Canto trentatreesimo del Purgatorio
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27 Gennaio 2019Dall’Alcyone di Gabriele D’Annunzio
Libro Terzo delle Laudi del Cielo del Mare della Terra e degli Eroi
Ditirambo I
Romae frugiferae dic.
Ove sono i cavalli del Sole
criniti di furia e di fiamma?
le code prolisse
annodate con liste
di porpora, l’ugne
adorne di lampi
su l’aride ariste?
Ove l’aie come circhi
le trebbie come pugne,
come atleti la rustica prole?
Ove sono i cavalli del Sole
disgiunti dal carro celeste?
Ove le sferze sonanti,
le rèdine lunghe sbandite,
il tinnir dei metalli,
il brillar delle madide groppe?
Ove gli urli, ove i canti, ove i balli?
Ove la femmina bella
coperta di loppe e di reste
come d’ori e di gemme?
Ove gli scherni, le risse,
le nude coltella,
il sangue che fuma e che bolle,
il giovine ucciso che cade
nelle sue biade
asperse del suo ricco sangue
e del vin suo vermiglio?
Ove il tuo nume, o Dionìso,
e il tuo riso e il tuo furore
e il tuo periglio?
Qui scarsa mèsse
per piccole vite,
aia angusta, fatica molle,
mani prudenti, fievoli gole.
O Maremme, o Maremme,
bellezza immite
nata dalla Febbre e dal Sole,
o regni diurni di Dite,
voi l’anima mia sogna!
O Roma, o Roma, la prima
davanti alla faccia del Sole,
incombustibile forza,
semenza di gloria,
unica nata dal solco
del violento
ardua spica opima,
te l’anima mia sogna ed agogna
in un mar di frumento,
dal Cimino solitario
ai vitiferi colli dei Volsci,
fino a Minturno ov’erra
nel limo l’ombra di Mario,
fino a Sinuessa
ebra di Massico forte,
fino alle auree porte
della Campania promessa,
in un mar di frumento
innumerevole
come le trionfate stirpi
dalla tua guerra!
O arce della Terra,
nel dipartirmi
da te, al cospetto dell’Agro
ebbi presagio cruento
che m’infiammò d’amore
più novo e gagliardo
per tutte le tue are
e per tutte le tue tombe.
Vidi campo di rossi
papaveri vasto al mio sguardo
come letto di strage,
come flutto ancor caldo
sgorgato da una ecatombe.
Non mai più fervente rossore
veduto avean gli occhi miei grandi,
e tutta la mia vita tremava
dalle radici
come s’io mi svenassi
sul sacro tuo suolo
con vene giganti.
E l’anima, che si dipartiva,
impetuosamente
verso di te si rivolse, incesa
da dolor rovente
ch’ella udì stridere come
tizzo in piaga viva;
e tutta verso di te protesa
era, gridando il tuo nome
al fulgor vermiglio,
dal carro strepitoso
che la traeva in esiglio.
E intollerabile male
tra tutti i suoi mali
a lei parve la sua dipartita;
sentì la sua vita
spoglia d’ogni forza e senz’ali,
pallida e senza riposo
piegata su l’acre ferita,
ahi, mirò sé stessa lontana.
O Toscana, o Toscana,
dolce tu sei ne’ tuoi orti
che lo spino ti chiude
e il cipresso ti guarda;
dolce sei nelle tue colline
che il ruscello ti riga
e l’ulivo t’inghirlanda.
E una dura virtude
certo nelle tue torri commise
e murò per la guerra civile
le pietre forti;
e carca di grandi morti
tu sei ne’ tuoi sculti sepolcri,
o Fiorenza, o Fiorenza,
giglio di potenza,
virgulto primaverile;
e certo non è grazia alcuna
che vinca tua grazia d’aprile
quando la valle è una cuna
di fiori di sogni e di pace
ove Simonetta si giace.
Ma cuna dell’anima mia
è il solco del carro stridente
nella pietra dell’Appia via.
A piè del Celio infrequente,
sotto la Porta Capena
gemere udì l’Acqua Marcia
che abbevera l’Urbe affocata.
Si mosse di là fra le tombe
e i lauri, fra la Morte che guata
e la Gloria che perde le frondi,
ai colli d’Alba giocondi.
Lasciò dietro sé le molli ombre;
più non vide la lunga catena
rosseggiar degli acquedutti;
non vide la fresca Preneste;
sdegnò di Tuscolo i frutti,
d’Aricia la selva serena;
s’affrettò alla spiaggia tirrena
ove dura fervente
la bava delle tempeste,
alle reggie di Circe funeste
ove urtò d’Odisseo la carena.
Anelante al deserto di luce
ove fuma vapor che avvelena
e rapisce gli spirti errabondi,
scoperse la candida rupe
onde Anxur pendente
nella truce canicola incombe
allo stagno mortifero e al Mare.
Appia via, cammino solare
incontro all’Austro rapido-ardente,
Appia via, dalla Porta Capena
cui la recondita vena
geme l’assidua stilla,
ove condurrai tu la mia
anima impaziente
che d’avidità risfavilla?
Non qui la mia messe è mietuta.
A mietere l’alta mia mèsse
mille falci indefesse
travagliarono solco per solco,
dall’aurora al tramonto,
per nove aurore
e per nove tramonti,
in terra sconosciuta.
E s’udiva in ogni meriggio
venir dagli orizzonti
infiammati la voce
e il tuono di Pan sopra a noi.
E ululava la torma feroce:
«O Pan, aiuta, aiuta!»
E per la stoppia i buoi
candidi, aggiogati ai plaustri
contra le biche manomesse,
mugghiavano di spavento.
O Pan, dammi il mio frumento,
dammi l’oro della mia mèsse
australe e la furia degli Austri
libici e la furia dei cavalli
dall’ugne adorne di lampi!
Non qui non qui ebbi i miei campi,
non qui ebbi i miei plaustri,
ma nel grande Lazio tirreno,
fino a Minturno,
fino a Sinuessa,
nella terra ebra di Massico
nella terra ebra di C’ècubo,
a Fondi lacustre,
ad Amicle marina,
ad Ardea danaèia
ov’arde il sangue di Turno,
e su la curva spiaggia nomata
dalla nutrice eneia,
di qua dal rapace Volturno,
e presso lo stagno taciturno
pingue di calami e d’ulve
ove il Latino il lauro vige
tra le spiche fatte più fulve,
e ad Anzio amor del pirata
e della Fortuna crudeli
e del crudele Imperatore,
e a Ostia, nella sacra bocca
del Tevere irta di prore
gonfia di vele
ingombra de’ lunghi granai.
Ovunque falciai e trebbiai
nel grande Lazio tirreno,
alle porte dell’Urbe e al confine
estremo, fra il Tevere e il Liri,
in ogni più fertile plaga.
Ma a te vanno i miei sospiri,
a te, ombra del Monte Circ’èo
letifera come il veleno
e il carme dell’avida maga
che tenne l’insonne
piloto re d’Itaca Odisseo
nel letto dall’alte colonne.
Quivi ancor regna nel Monte
l’Iddia callida, figlia del Sole;
e spia dal palagio rupestro,
tra sue stellate pantere
e sue tazze attoscate di suchi.
Gemon prigioni i suoi drudi,
bestiame del suo piacere,
cui ella tocca la fronte
con verga e susurra parole.
E i suoi pastori astati, prole
dell’Evia e del Centauro
generata nell’ora dell’estro,
di bronzea pelle, di pel sauro,
prole furibonda,
quivi sotto gettano rauco
ululo su la palude
e pungono il negro armento
dalle code nude,
i bufali, irosi mostri
profondati nel lutulento
pascolo che s’inselva di corna.
E, quando aggiorna,
tutta la palude ansa e soffia
per le froge e per le fauci emerse,
occhiuta di mille occhi torvi;
e l’acqua putre gorgoglia
e bulica occlusa dall’erbe
cui sradica il piè bisulco,
mentre nube di corvi
sinistra offusca e assorda l’aria
ove passa in silenzio mortale
la Febbre velata di nebbia.
Quivi io farò la mia trebbia,
quivi batterò la mia mèsse
in un’area vasta
come campo per oste schierata.
Ove sono i cavalli del Sole
criniti di furia e di fiamma?
le code prolisse
annodate con liste
di porpora, l’ugne
adorne di lampi
su l’aride ariste?
Ove le sferze sonanti,
le rèdine lunghe sbandite,
il tinnir dei metalli,
il brillar delle madide groppe?
Ove gli urli, ove i canti, ove i balli?
Ecco, al tripudio, ecco i cavalli!
Chi li conduce?
Ecco le sferze, ecco i crotali,
i cimbali cavi-sonori
che vince il rombo dei cuori,
le femmine scalze-succinte
ebre di luce,
i giovini possa-di-tori
ebri di strepito.
Ecco il fiore del sangue latino.
Ecco gli otri gonfi di vino.
Ecco la sapa dolce a mescere.
Ecco l’arido pane che asseta.
Ecco la tazza di creta,
foggia antica e ne’ secoli bella,
ampia come bucranio,
rosea come mammella.
Ecco tutto il tripudio!
Versate i manipoli
sul suol vulcanio,
versate dal plaustro
accline i manipoli
come da cornucopia.
Tutta la terra è roggia
più che sinopia
agli occhi torbidi.
Il vento turbina,
suscita polvere in vortici.
Versano i plaustri
nell’aia l’oro stridulo.
L’oro s’accumula.
Dispare il suolo igneo
sotto la congerie
innumerevole.
Sola una bica, solo un aureo
monte è la grande area.
Tutto il Lazio è una stoppia
che arde e solvesi in cenere
da Sinuessa massica
fino a Roma romùlea.
Sola una bica, solo un aureo
monte è la grande area;
e i cavalli l’ascendono.
Scalpita, scalpita!
O Roma, questo è il monte di Cerere
madre di Prosérpina,
questo è il monte della Magna Madre
che navigò pel Tevere.
I cavalli terribili
erti su lunghia solida
l’ascendono, l’assaltano.
Scalpita, scalpita!
Crollano i manipoli
sotto l’urto, si spezzano
i culmi, si sgranano
le spiche, le ariste stridono,
le loppe volano.
Scalpita, scalpita!
Le sferze schioccano,
per l’aere guizzano
come le folgori.
Come le gómene
della nave in pericolo
sotto la ràffica,
si tendono le rèdine.
Gli umani polsi battono,
tremano i muscoli,
si gonfiano le arterie.
chi osa reggere
la forza degli Alipedi?
Balzano, s’impennano
le fiere, v’èrberano
l’aere, col ferro quadruplice
i cumuli dirompono.
Le code intonse inarcansi,
le criniere sv’èntolano
come vessilli vividi,
le nari spirano
fiamma, gli occhi si rigano
di sangue, i fianchi pulsano,
le vene si palesano,
per l’ampie groppe rivoli
di sudore fluiscono,
nella schiuma dei difficili
freni brilla l’iride.
Scalpita, scalpita!
Tutto il fuoco dell’anima
ferina esalasi
nell’impeto e nell’ànsito
par circonfondere
gli acri corpi madidi,
sul sudor fremere
come un’ala invisibile.
Svegliasi nei rapidi
cuori l’anelito di Pègaso
verso il cammin sidereo?
Scalpita, scalpita!
Il vento turbina,
agita in nugoli
vani le spoglie spìcee.
Tutto l’aere è volatile
oro, per ove le candide
e negre e saure
e maculate groppe splendono,
per ove passano
i gridi rauchi,
gli schiocchi, i sibili,
l’urto dei crotali,
il tintinnìo dei cimbali,
il mugghio delle bufale,
il riso delle femmine
umane che Libero èccita.
Ma il cielo dilatasi
muto e solenne sul tripudio;
lungi si tace il Mare Infero
ove il figlio di Venere
dall’alta prora iliaca
gridò: «Italia! Italia!»
E l’ombra del re d’Itaca,
l’ombra dell’antico nauta
esperto degli uomini e dei pelaghi,
guata dalla magica
rupe se il Fato ferreo
lui anco chiami a vincere
un più grande pericolo.
O Forza, o Abondanza, o Vittoria,
voi all’opera terrestre auspici
siete e testimonii!
Tutto di voi s’illumina
il grande Lazio. In purpureo
lume il giorno cangiasi.
Il vento chiude i suoi turbini.
L’aere la terra pènetra.
Par nelle cose nascere
una vita indicibile,
però che i prischi numi italici,
subitamente reduci
dall’ombra delle Origini,
nella gleba rivivano,
nell’acqua nell’erba nella silice,
e laggiù, entro la reggia
del re Latino figlio
di Marica e di Fauno,
rinverdiscasi il Lauro
che fu sacro ad Apolline
Febo pria che il vedovo
di Creusa da Il’io
venisse per congiugnersi
con Lavinia vergine fertile.
O prodigio! O metamorfosi!
Su la grande area,
quadrata come la saturnia
Urbe nel nascere,
la calpesta messe al par d’occidua
nuvola s’imporpora.
Scalpita, scalpita!
E i cavalli son rosei
splendenti, come se nell’intimo
sangue una sùbita
aurora accendasi
e per i fumidi
fianchi trasparir veggasi.
S’ergono e di roseo
fuoco il petto e il ventre splendono,
ove s’intrecciano le tumide
vene come d’edera
intrichi per iperborei còrtici.
Fiammei spiriti
dalle narici esalano.
Scalpita, scalpita!
Or senton gli uomini
che un divin numero
modera l’impeto
dei solidunguli.
O prodigio! O metamorfosi!
Ecco, le ali titanie,
le solari penne, le lucifere
piume, infaticabili
flagelli dell’Etere
diurno, atefici
della rapidità precìpite,
cui le trame dei muscoli
contro le dure scapule
parean constringere,
ecco, ecco, si liberano
si spiegano s’allargano.
Nell’oro e nella porpora
aperte palpitano
le ali, le ali apollinee.
Il vento ch’elle muovono
solleva il cuor degli uomini
come un peàn che càntino
per sacri intercolumnii
cetere a miriadi.
Io Peàn! Io Peàn! Gloria
al Maestro dell’Opere,
allo Specchio degli Uomini,
al Titan dalla rutila chioma,
al Re delle alate parole,
al Duce dei cori eliconii!
O Forza, Abondanza, Vittoria,
e tu, Genio che mai non si doma,
voi siatemi qui testimonii.
Calpestano i cavalli del Sole
il rinato frumento di Roma.
Audio Lezioni su Gabriele D’Annunzio del prof. Gaudio
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