Aristotele e il giavellotto fatale di Margaret Doody – prof. Luigi Gaudio
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28 Dicembre 2019Questo brano da “Gomorra” di Roberto Saviano offre un’intensa riflessione sulla condizione di Pasquale, un sarto coinvolto nel mondo oscuro della malavita organizzata campana nel campo tessile.
Saviano dipinge un ritratto dettagliato di Pasquale, un uomo appassionato e competente nel suo mestiere, capace di percepire e manipolare i tessuti con maestria. Tuttavia, la sua abilità e dedizione vengono sfruttate senza riconoscimento, poiché i suoi lavori finiscono indossati dalle star di Hollywood senza che lui riceva alcun merito.
Il passaggio mette in evidenza il conflitto interiore di Pasquale, che oscilla tra la soddisfazione per il suo lavoro ben fatto e l’amarezza per l’ingiustizia della situazione. Pasquale si sente solo e incompreso, nonostante la sua maestria nel suo mestiere. La sua rabbia è palpabile, ma impotente di fronte alla realtà in cui vive.
Infine, il brano suggerisce che Pasquale potrebbe trovare un momento di felicità nascosta nel vedere il suo lavoro apprezzato, anche se solo da sé stesso. Questo contrasto tra l’ingiustizia subita e la soddisfazione personale contribuisce a creare un’atmosfera di tensione e disillusione nel mondo descritto da Saviano.
era pignolissimo, non era possibile neanche passeggiare, si piantava davanti a ogni vetrina insultando
il taglio di una giacca, vergognandosi al posto del sarto per il disegno di una gonna. Era capace di
prevedere la durata della vita di un pantalone, di una giacca, di un vestito. Il numero esatto dei lavaggi
che avrebbero sopportato quei tessuti prima di ammosciarsi addosso. Pasquale mi iniziò al complicato
mondo dei tessuti. Avevo cominciato anche a frequentare casa sua. La sua famiglia, isuoi tre bambini,
sua moglie, mi davano allegria. Erano sempre attivi ma mai frenetici. Anche quella sera i bambini
più piccoli correvano per la casa scalzi. Ma senza fare chiasso. Pasquale aveva acceso la televisione,
cambiando i vari canali era rimasto immobile davanti allo schermo, aveva strizzato gli occhi
sull’immagine come un miope, anche se ci vedeva benissimo. Nessuno stava parlando ma il silenzio
sembrò farsi più denso. Luisa, la moglie, intuì qualcosa, perché si avvicinò alla televisione e si mise
le mani sulla bocca, come quando si assiste a una cosa grave e si tappa un urlo. In TV Angelina Jolie
calpestava la passerella della notte degli Oscar indossando un completo di raso bianco, bellissimo.
Uno di quelli su misura, di quelli che gli stilisti italiani, contendendosele, offrono alle star. Quel
vestito l’aveva cucito Pasquale in una fabbrica in nero ad Arzano. Gli avevano detto solo: «Questo
va in America». Pasquale aveva lavorato su centinaia di vestiti andati negli USA. Si ricordava bene
quel tailleur bianco. Si ricordava ancora le misure, tutte le misure. Il taglio del collo, i millimetri dei
polsi. E il pantalone. Aveva passato le mani nei tubi delle gambe e ricordava ancora il corpo nudo
che ogni sarto immagina. Un nudo senza erotismo, disegnato nelle sue fasce muscolari, nelle sue
ceramiche d’ossa. Un nudo da vestire, una mediazione tra muscolo, ossa e portamento. Era andato a
prendersi la stoffa al porto, lo ricordava ancora bene quel giorno. Gliene avevano commissionati tre,
di vestiti, senza dirgli altro. Sapevano a chi erano destinati, ma nessuno l’aveva avvertito.
In Giappone il sarto della sposa dell’erede al trono aveva ricevuto un rinfresco di Stato; un
giornale berlinese aveva dedicato sei pagine al sarto del primo cancelliere donna tedesco. Pagine in
cui si parlava di qualità artigianale, di fantasia, di eleganza. Pasquale aveva una rabbia, ma una rabbia
impossibile da cacciare fuori. Eppure la soddisfazione è un diritto, se esiste un merito questo
dev’essere riconosciuto. Sentiva in fondo, in qualche parte del fegato o dello stomaco, di aver fatto
un ottimo lavoro e voleva poterlo dire. Sapeva di meritarsi qualcos’altro. Ma non gli era stato detto
niente. Se n’era accorto per caso, per errore. Una rabbia fine a se stessa, che spunta carica di ragioni
ma di queste non può far nulla. Non avrebbe potuto dirlo a nessuno. Neanche bisbigliarlo davanti al
giornale del giorno dopo. Non poteva dire “Questo vestito l’ho fatto io”. Nessuno avrebbe creduto a
una cosa del genere. La notte degli Oscar, Angelina Jolie indossa un vestito fatto ad Arzano, da
Pasquale. Il massimo e il minimo. Milioni di dollari e seicento euro al mese. Quando tutto ciò che è
possibile è stato fatto, quando talento, bravura, maestria, impegno, vengono fusi in un’azione, in una
prassi, quando tutto questo non serva a mutare nulla, allora viene voglia di stendersi a pancia sotto
sul nulla, nel nulla. Sparire lentamente, farsi passare i minuti sopra, affondarci dentro come fossero
sabbie mobili. Smettere di fare qualsiasi cosa. E tirare, tirare a respirare. Nient’altro. Tanto nulla può
mutare una condizione: nemmeno un vestito fatto ad Angelina Jolie e indossato la notte degli Oscar.
Pasquale uscì di casa, non si curò neanche di chiudere la porta. Luisa sapeva dove andava,
sapeva che sarebbe andato a Secondigliano e sapeva chi andava a incontrare. Poi si buttò sul divano
e immerse la faccia nel cuscino come una bambina. Non so perché, ma quando Luisa si mise a
piangere mi vennero in mente i versi di Vittorio Bodini. Una poesia che raccontava delle strategie
che usavano i contadini del sud per non partire soldati, per non riempire le trincee della Prima guerra,
alla difesa di confini di cui ignoravano l’esistenza. Faceva così:
sotto le ascelle
battevano i denti,
Non un dispiacere per una soddisfazione non celebrata. Mi è sembrato un capitolo emendato del
Capitale di Marx, un paragrafo della Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith, un capoverso della
Teoria generale dell’occupazione di John Maynard Keynes, una nota dell’Etica protestante e lo
spirito del capitalismo di Max Weber.
Una pagina aggiunta o sottratta. Dimenticata di scrivere o forse scritta continuamente ma non
nello spazio della pagina. Non era un atto disperato ma un’analisi. Severa, dettagliata, precisa,
argomentata. Mi immaginavo Pasquale per strada, a battere i piedi per terra come quando ci si toglie
la neve dagli scarponi. Come un bambino che si stupisce del perché la vita dev’essere tanto dolorosa.
Sino ad allora ci era riuscito. Era riuscito a trattenersi, a fare il suo mestiere, a volerlo fare. E a farlo
come nessun altro. Ma in quel momento, quando ha visto quel vestito, quel corpo muoversi dentro
alle stoffe da lui carezzate si è sentito solo. Solissimo. Perché quando qualcuno conosce una cosa solo
nel perimetro della propria carne e del proprio cranio è come se non la sapesse. E così il lavoro quando
serve solo a galleggiare, a sopravvivere, solo a se stessi, allora è la peggiore delle solitudini.
Rividi Pasquale due mesi dopo. L’avevano messo sui camion. Trasportava ogni tipo di merce
– legale e illegale – per conto delle imprese legate alla famiglia Licciardi di Secondigliano. O almeno
così dicevano. Il miglior sarto sulla terra guidava i camion della camorra tra Secondigliano e il Lago
di Garda. Mi offrì un pranzo, mi fece fare un giro nel suo enorme camion. Aveva le mani rosse e le
nocche spaccate. Come a tutti i camionisti che per ore reggono i volanti, le mani gelano e la
circolazione s’ingolfa. Non aveva un viso sereno, aveva scelto quel lavoro per dispetto, per dispetto
al suo destino, un calcio in culo alla sua vita. Ma non si poteva sempre sopportare, anche se mandare
tutto al diavolo significava vivere peggio. Mentre mangiavamo si alzò per andare a salutare qualche
suo compare. Lasciò il portafogli sul tavolo. Vidi uscire dal fagotto di cuoio una pagina di giornale
piegata in quattro parti. Aprii. Era una foto, una copertina di Angelina Jolie vestita di bianco. Il
completo cucito da Pasquale. La giacca portata direttamente sulla pelle. Bisognava avere il talento di
vestirla senza nasconderla. Il tessuto doveva accompagnare il corpo, disegnarlo facendosi tracciare
dai movimenti.
Sono sicuro che Pasquale, da solo, qualche volta, magari quando ha finito di mangiare, quando
a casa i bambini si addormentano sfiancati dal gioco a pancia sotto sul divano, quando la moglie
prima di lavare i piatti si mette al telefono con la madre, proprio in quel momento gli viene in mente
di aprire il portafogli e fissare quella pagina di giornale. E sono sicuro che, guardando quel capolavoro
che ha creato con le sue mani, Pasquale è felice. Una felicità rabbiosa. Ma questo non lo saprà mai
nessuno.