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Ho visto un re cover

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Pubblicato da Luigi Gaudio su 28 Dicembre 2019
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Ho visto un re cover

 

La canzone, “Ho visto un re”, è un capolavoro della satira italiana, scritta insieme da Dario Fo ed Enzo Jannacci nel 1968.

È un brano che apparentemente racconta storie semplici e popolari, ma in realtà offre una critica acuta alla società dell’epoca, specialmente verso l’ingiustizia sociale e le dinamiche del potere.

Con il suo tono surreale e ironico, Jannacci descrive un mondo dove i potenti (come il re) sono colpiti da eventi tragici, ma non ne soffrono davvero, mentre la gente comune, rappresentata dal contadino, subisce e si lamenta senza avere nessun potere reale di cambiare le cose. È uno dei testi più emblematici del connubio tra teatro e canzone d’autore, tipico di Jannacci e Fo.

Se apprezzi il sarcasmo sociale e l’umorismo pungente, Jannacci e Fo sono una coppia perfetta da esplorare. Loro, insieme, hanno saputo utilizzare l’arte per smascherare l’ipocrisia e far riflettere, anche se con un sorriso.

Quindi sì, se hai visto “un re”, hai colto l’essenza di un pezzo della cultura italiana che si beffa dei potenti.

Analisi e commento della canzone

Un testo che esemplifica perfettamente l’abilità di Enzo Jannacci e Dario Fo di intrecciare satira sociale con un tono apparentemente leggero. “Ho visto un re” è una canzone che, con ironia e sarcasmo, mette a nudo le dinamiche di potere e il ruolo della classe oppressa. Ogni strofa presenta una figura di potere — un re, un vescovo, un ricco — che si lamenta per piccole perdite, mostrandosi paradossalmente vittima di ingiustizie da parte di altri potenti. Vediamo ora un’analisi più approfondita.

Struttura del testo

La canzone segue una struttura ripetitiva, quasi come una filastrocca:

  • Un personaggio di potere viene introdotto (il re, il vescovo, il ricco).
  • Questo personaggio soffre una perdita, ma la perdita è del tutto trascurabile, considerando le sue ricchezze.
  • La risposta di chi ascolta è una compassione superficiale, espressa con il refrain “Ah, beh; sì, beh”, che banalizza il dolore dei potenti e mette in luce l’assurdità del loro lamento.

L’ironia delle lacrime dei potenti

Ogni figura di potere piange per una perdita ridicola in rapporto alla loro abbondanza:

  • Il re piange perché l’imperatore gli ha tolto un castello, ma ne ha ancora 32.
  • Il vescovo morde persino la mano del sacrestano per aver perso un’abbazia, ma ne ha ancora 32.
  • Il ricco lacrima su un calice di vino perché gli sono state tolte solo tre case e un caseggiato su un totale di 32.

Il ripetersi del numero 32 è significativo: rappresenta l’opulenza esagerata che rende ridicoli i loro dolori. Come possono essere considerate vittime, questi potenti, quando le loro perdite sono briciole rispetto alla loro abbondanza? La “povera” figura del re o del ricco appare ancor più paradossale se paragonata alla reale sofferenza del contadino nella strofa finale.

Il contadino: la vera vittima

Nella strofa conclusiva, il villano (il contadino) perde tutto: la casa, la mucca, persino i dischi di Little Tony (un tocco surreale e ironico che accentua la distanza tra i potenti e il mondo popolare). Questa accumulazione di perdite sottolinea la tragedia reale del contadino, ma la sua reazione è sorprendente: non piange, ride.

Perché ride? Perché “il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale”. Questa frase è il cuore della satira di Jannacci e Fo: i potenti sono disturbati solo dal fatto che il popolo possa ribellarsi o soffrire apertamente. Il contadino ha capito che la sua unica forma di resistenza è la gioia, una sorta di risata amara che mina il potere stesso degli oppressori. L’allegria diventa una forma di sfida, un modo per mantenere la dignità e non permettere ai potenti di godere della sua sofferenza.

L’uso del dialetto e il tono surreale

Il testo mescola sapientemente l’italiano e il dialetto milanese, conferendo un’atmosfera più popolare e autentica, tipica del teatro di Fo e della musica di Jannacci. Il linguaggio colloquiale e il tono apparentemente scherzoso amplificano l’effetto satirico, rendendo la critica più penetrante. Il dialetto “porta a casa” il messaggio: i personaggi potenti diventano caricature, figure quasi farsesche, incapaci di confrontarsi con il mondo reale.

Conclusione

“Ho visto un re” è una geniale satira delle dinamiche di potere e delle classi sociali. I potenti, dipinti come caricature grottesche, si lamentano per perdite insignificanti, mentre il vero dolore è vissuto dal contadino. Tuttavia, è proprio il contadino che, pur subendo le ingiustizie più grandi, ride e non piange, consapevole che il suo pianto servirebbe solo a dare potere ai suoi oppressori.

L’ironia è brillante: chi ha tutto piange per aver perso una piccola parte, mentre chi non ha nulla ride, perché sa che la sua sofferenza non può essere compresa dai potenti. Questa canzone è un’ode all’allegrezza come forma di resistenza, un invito a non concedere mai ai potenti il privilegio della nostra sofferenza.

Un capolavoro, inutile negarlo.

Testo della canzone

di Vincenzo Jannacci e Dario Fo

Dai dai, conta su…ah be, sì be….
– Ho visto un re.
– Sa l’ha vist cus’e’?
– Ha visto un re!
– Ah, beh; si’, beh.
– Un re che piangeva seduto sulla sella
piangeva tante lacrime, ma tante che
bagnava anche il cavallo!
– Povero re!
– E povero anche il cavallo!
– Ah, beh; si’, beh.
– è l’imperatore che gli ha portato via
un bel castello…
– Ohi che baloss!
– …di trentadue che lui ne ha.
– Povero re!
– E povero anche il cavallo!
– Ah, beh; sì, beh.

– Ho visto un vesc…
– Sa l’ha vist cus’e’?
– Ha visto un vescovo!
– Ah, beh; si’, beh.
– Anche lui, lui, piangeva, faceva
un gran baccano, mordeva anche una mano.
– La mano di chi?
– La mano del sacrestano!
– Povero vescovo!
– E povero anche il sacrista!
– Ah, beh; si’, beh.
– e’ il cardinale che gli ha portato via
un’abbazia…
– Oh poer crist!
– …di trentadue che lui ce ne ha.
– Povero vescovo!
– E povero anche il sacrista!
– Ah, beh; si’, beh.

– Ho visto un ric…
– Sa l’ha vist cus’e’?
– Ha visto un ricco! Un sciur!
– S’…Ah, beh; si’, beh.
– Il tapino lacrimava su un calice di vino
ed ogni go, ed ogni goccia andava…
– Deren’t al vin?
– Si’, che tutto l’annacquava!
– Pover tapin!
– E povero anche il vin!
– Ah, beh; si’, beh.
– Il vescovo, il re, l’imperatore
l’han mezzo rovinato
gli han portato via
tre case e un caseggiato
di trentadue che lui ce ne ha.
– Pover tapin!
– E povero anche il vin!
– Ah, beh; si’, beh.

– Ho vist un villan.
– Sa l’ha vist cus’e’?
– Un contadino!
– Ah, beh; si’, beh.
– Il vescovo, il re, il ricco, l’imperatore,
persino il cardinale, l’han mezzo rovinato
gli han portato via:
la casa
il cascinale
la mucca
il violino
la scatola di kaki
la radio a transistor
i dischi di Little Tony
la moglie!
– E po’, cus’e’?
– Un figlio militare
gli hanno ammazzato anche il maiale…
– Pover purscel!
– Nel senso del maiale…
– Ah, beh; si’, beh.

– Ma lui no, lui non piangeva, anzi: ridacchiava!
Ah! Ah! Ah!
– Ma sa l’e’, matt?
– No!
– Il fatto e’ che noi villan…
Noi villan…
E sempre allegri bisogna stare
che il nostro piangere fa male al re
fa male al ricco e al cardinale
diventan tristi se noi piangiam,
e sempre allegri bisogna stare
che il nostro piangere fa male al re
fa male al ricco e al cardinale
diventan tristi se noi piangiam!

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