
Operazione Pasqualino dai Racconti romani di Alberto Moravia
28 Dicembre 2019
Nella nebbia di Giovanni Pascoli
28 Dicembre 2019Analisi del Testo di “La corsa del ragazzo sotto la luna” di Francesca Sanvitale
Il racconto “La corsa del ragazzo sotto la luna” di Francesca Sanvitale si apre con una descrizione suggestiva e quasi immobile della vita familiare in una casa sul mare. La narrazione introduce il lettore in un’atmosfera di stasi e apatia, dominata dalla monotonia quotidiana e da un senso di alienazione. La madre, Nora, appare distaccata e priva di stimoli, mentre il figlio dodicenne, Francesco, sembra riflettere questa stessa indolenza: grassottello, silenzioso e apparentemente privo di interessi o desideri, vive in una sorta di nascondiglio esistenziale, separato dal mondo esterno da un invisibile vetro.
Tuttavia, questa quiete apparentemente immutabile viene interrotta dall’inaspettato evento del “campeggio di tennis”, che diventa un punto di svolta cruciale nella vita del giovane protagonista. Questa esperienza agisce come un catalizzatore, trasformando radicalmente Francesco e rivelando lati inediti della sua personalità. Ciò che emerge è un percorso di crescita e scoperta, in cui il ragazzo trova una nuova energia vitale, dimostrando talento e determinazione nel gioco del tennis, mentre inizia a costruire legami significativi, come quello con una ragazzina dai capelli rossi e ricci.
Attraverso questo cambiamento, il testo riflette sulle dinamiche familiari, sulla comunicazione (o mancanza di essa) tra genitori e figli, e sul potere delle esperienze formative nel plasmare l’identità individuale. Il campeggio di tennis rappresenta non solo un’occasione di rinascita per Francesco, ma anche uno spunto per interrogarsi sul ruolo dell’educazione, della passione e delle relazioni umane nella costruzione di un senso di sé.
Riassumendo : 📜 Il testo di Francesca Sanvitale descrive il miracoloso risveglio di un ragazzo indolente attraverso l’esperienza del campeggio di tennis, evidenziando temi di crescita personale, relazioni familiari e trasformazione interiore. 🌟
Questo celebre articolo di giornale fu scritto dal poeta Alfonso Gatto che, alla fine degli anni quaranta, seguì come inviato il Giro d’Italia. Non è una cronaca banale della corsa, ma un’intelligente interpretazione del clima e dell’atmosfera intorno di quell’evento sportivo.
📜 “La corsa del ragazzo sotto la luna” di Francesca Sanvitale
Testo di “La corsa del ragazzo sotto la luna” di Francesca Sanvitale
La casa sul mare dal tetto piatto, terrazzato all’uso delle medine arabe, era stata fabbricata in un angusto spazio sabbioso chiuso da un muretto che la separava da altre simili costruzioni.
Addossate al muretto crescevano le «belle di notte», fiori rossi dal gambo lungo che aprono i petali di notte e di giorno diventano flosci e smorti.
Avevano comperato la casa per pochi soldi perché abusiva, costruita, negli anni Quaranta come le altre, da pescatori o lavoranti a giornata, sottoproletari arenati in quel luogo dalla bonifica mussoliniana, un miscuglio mai riuscito di veneti, calabresi e locali.
Con il boom economico costoro si erano spostati verso l’interno e avevano rivenduto i primi malsani tuguri agli intellettuali che in estate arrivavano dalla città.
Alcuni di questi, innamorati del luogo, ci si erano stabiliti.
Davanti alle costruzioni nate dal bisogno e dalla povertà ma complicate da aggiunte e bizzarri abbellimenti, si stendeva una spiaggia degradata, sudicia, che andava verso un mare senza colore.
A perdita d’occhio si vedevano dune basse, diverse ogni anno secondo il vento invernale e la potenza delle onde.
Nora aveva preteso dal marito la casa in questo posto malsano quando aveva compiuto trentacinque anni e da cinque estati ci rimaneva il più a lungo possibile.
Viveva in costume da bagno, vecchie ciabatte.
Cercava conchiglie e sassi di poco conto, si interessava a qualsiasi rifiuto, a qualsiasi forma gettata dalle onde: rami levigati dall’acqua, fondi di bottiglie, cocci, radici.
Verso le case aumentavano i barattoli vuoti e la plastica lasciata dai gitanti domenicali, le siringhe di chi si bucava di notte.
Si sedeva a osservare l’orizzonte, il passaggio di qualche battello.
Oppure seguiva con gli occhi le persone che camminavano verso nord o verso sud.
Tutti i giorni arrivava alla foce del fiumiciattolo che veniva dai campi dell’interno, sempre sporco, dalle acque oleose, e osservava, in certi periodi, i gorghi di detersivo che finivano proprio nel tratto di mare dove — poco più su — lei, suo marito, il figlio facevano il bagno.
Qualcuno aveva divelto il divieto di balneazione.
Adesso che aveva vent’anni, la figlia maggiore andava in vacanza per i fatti suoi.
L’aveva partorita a vent’anni e ormai si annoiavano a osservarsi.
Nella casa sulla sabbia Nora si sentiva felice.
Persino il marito non era più necessario all’esistenza.
Questo era l’unico posto al mondo nel quale la solitudine diventava una pacata soddisfazione.
Dopo il tramonto, nell’ora più bella del cielo, quando sembrava di essere in un mondo immobile e lontanissimo, creato per pochi eletti e nel quale erano rimasti solo l’inalterabile gioia delle luci, del fiato della natura, i piaceri e i bisogni degli animali, gli abitanti delle case raccoglievano il sudiciume in mucchi e dopo cena accendevano i falò, accoccolati come indiani di riserva intorno alla fiamma.
I proprietari più vecchi raccontavano che dieci, venti anni prima era d’uso dopo cena suonare la chitarra, mettere insieme cori fino a notte inoltrata.
Chi passava veniva invitato a mangiare salsicce cotte sulla brace, a entrare nel cerchio dei falò e molti giovani dormivano in riva al mare.
Oggi i ragazzi non c’erano più.
Gli adulti sembravano taciturni ma immersi come Nora in una incomprensibile beatitudine.
Erano padri e madri che i figli avevano lasciato per goire altrove.
Quando il falò si spegneva, ammucchiavano la poltiglia nera della plastica, la lasciavano o la seppellivano nella sabbia dalla quale sarebbe emersa non si sa quando.
La spiaggia era costellata di piccoli mucchi scuri, rimasuglio eterno di sacchetti, contenitori, sudiciume.
Per Nora, e non solo per lei, era bello.
Quando non camminava guardava le case seminascoste dalle dune sulle quali alcuni proprietari tentavano di alzare steccati, di far crescere siepi che ogni anno venivano sommerse da nuova sabbia.
Chi capitava da quelle parti si chiedeva perché era nata la strana comunità di colti professionisti, scrittori, gente di cinema, che avversava la bellezza e l’igiene e che cercava un piacere dalla depravazione ambientale?
Perché quel rintanarsi da bestie tra sabbia sporca e rifiuti in persone che a distanza di trenta chilometri desideravano case sempre più comode e lavoravano alacremente per alzare il livello di vita?
Eppure sempre nuovi ospiti s’impantanavano su quel tratto di spiaggia ed entravano nell’incantesimo.
Si sedevano, si sdraiavano a guardare gli scoloriti, esangui tramonti, oppure passeggiavano seminudi verso la foce del fiume o verso sud.
Un grande viaggiatore disse una volta con molta passione che nessun posto al mondo eguagliava quel tratto del litorale.
Partito il figlio per il campeggio di tennis, a Nora capitò di alzarsi sempre più tardi.
Il primo pensiero della mattina, che subito dimenticava, era che tutto si poteva considerare perduto.
Non sapeva che razza di pensiero fosse.
Il marito rimaneva in città a lavorare e lei durante la notte stava in ascolto.
La sua testa era trascinata via dalle motociclette e dai juke-box che mandavano suoni altissimi.
Poi diminuivano le voci e l’acciottolio dei piatti della pizzeria vicina.
Il vento smetteva di portare odore di fritto.
Lasciando la grande finestra aperta sulla sabbia, sentiva la risacca e ascoltava la radio fino all’alba.
La fissava: uno strano essere dal quale provenivano veri spiriti che si confessavano, che cercavano conforto, che raccontavano spiritosaggini o storie, si dedicavano a vicenda ricordi e canzoni, sussurravano frasi eccitanti, pornografiche.
Ascoltava con voracità come fosse la vita e si addormentava alle prime luci per svegliarsi tardi, sudata, in un sole che sbalordiva.
Cominciava una giornata senza niente da fare, senza responsabilità, senza telefono.
Fuori dalla tana poteva cercare altri corpi stesi al sole per unirsi, volendo, ai bisogni e alla logica del branco.
Cinque anni prima, quando avevano acquistato la casa, Francesco aveva sette anni.
Il figlio minore le piaceva perché era suo ma non lo capiva.
Non lo capiva neanche suo padre.
Ci sono bambini non capricciosi ma distanti.
Si muovono dietro a un vetro, sono divisi dalla comunicazione con gli adulti.
Non si sa perché e quando questo sia avvenuto.
Forse molto presto.
Forse sono solo diversi da chi li ha generati.
Non avevano esperienza di psicologia.
Avevano visto l’infanzia della figlia, che era venuta su con una soddisfacente protervia che l’avrebbe difesa dai maschi e dall’amore, e voleva oggi dedicarsi al commercio nello studio del padre.
Ma Francesco stava invece in un nascondiglio aperto, dietro a un vetro, senza bisogni e senza desideri comprensibili.
Andava bene a scuola ma considerava un duro dovere le feste dei bambini, le partite a pallone, le attività sociali.
Amava solo i giornaletti.
Quando leggeva era difficile distrarlo, fargli alzare la testa.
Appena comperata la casa lui si dedicò subito a un’attività fuori luogo e costruì una bancarella davanti al muro esterno dove vendeva i giornalini vecchi e i doppioni a un ragionevole prezzo.
Passava buona parte della giornata seduto su un gradino, assente dalla scena del mondo.
Leggeva.
Non alzava gli occhi quando gli altri si fermavano.
Se gli rivolgevano una domanda rispondeva con la quieta indifferenza di un antiquario di poche speranze.
Ingrassava.
Né punizioni, né regali, né novità avevano più il potere di raggiungerlo.
La figlia maggiore fuggiva con le amiche, con sempre nuovi compagni di tenda e Francesco restava seduto sulla spiaggia vicino alla madre, immerso nel sopore.
Se c’era vento chiudevano gli occhi e provavano il grande piacere di essere avvolti in un bozzolo di aria calda.
Dalle fessure delle palpebre vedevano passare qualche surf coloratissimo oppure cercavano il brillio dei raggi sull’acqua.
Alla fine Francesco non preoccupava perché era benevolo e conciliante, eppure, senza dirselo, Nora e il marito sapevano che aveva qualche cosa di diverso da loro, in meno e in più.
Non sapevano che si può osservare con amore i comportamenti di un ragazzo perché non indagavano neanche sui fatti della vita o su loro stessi o sugli altri esseri umani.
Quando suonarono alla porta Nora si ricordò che il marito era andato a prendere il figlio al campeggio di tennis.
Venti giorni erano già passati.
Aprì e il ragazzo alzò di scatto le braccia sopra la testa in segno di vittoria.
Stringeva nei pugni due coppe.
Aveva una fascia rossa intorno alla fronte e al collo cinque, sei nastri di colori diversi e altrettante medaglie d’oro e d’argento.
Scoppiò a ridere e gridò: — Ho vinto tutto! —.
Poi andò verso il tavolo e depose uno a uno i suoi trofei, elencando di ciascuno, con la voce trattenuta di uno speaker, la motivazione, il torneo, la categoria.
Era dimagrito in modo impressionante.
Sotto la maglietta scolorita si notavano due spalle aguzze e una schiena diritta, che scattava fuori dai pantaloncini.
Nora lo trovò altissimo, su lunghe gambe da fenicottero.
Alzò gli occhi verso il marito.
Lui le fece un cenno come a dire «dopo».
Quel figlio che si era trasformato in un eroe sconosciuto li aveva spiazzati ancora una volta.
Gli apparteneva meno di prima, portava in sé la luce di un trionfo per loro irraggiungibile.
Poi balzò via sulla spiaggia, corse rapido sul bagnasciuga alzando schizzi e schiuma, verso le case degli amici oppure per il piacere di sentire i muscoli in azione.
Si spogliarono.
Intanto che il corpo del marito, troppo massiccio, quasi stanco di portarsi dentro la pesante ossatura, veniva fuori dai vestiti, Nora si decise a fare qualche domanda.
Non c’erano misteri.
Il ragazzo aveva raccontato che il primo giorno di campeggio aveva deciso per un programma massimo di otto ore: ginnastica preparatoria, allenamento, footing.
Si era iscritto a tutte le gare possibili.
Così era riuscito, cominciando dai gradi più bassi, a vincere i tornei adatti alla sua età e al suo grado ed era passato di categoria vincendo ancora e ancora in una specie di marcia della fortuna, di meraviglia, di trionfo.
— Così all’improvviso? — balbettò Nora.
Il marito non sapeva che cosa dire.
In macchina il figlio gli aveva anche raccontato di aver conosciuto una ragazzina con i capelli rossi e ricci.
Si trovavano alla sera ai biliardini.
Lei veniva a vedere sempre i suoi allenamenti e le sue gare.
Prima di lasciarsi si erano dati un bacio.
— Un bacio… — ripeté Nora tra sé.
Nella sua mente balzò come una freccia il surf colorato che filava all’orizzonte storie di un tempo d’infanzia dove si sconfiggevano i draghi, si sgominavano eserciti, si combattevano terribili spiriti del male, si valicavano mari e monti, si lottava fino alla morte per avere un cenno della donna del cuore.
Ma si trattava di eroi di carta, fantasie di poeti e di popoli.
Il marito si era buttato nudo sul letto e lei si stese vicino con esitazione.
Ma anche il marito aveva altri pensieri.
Ambedue giravano intorno a cose che non avevano mai provato e non riuscivano ad afferrare; la vita interiore, che è impossibile a immaginarsi.
Senza dirselo, rimanendo in silenzio, vedevano e rivedevano il loro ragazzo, che correva sulla spiaggia con la sua nuova lunga falcata, sotto la luce della luna.