In principio era Dylan
27 Gennaio 2019Alda Merini
27 Gennaio 2019Analisi critica del Paradiso perduto di Milton
Al giorno d’oggi il Paradiso Perduto di Milton è considerato un capolavoro, una pietra miliare della letteratura mondiale, ma all’epoca, pur riconoscendogli un grande potenziale d’espressività, molti critici – e questo non fino a molto tempo fa- ricercarono nel testo ogni più piccolo difetto, snaturando la grandiosa natura del complesso.
Altra grande impresa che è stata dovuta sostenere è stata la difficoltà di riportare in una lingua diversa da quella madre una così grande porzione di lingua. Il Paradiso Perduto non è scritto in una lingua scorrevole e moderna, ma in maniera aulica e ampollosa, non priva di abbreviature e storpiature, al fine di rimanere nella metrica opportuna (evening = sera è quasi sempre scritta nella forma abbreviata ev’ning, così come heaven = paradiso ecc).
Dice Andrea Maffel nell’ edizione fiorentina del 1863: Dove ho trovato la frase e la parola acconce ad esprimere originalmente il concetto originale, non mi giovai d’altri partiti: ma credetti buon officio di scostarmi non dal pensiero, non dall’immagine, ma dalla espressione ogni qual volta mi si presentava incerta, oscura o ripugnante all’indole della nostra favella.
Io ebbi a questo proposito l’occasione di comparare la traduzione del già detto Andrea Maffel con quella del più recente Roberto Sanesi (noto traduttore Mondatori, curatore in particolare delle poesie di T.S. Eliot). La differenza balza all’occhio nell’immediato del primo libro: la prima traduzione appare molto più arcaica e legata alle traduzioni delle opere classiche, la seconda al contrario più fluida e moderna, a mio avviso meglio organizzata e simile all’ originale.
Of the man first disobedience, and the fruit
Of that forbidden tree, whose mortal taste
Brought death into the world, and all our woe,
Whit loss of Eden, till one greater Man
Restore us, and regain the blissful seat,
Sing Heav’nly Muse
Maffel
La primiera dell’ uomo inobbedienza
E della piñata proibita il frutto,
Frutto al gusto letal, che sulla nostra terra
La morte e tutti i nostri mali addusse,
oltre l’Eden perduto; infin che piacque
Ristorarne di nuovo ad Uom più grande
E racquistar la fortunata sede,
Canta, o musa del ciel!
Sanesi
Della prima disobbedienza dell’uomo, e del frutto
dell’albero proibito, il cui gusto fatale condusse
la morte nel mondo, e con ogni dolore la perdita
dell’Eden, fin quando non giunga più grande
un Uomo a risanarci riconquistando il seggio benedetto,
canta Musa Celeste..
Ma che cos’è alla fine che ha spinto un uomo -cieco- a improntare anni di vita su un tema così profondo?
A Milton era da sempre stato a cuore il tema della perdita dell’Eden: come scrive Frank Kermode nel suo saggio introduttivo presente nell’edizione mondatori, già altri poemi il poeta aveva espresso la sua grande dedizione per il tema della perdita dell’Eden, di quel luogo cioè d’armonia e virtù che si volge sia al passato -cioè l’epoca in cui l’uomo non era corrotto ma integro di ogni sua moralità- sia al futuro, quando questa sublime condizione verrà restaurata.
Paradiso Perduto affronta la consapevolezza della felicità perduta.
Si chiede invece Bentley come mai il poema si chiuda in modo confusionario e impreciso: cito dal testo –Come mai- si chiede Bentley – questo distico congeda i nostri progenitori lasciando loro nell’angoscia e noi nella malinconia? E come si giustifica l’espressione “a passi lenti e vagabondi”? Perché “vagabondi”? Passi irregolari? Non sembra appropriato, dal momento in cui nel verso precedente essi erano “guidati dalla provvidenza”. E perché “lenti” se Eva afferma di essere pronta e impaziente per il viaggio?.
Kermode trova due spiegazioni a questi interrogativi. La prima è in netto contrasto con Bentley: egli afferma che quest’ultimo dimentica, così dicendo, il verso 117 dell’ XI libro, dove è scritto che Dio ordina a Michele di scacciare i due uomini dall’Eden in modo che soffrano dolore, ma almeno in pace. Io ho letto questa definizione come un voler dare a Adamo ed Eva un’anima disgregata, non unita nei sentimenti e nelle sensazioni. Eva è impaziente per andare via da quel posto, ma soffre per l’abbandono: c’è un attrito che spinge i due ed è un attrito che esiste nell’essere umano in ogni momento della sua vita. I due uomini non sono più perfetti e in armonia, ma sono diventati mortali e deboli – d0altronde trovo che già la condizione di vita-morte sia un attrito-.
La seconda definizione che Kermode dà in risposta a Bentley è più conciliante: ma resta pur vero che se il “progetto” di Milton era semplicemente quello di dimostrare che ogni cosa sarebbe al fine risultata al posto giusto, e che ciò avrebbe profondamente soddisfatto sia Adamo sia noi, allora Bentley non è del tutto sciocco.
Io personalmente mi trovo d’altronde d’accordo con la prima affermazione, tanto che, leggendo più volte mi sono impadronita di essa come di una cosa fortemente mia.
Andando avanti nel saggio ho trovato questa frase: Nel poema ci sentiamo più addolorati per la perdita accidentale dell’originaria immortalità che non gratificati per la sua benevola restituzione.
A parte il fatto che la perdita dell’immortalità non fu assolutamente accidentale, ma piuttosto un fallo dovuto ad una disobbedienza e che la restituzione si riferisce -in termini biblici- a un periodo lontano che avverrà solo dopo morti, mi sembra quasi scontato il fatto di sentirci così addolorati per una perdita e così presi una matita ed annotai sulla pagina le seguenti, precise parole: ovvio, così è l’uomo: gioisce per poco tempo e rimpiange per tutta la vita.
La felicità è effimera e fugace, il dolore ti penetra e ti modella nel tuo profondo.
La conclusione a cui volevo arrivare è: perché mai Kermode ha dovuto scrivere un’affermazione così nota? Non è una vera e propria analisi quella che sto facendo, mi ha solo colpito.
Kermode sottolinea il fattore di Adamo senza paradiso. Egli argomenta che l’idea principale di questa situazione di privazione è la nascita della Morte, o meglio il suo passaggio dal Caos infernale alla Terra.
Il suo Adamo senza paradiso ha perso non solo l’immortalità, ma anche la gioia di vivere, la felicità e il candore prima del peccato. Ora i due conoscono la morte profondamente come se facessero con lei un patto intimo: io lo leggo come “rifiutando Dio, l’essere umano ha rifiutato la vita che Egli ha donato”.
Adamo è inconsapevole. La Morte gli ha velato gli occhi ed egli non comprende più il giusto effetto delle cose: la conoscenza del bene e del male sbarra all’uomo la sua naturale predisposizione all’obbedienza. Adamo non comprende la vita, prima però non si poneva neanche la domanda, perché non poteva scindere il bene dal male, ma questo è positivo o negativo?
Scivoliamo così da un’azzardata analisi critica ad un commento personale sicuramente più efficace.
Per capire il Paradiso Perduto bisogna leggerlo nel suo insieme: ho notato che le discrepanze emergono suddividendo le sue parti l’una dall’altra.
Pensavo di aver capito il testo; non tutto, ma in parte sì, purtroppo però analizzando il saggio di Kermode compreso di averne afferrato con sicurezza una minima parte. Mi sono sentita male, nel vero senso della parola: tutti i pensieri che avevo incentrato su questa opera sono evaporati in poco tempo. Non pensavo che uno scrittore potesse ragionare così tanto su una sua opera da poter ricavare una miriade d’informazioni capillari da ogni singolo verso; l’opera di Milton mi si è così aperta non solo dal punto di vista della letteratura, ma mi ha informato su eventi storici, teologici, filosofici e sul modo di ragionare del poeta. Accidenti! Per scrivere bene bisogna essere davvero dei geni! Lo stesso Tolstoj per esempio impiegò anni e anni per terminare il suo Guerra e Pace, Manzoni ha dato tutto se stesso né I promessi sposi eppure Milton ha dato la sua vita, tutta la sua mente, il suo sapere; ogni singola frase trasuda di un amore teologico immenso, l’amore per l’uomo
Inutile dire che il libro mi è piaciuto; ora l’ho letto come libro scolastico, la prossima volta lo leggerò come opera impedibile.
Certo i suoi difetti, a mio avviso, li ha e non sono pochi: innanzitutto la lunghezza esagerata. Non ho niente contro i libri lunghi, ma più volte sembra che la narrazione sia stata tirata per assumere delle proporzioni che piacevano all’autore, stingendo ed annacquando però così la storia; come ad esempio i due capitoli finali, a mio modesto avviso decisamente inopportuni.
Ma le mie critiche sono rivolte soprattutto al pensiero estasiato della figura dell’uomo. Io non riesco a concepire un luogo perfettamente armonizzato e pacifico: sono dell’avviso che un oggetto non possa esistere nella sua completa natura univoca e forse qui mi accosto a Suor Corcoran -citata sempre da Kermode- che riferiva la sua incredulità sulla mancanza di libidine nei due esseri immortali.
Io la penso così.
Blue Devil