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28 Dicembre 2019Analisi approfondita e articolata del racconto Lo studente di Anton Čechov, ideale per una lettura scolastica o una riflessione di livello liceale:
📚 Commento a “Lo studente” di Anton Čechov
Il racconto Lo studente, pubblicato nel 1894, è uno dei testi più brevi e intensi di Anton Čechov. Apparentemente semplice, esso si rivela un piccolo capolavoro di profondità psicologica e riflessione esistenziale, in cui il protagonista, Ivan Velikopol’skij, attraversa un momento di rivelazione spirituale.
🌌 Temi principali
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La continuità tra passato e presente
Il cuore del racconto sta nell’idea che il passato non sia morto, ma continui a vivere nel presente attraverso una catena invisibile di emozioni, esperienze e verità umane. Ivan, raccontando l’episodio evangelico del rinnegamento di Pietro, vede che la storia provoca un’emozione sincera nelle due donne: Vasilisa piange, Luker’ja si commuove. In quel momento, capisce che la vita umana ha un significato profondo e condiviso, e che ciò che è stato è ancora vivo nei cuori. -
La scoperta della bellezza e della verità
In un mondo che inizialmente appare freddo, tetro, vuoto e destinato all’immutabilità del dolore, la narrazione del Vangelo fa breccia. Non è solo un racconto religioso: è una metafora della condizione umana. Ivan comprende che la verità e la bellezza possono trasmettersi, toccare le persone e cambiare la realtà. -
La maturazione interiore del protagonista
All’inizio Ivan è un ragazzo scoraggiato, freddo, affamato e pessimista. La natura gli sembra ostile e desolata. Ma dopo aver raccontato la storia di Pietro e visto la reazione delle donne, qualcosa cambia in lui: sente la giovinezza, la forza e la speranza invaderlo. Non è un’illuminazione mistica, ma una presa di coscienza del fatto che le esperienze umane hanno senso, che siamo legati gli uni agli altri nel tempo e nello spazio da emozioni autentiche.
🏞️ Simbolismo della natura
La natura accompagna il racconto come un personaggio silenzioso. All’inizio è “squallida, sorda e inospitale”, metafora dello stato d’animo del protagonista. Il vento, il freddo, l’oscurità evocano un mondo immobile, senza speranza. Ma alla fine, il tramonto “freddo e purpureo” diventa un simbolo di rinnovamento: la Pasqua è vicina, la luce ritorna. Così anche l’animo del protagonista si riscalda, riacquistando fiducia e senso della vita.
👤 I personaggi
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Ivan Velikopol’skij: giovane studente di teologia, è in un momento di crisi esistenziale. Rappresenta il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, il bisogno di trovare un senso nel mondo.
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Vasilisa: la vecchia vedova che, pur non parlando molto, con le lacrime mostra una connessione profonda con il Vangelo e con l’umanità di Pietro.
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Luker’ja: figura silenziosa, quasi muta, ma il suo turbamento interiore rivela quanto anche le persone più semplici possano essere toccate dal dolore e dalla bellezza delle storie umane.
💭 Il messaggio finale
Il racconto si chiude con un’intensa epifania: la vita, per quanto difficile, è piena di significato. Anche un piccolo gesto o una semplice parola può toccare il cuore di un altro essere umano, rivelando un legame invisibile ma potentissimo tra le persone.
Questa intuizione regala a Ivan una gioia improvvisa, un senso di appartenenza al mondo e alla storia. E così, da un’esperienza minima, Čechov fa nascere una riflessione universale sulla memoria, la solidarietà e la fede nell’umano.
✨ Conclusione
Lo studente è una parabola sottile, un racconto breve ma denso, che ci invita a non sottovalutare la forza delle storie e dei sentimenti. In un mondo che spesso appare cinico o privo di senso, Čechov ci ricorda che esistono ancora emozioni autentiche, capaci di unire le generazioni e dare significato all’esistenza.
Lo studente di Anton Cechov
Il tempo dapprima era stato bello e mite. I merli fischiavano, e nelle vicinanze degli stagni qualcosa di vivo produceva un brusio lamentoso, come soffiando in una bottiglia vuota. Passò una beccaccia, e il colpo di fucile a lei destinato riecheggiò con un suono allegro e fragoroso nell’aria primaverile. Ma quando nel bosco si fece buio, prese a soffiare da oriente un vento improvviso, freddo e penetrante, e tutto s’azzittì. Sulle pozzanghere si allungarono aghi di ghiaccio e il bosco si fece squallido, sordo e inospitale. Si sentì odore d’inverno.
Ivan Velikopol’skij, allievo dell’accademia ecclesiastica e figlio di un diacono, aveva sempre seguito, tornando a casa dalla caccia agli uccelli di passo, un sentiero che passava attraverso un prato allagato. Aveva le dita intirizzite e la faccia arrossata dal vento. Gli pareva che quel vento improvviso avesse distrutto ogni ordine e armonia, che la natura stessa provasse angoscia e che per questo il crepuscolo fosse sceso prima del solito. Tutto era deserto e particolarmente tetro. Solo negli orti delle vedove, vicino al fiume, brillava un fuoco; tutt’intorno, lontano, e lì dove, a circa quattro verste, c’era il villaggio, ogni cosa era sprofondata nell’oscurità fredda della sera.
Lo studente ricordò che, quando era uscito di casa, sua madre, seduta sul pavimento nell’ingresso, scalza, stava lucidando il samovar, mentre suo padre era sdraiato sulla stufa e tossiva; data la ricorrenza del Venerdì Santo, in casa non si era cucinato nulla, e lui sentiva i morsi della fame. Rabbrividendo per il freddo, egli meditava che un vento del tutto uguale aveva soffiato anche ai tempi di Rjurik, di Ivan il Terribile e di Pietro il Grande, e che sotto il loro regno c’erano una povertà e una fame ugualmente atroci, e gli stessi tetti di paglia bucati, l’ignoranza, la noia, lo stesso deserto all’intorno, e quelle tenebre, quel senso di oppressione: tutti questi orrori erano sempre esistiti, esistevano allora e ci sarebbero stati sempre, e anche se fosse passato un altro migliaio di anni, non per questo la vita sarebbe diventata migliore. E non aveva voglia di tornare a casa.
Gli orti delle vedove erano chiamati così perché li coltivavano due vedove, madre e figlia. Il fuoco ardeva vivo, crepitando e rischiarando lontano all’intorno la terra arata.
La vedova Vasilisa, una vecchia alta e grassa, con un corto pellicciotto da uomo, stava in piedi lì accanto e guardava pensierosa il fuoco; sua figlia Luker’ja, piccola, butterata, con una faccia ottusa, era seduta in terra e lavava delle stoviglie. Evidentemente, avevano appena finito di cenare. Si udivano anche delle voci maschili; erano garzoni del luogo che abbeveravano i cavalli al fiume.
– Eccovi bell’e tornato l’inverno,– disse lo studente avvicinandosi al fuoco. – Buona sera!
Vasilisa sussultò, ma subito lo riconobbe e gli sorrise affabile.
– Non ti avevo riconosciuto, che Dio ti assista! – disse – Sarai ricco!
Si misero a parlare. Vasilisa, una donna esperta che un tempo aveva servito in casa di signori come balia e poi come bambinaia, si esprimeva con finezza, e un sorriso dolce e posato non lasciava mai il suo viso; sua figlia Luker’ja, invece, donnetta di campagna che il marito aveva sempre maltrattato, guardava silenziosa lo studente strizzando gli occhi, e aveva un’espressione strana, come una sordomuta.
– Fu proprio in una notte come questa che l’apostolo Pietro si scaldò come noi al fuoco, – disse lo studente allungando le mani verso la fiamma. – Si vede che anche allora faceva freddo. Ah, che notte terribile fu quella, nonnina! Una notte interminabile e triste!
Poi scrutando il buio all’intorno, scosse nervoso la testa e domandò:
– Sarai stata, credo, ai Dodici Vangeli?
– Ci sono stata, – rispose Vasilisa.
– Se rammenti, durante l’ultima cena, Pietro disse a Gesù: «Con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte». Ma il Signore gli rispose: «Pietro, io ti dico che oggi, prima che il gallo canti, per tre volte tu negherai di conoscermi». Dopo la cena, Gesù fu preso nell’orto da una angoscia mortale, e si mise a pregare; e il povero Pietro, con l’anima accasciata, spossato, con le palpebre appesantite, non riusciva in alcun modo a vincere il sonno. Si addormentò. Poi, tu l’hai sentito, Giuda quella stessa notte baciò Gesù e lo consegnò nelle mani dei carnefici. Lo condussero legato dal Sommo Sacerdote, e intanto lo battevano, e Pietro, estenuato, torturato dall’angoscia e dall’ansia, capisci, senza essersi cavato il bisogno di dormire, e presentendo che di lì a poco sulla terra sarebbe accaduto qualcosa di orribile, lo seguì… Egli amava Gesù appassionatamente, follemente, e di lontano vide che lo picchiavano…»
Luker’ja mise da parte i cucchiai e fissò lo sguardo immobile sullo studente.
– Giunsero dal Sommo Sacerdote, – seguitò quello, – e si misero ad interrogare Gesù; nel frattempo i servi accesero un fuoco in mezzo al cortile, perché faceva freddo, e si riscaldarono. Con loro, accanto al fuoco, c’era Pietro e anche lui si riscaldava, come me adesso. Una donna, vedendolo, disse:
«Anche costui era con Gesù», e ciò significava che anche lui doveva essere sottoposto a interrogatorio.
E tutti i servi che si trovavano accanto al fuoco dovettero guardarlo con aria sospettosa e severa, perché egli si turbò e disse:«Io non lo conosco!».
Di lì a poco qualcun altro riconobbe in lui uno dei discepoli di Gesù e gli disse:
«Anche tu sei uno di loro».
Ma lui negò di nuovo. E per la terza volta qualcuno si rivolse a lui:
«Non sei forse tu che oggi ho visto con Lui nell’orto?». Egli negò per la terza volta. E subito dopo il gallo cantò, e Pietro, avendo scorto di lontano Gesù, si ricordò delle parole che gli aveva dette alla cena… Si ricordò, tornò in sé, uscì dal cortile e pianse amaramente.
Nel Vangelo è detto: «E, andatosene via, pianse amaramente».
M’immagino: un giardino silenzioso, buio buio, e nel silenzio si odono a malapena i sordi singhiozzi…
Lo studente sospirò e rimase pensieroso. Continuando a sorridere, Vasilisa ad un tratto prese a singhiozzare, delle grosse lacrime le corsero copiose per le guance, e si riparò il viso dalla luce del fuoco con il braccio come se si vergognasse delle sue lacrime; ma Luker’ja, continuando a fissare lo studente, arrossì e assunse un’espressione di pena e di sforzo, come una persona che cerchi di reprimere un forte dolore.
I garzoni tornavano dal fiume e uno di essi, a cavallo, era già vicino al fuoco e la luce tremolava su di lui. Lo studente augurò alle vedove la buona notte e proseguì oltre. Di nuovo lo avvolsero le tenebre e di nuovo egli si sentì le mani intirizzite. Soffiava un vento crudo, era veramente tornato l’inverno, e non si poteva credere che due giorni dopo sarebbe stata Pasqua.
Lo studente pensava a Vasilisa: se si era messa a piangere, voleva dire che quello che era accaduto a Pietro in quell’orribile notte aveva qualche rapporto con lei.
Si voltò a guardare. Il fuoco solitario ammiccava tranquillo nell’oscurità e attorno ad esso non si vedeva più nessuno. Lo studente tornò a riflettere che se Vasilisa si era messa a piangere e sua figlia era rimasta turbata, quel che lui aveva raccontato poco prima, e che era accaduto diciannove secoli addietro, aveva un legame col presente: con le due donne e, probabilmente, con quel villaggio deserto, con lui stesso, con tutti gli uomini. Se la vecchia si era messa a piangere, non era perché il suo racconto fosse stato commovente, ma perché Pietro le era affine, e perché lei con tutto il suo essere partecipava a ciò che era accaduto nell’animo di Pietro.
E la gioia si agitò all’improvviso nella sua anima con tanta intensità che dovette perfino fermarsi un minuto a riprendere fiato.
«Il passato, – pensava, – è legato al presente da una catena ininterrotta di avvenimenti che scaturiscono l’uno dall’altro.» E gli pareva di aver scorto, poco prima, i due capi di quella catena: non appena aveva toccato uno dei due estremi, l’altro aveva vibrato.
E mentre attraversava il fiume sulla chiatta, e poi mentre saliva la collina, guardando verso il villaggio natio e verso occidente, dove il tramonto freddo e purpureo brillava in una striscia sottile, pensava che la stessa verità e la stessa bellezza che guidavano la vita degli uomini nell’orto degli ulivi e nel cortile del sommo sacerdote erano continuate senza interruzione fino a quel giorno, e sicuramente avevano sempre costituito la parte essenziale della vita degli uomini e in generale della terra quaggiù. E un senso di giovinezza, di salute e di forza – aveva solo ventidue anni – e l’attesa inesprimibilmente dolce di una felicità sconosciuta, misteriosa, si impadronirono a poco a poco di lui, e la vita gli sembrò affascinante, magnifica e colma di un alto significato.
A. Cechov, Tutte le novelle, X, Rizzoli, Milano 1956, pp. 991-993