice raccolta quando chiamò, per tutto quello assalto punto non fu da me guardare sciolta.
«Se la lucerna che ti mena in alto truovi nel tuo arbitrio tanta cera quant’ è mestiere infino al sommo smalto»,
cominciò ella, «se novella vera di Val di Magra o di parte vicina sai, dillo a me, che già grande là era.
Fui chiamato Currado Malaspina; non son l’antico, ma di lui discesi; a’ miei portai l’amor che qui raffina».
«Oh!», diss’ io lui, «per li vostri paesi già mai non fui; ma dove si dimora per tutta Europa ch’ei non sien palesi?
La fama che la vostra casa onora, grida i segnori e grida la contrada, sì che ne sa chi non vi fu ancora;
e io vi giuro, s’io di sopra vada, che vostra gente onrata non si sfregia del pregio de la borsa e de la spada.
Uso e natura sì la privilegia, che, perché il capo reo il mondo torca, sola va dritta e ‘l mal cammin dispregia».
Ed elli: «Or va; che ‘l sol non si ricorca sette volte nel letto che ‘l Montone con tutti e quattro i piè cuopre e inforca,
che cotesta cortese oppinïone ti fia chiavata in mezzo de la testa con maggior chiovi che d’altrui sermone,