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27 Gennaio 2019Ingiustizia è fatta
27 Gennaio 2019Ricognizione storica sugli eventi dell’8 settembre 1943
attraverso la figura di Ondina Peteani
prima staffetta partigiana d’Italia
deportata AUSCHWITZ n. 81672
realizzata dal
Presidente dell’Associazione Olokaustos
Giovanni DeMartis
8 settembre 1943 – inizio della Resistenza italiana
Ondina Peteani è nata il 26 aprile 1925 a Trieste, è
più giovane del regime fascista che combatte, è nata
in tempo di dittatura. Ma avere quindici anni non
significa non poter essere utili: da tempo uno degli
incarichi di Ondina è andarsene in treno a Padova e a
Udine per portare tra gli operai copie della “Unità” e
del “Avanti”.
Nel 1942 lavora come operaia al cantiere di
Monfalcone, sa usare il “tornio a revolver” una
conoscenza che le tornerà utile ad Auschwitz.
Nei suoi ricordi il ruolo dell’ambiente di lavoro è
fondamentale per la crescita politica: “e così, da una
parte i colleghi di lavoro e dall’altra un gruppo di
studenti che frequentavo a Ronchi, attraverso
chiacchierate e discussioni, cominciai ad interessarmi
di problemi sociali e politici. Sia alcuni operai del
cantiere, sia alcuni studenti, militavano già allora
nelle file clandestine dell’antifascismo e quasi tutti
erano comunisti ed io mi sentii progressivamente
attratta da questi compagni ed infine cominciai a
capire quanto eravamo incasermati”. Si tratta ancora
soltanto di suggestioni e di discorsi, la resistenza
armata è ancora qualcosa di distante, di epico e di
elettrizzante per l’adolescente Ondina. “Allora in
queste terre (soprattutto sul Carso) vi erano già
operanti alcuni gruppi partigiani sloveni e parecchi
ragazzi di queste località si aggregarono a queste
formazioni. I loro familiari dicevano di non saperne
niente, che i loro ragazzi erano stati rapiti
(ovviamente per cercar di evitare le rappresaglie
fasciste nei loro confronti). Da parte nostra, eravamo
entusiasti e dicevamo a chi ci raccontava queste cose
di dar loro anche il nostro indirizzo per farci
“rapire”.
La realtà che circonda Ondina è un presente fatto di
guerra continua. Sin dal maggio 1941 il Partito
Comunista Italiano e l’Osvoboldilna Fronta (il Fronte
di Liberazione sloveno) collaborano nella lotta armata
nella Slovenia occupata. L’invasione italo-tedesca
della Iugoslavia ha prodotto un cambiamento profondo
nei confini orientali italiani: la Slovenia è divenuta
una nuova provincia e la vicina Croazia un regno
satellite affidato al duca Aimone d’Aosta che ha
slavizzato il suo nome in Tomislav
A cavallo tra il Friuli e la Slovenia combattono le
formazioni partigiane slovene e vi si affiancano anche
i comunisti italiani.
Di questi scontri si parla anche nel cantiere di
Monfalcone e Ondina sogna di essere rapita, di
andarsene in montagna.
Nel 1942 il Partito Comunista Italiano si pone
l’obiettivo di creare delle unità nazionali che,
almeno inizialmente, siano di concreto supporto alla
ben più organizzata attività slovena. Le trattative
tra i comunisti italiani e gli sloveni portarono alla
creazione nel marzo 1943 del “Distaccamento
Garibaldi”, una piccola unità nella quale sarebbero
dovuti confluire tutti i combattenti italiani che si
trovavano inquadrati nelle unità partigiane slovene.
Si trattava del primo distaccamento partigiano
italiano.
(…) Il cerchio si stringe anche intorno ad Ondina.
Il 2 luglio 1943 la polizia politica l’arresta. Viene
portata al carcere femminile dei “Gesuiti” e
interrogata. La sua posizione è delicata e qualcuno ha
parlato facendo nomi e raccontando fatti. Il carcere
ospita prigioniere politiche soprattutto slovene, si
fa la fame.
A salvare Ondina sono gli avvenimenti del settembre
1943. L’armistizio firmato l’8 settembre mette in
subbuglio anche il Friuli Venezia Giulia.
Il 9 settembre la folla libera i prigionieri
dell’altro carcere triestino, quello del “Coroneo”, il
giorno successivo vengono liberate anche le recluse
dei “Gesuiti”. Ondina appena libera decide di unirsi
ai partigiani. Ha poche scelte: è oramai conosciuta
come attivista comunista e per i fascisti è una
“evasa”.
La situazione politica non è affatto chiara, l’unica
certezza è che i tedeschi non rimarranno con le mani
in mano. Rimanere a Trieste significherebbe per lei
essere ripresa e questa volta dai nazisti. Va a Villa
Montevecchio presso Ranziano. Molti operai dei
cantieri di Monfalcone erano fuggiti e, tutti insieme,
stavano cercando di organizzare una unità di
combattimento.
Ondina a questo proposito scriveva: “Da parte del
comando partigiano viene impartito l’ordine a Fontanot
Vinicio (Petronio) di scendere a Ronchi per reclutare
largamente fra i compagni del terreno. A Selz incontra
Marega Ferdinando alla testa di un nutrito gruppo di
operai del cantiere che si arruolano volontari tra i
partigiani. Si forma così la prima brigata partigiana
italiana che assume provvisoriamente il nome di
Brigata Triestina, col compito di operare
principalmente nella parte più avanzata del Carso,
sopra Monfalcone fino a Gorizia” (7).
Il 10 settembre per Ondina fu una giornata memorabile.
Il Comitato d’Azione del cantiere di Monfalcone ha
deciso: millecinquecento operai ancora con la tuta da
lavoro si avviano verso Villa Montevecchio dove c’è un
centro di smistamento incaricato di inquadrarli in una
unità partigiana. Ondina è con loro.
Lungo la strada la colonna attacca il presidio
dell’aeroporto di Ronchi e mette in fuga un corpo di
guardia tedesco che sorveglia il cavalcavia. Nella
notte gli operai raggiungono Villa Montevecchio. Le
notizie non sono buone: i tedeschi riavutisi dalla
sorpresa iniziale si avvicinano e si parla di carri
armati e d’artiglieria.
In tutta fretta i nuovi arrivati vengono inquadrati in
quella che provvisoriamente viene denominata “Brigata
Proletaria”. Il compito che i partigiani si danno è di
resistere su una linea che va da Merna a Valvocciano
in modo da interrompere i rifornimenti via terra
destinati ai tedeschi che combattono nei Balcani.
Il 12 settembre i tedeschi avanzano. Non è chiaro in
questo momento dove sia Ondina, probabilmente nel 3°
Battaglione comandato da Vinicio Fontanot che difende
Monte Sagrado. I tedeschi avanzano con l’appoggio dei
mezzi corazzati. La “Divisione Proletaria” regge
l’urto, distrugge un carro e tre blindati, ventisei
nemici rimangono uccisi. Si combatte con ferocia, i
tedeschi ricorrono all’aviazione che bombarda le
posizioni della “Proletaria” e verso il 21 settembre
attaccano nuovamente e in forze.
Il 3° Battaglione viene travolto e fatto a pezzi, gli
operai continuano a combattere sin quando rimangono
munizioni.
Quando i tedeschi completano lo sfondamento sul campo
di battaglia rimangono i cadaveri di
duecentocinquantasei operai di Monfalcone e di
centonovantadue di Ronchi.
Ondina scrive nel suo diario: “Solamente pochissimi
riescono a rifugiarsi sulla parte più arretrata e a
porsi in salvo”, tra questi la stessa Ondina che,
persi i collegamenti con il gruppo, torna verso casa.
Appena arrivata a casa Ondina si accorge di essere
braccata. Un carabiniere viene a cercarla e per non
essere arrestata è costretta a fuggire dalla finestra.
A questo punto non rimane altro che passare alla
clandestinità e combattere come si diceva allora “sul
terreno”. Ciò significa appoggiare le pattuglie che
dalla montagna scendono verso i centri abitati per
compiere azioni militari e colpi di mano. Ondina è fra
i quadri del “Battaglione Triestino d’Assalto” addetta
ai collegamenti.
In un azione notturna, come racconta Ondina succede
il peggio: “Dopo una settimana di permanenza lassù,
decisi di scendere con la pattuglia per provvedermi di
alcuni capi di vestiario invernali e incontrare un
sostenitore con cui avevo appuntamento e che mi
avrebbe portato medicinali e denaro raccolti, anche
qualche arma. La notte dell’11 febbraio 1944, mentre
tornavo al mio battaglione, venni catturata da un
pattuglione di tedeschi in perlustrazione e venni
portata al comando delle SS in piazza Oberdan a
Trieste” (8).
Ondina non era stata catturata insieme ad altri, cosa
che l’avrebbe fatta immediatamente identificare come
partigiana operativa, durante l’interrogatorio
raccontò di essere stata arrestata mentre si recava
dal fidanzato. Per venti giorni venne trattenuta nelle
celle del Comando delle SS e poi trasferita al carcere
“Coroneo” ai primi di marzo.
Mentre era in carcere le azioni della Resistenza
continuavano in tutta la provincia di Trieste. I
nazisti rispondevano con rastrellamenti e feroci
rappresaglie.
Il 27 marzo 1944 a Trieste vennero impiccati
pubblicamente quattro partigiani del “Battaglione
Triestino”: Sergio Cebroni, Giorgio De Rosa, Remigio
Visini e Livio Stocchi.
Il 3 aprile vennero impiccati settantadue ostaggi in
rappresaglia ad un attentato compiuto dalla Resistenza
a Opicina.
Il 29 aprile, per rappresaglia rispetto all’uccisione
di cinque tedeschi avvenuta a via Ghega a Trieste, i
nazisti impiccarono altri cinquantasei partigiani.
Tutte le vittime venivano prelevate dal carcere del
“Coroneo” come ricorda nella sua testimonianza
Ferruccio Derenzini: “Da giorni giacevamo in un tetro
sotterraneo delle carceri del Coroneo a Trieste: la
cella della morte”. Era la riserva” di ostaggi a
immediata disposizione del comando tedesco della
piazza per le rappresaglie agli attentati e sabotaggi
dei gruppi di azione partigiana. In quella cella,
stipatissimi, eravamo circa in cento tra italiani e
sloveni; rastrellati, quest’ultimi, nei paesi a nord
di Trieste.
C’era con loro anche un giovane prete che a suon di
campane aveva dato il segnale della scorreria tedesca.
Noi provenivamo dalle carceri di Fiume. Era l’aprile
del 1944. Una notte le SS spalancarono la porta della
cella e chiamarono uno dopo l’altro cinquanta
compagni. Uno di questi che tardava a presentarsi,
perché non aveva ancora calzato gli stivali, si sentì
gridare in faccia: “Dove vai tu, gli stivali non
servono”. Capimmo e ammutolimmo. Il prete si appartò
in un angolo della cella per raccogliersi in
preghiera. Li rivedemmo tutti cinquanta, assieme a
cinque giovani donne, cinque partigiane, appesi con il
filo di ferro alle ringhiere delle scale di un
palazzo. Per un feroce eccesso di zelo il comandante
della piazza aveva fatto trucidare anche le cinque
partigiane come sovrapprezzo “alla regola” dei dieci
per uno; sebbene i tedeschi uccisi da una bomba dei
G.A.P. – in Via Ghega a Trieste – fossero cinque.
Rivedemmo penzolanti quei compagni mentre le SS ci
scortavano allo scalo ferroviario per deportarci a
Dachau” (9).
Ondina era in gravissimo pericolo. L’11 maggio altri
undici detenuti del carcere vennero impiccati dai
nazisti.
Alla prossima rappresaglia poteva essere il suo turno.
“Alla fine di maggio ero nell’elenco di quelle che
dovevano essere deportate. Non sembri strano se dico
che ne fui contenta, ma durante la mia detenzione
erano accaduti parecchi fatti preoccupanti: il
peggiore era stato il prelievo di alcune detenute e la
loro impiccagione per rappresaglia in via Ghega. Anche
l’interprete mi sussurrò che lì stavano accadendo
“brutte cose” e che era meglio così per me. Della
famigerata Risiera ancora non si sapeva quasi niente,
si diceva solo che era un centro di raccolta per la
deportazione soprattutto di ebrei. Ma qualcuno sapeva
già qualcosa, l’interprete ad esempio: “Vada via
contenta” – mi disse – “qui stanno accadendo davvero
cose molto brutte” poi aggiunse: “meglio via, lontano
di qui che in Risiera”. Il 31 maggio [1944], all’alba
partimmo dalla stazione di Trieste, non dal solito
binario (la gente non doveva vedere queste cose!) ma
sul binario dei silos da dove partivano i treni merci.
Difatti, da quel momento tali eravamo considerati:
stavano partendo circa duecento pezzi e pezzi ci
calcolarono da quel momento, ma noi non lo sapevamo
ancora, per cui credemmo di partire in 200 persone di
cui 40 donne” (10).
(8) Testimonianza di Ondina Peteani conservata presso
l’Associazione Nazionale ex Deportati Politici nei
Campi Nazisti di Milano, p. 5.
(9) Per l’intera testimonianza vedi a
http://www.associazioni.milano.it/aned/tr_udine/1983/1-2/pages/1983-1-P-16.htm
(10) Testimonianza di Ondina Peteani conservata presso
l’Associazione Nazionale ex Deportati Politici nei
Campi Nazisti di Milano.