Discepolo di Platone apparentemente ostile all’atteggiamento del maestro, solo diverso di mentalità; Platone amava dedurre la realtà dai principi, Aristotele è uno scienziato, scrive opere su tutto ciò che il mondo offre (viventi natura). Realtà prime per noi = intuitive, realtà prime per sé = oggetto della ragione, il filosofo deve trasformare le realtà prime per noi in realtà prime per sé (I cap della Fisica); trascrivere evidenze dell’esperienza in termini razionalmente coerenti, il compito è decodificare ciò che è scritto in un codice e farlo arrivare in un altro codice, perché la natura è già scritta chiaramente, sembra un problema di linguaggio, voleva trasformare l’esperienza in sapere. L’esperienza è un fluido ma è sintetica, dà subito il senso della cosa. E’ ridicolo voler dimostrare le cose evidenti, si deve decodificare la verità dei sensi, è come il nesso tra pensiero e parola. Per lui la realtà era come la vedevano i sensi e dà dei riferimenti per tradurla. La Metafisica è l’opera che viene dopo la fisica ma significa anche oltre o al di sopra delle cose fisiche e questo ne è rimasto, sembra in contraddizione con lo sguardo di Aristotele sulla realtà, ma essa esiste solo se c’è qualcosa che va oltre la fisica. Uno scienziato per essere tale deve studiare un oggetto esistente, perché ci sia scienza deve esserci oggetto della scienza; essere si dice in tanti modi e tanti significati, ci sono tanti tipi di essere e ci sono tante scienze quante i generi dell’essere. Esiste una sostanza della metafisica, il sovrasensibile? Egli dimostra che esiste così: tutte le scienze si occupano di sostanze cioè oggetti che permangono (primo per noi), tutti gli altri modi di essere dipendono dalla sostanza che è come sostantivo nella grammatica; se tutte le sostanze fossero corruttibili non esisterebbe nulla di incorruttibile, tutto sarebbe sensibile cioè ciò che nasce e che muore. Tempo e movimento sono incorruttibili, il tempo non può essere generato e non si corromperà, è infinito e non sensibile e sovrasensibile; è la misura di un movimento che anch’esso è quindi sovrasensibile; il tempo non è sostanza perché è attributo di movimento, il movimento è attributo delle cose ma se non esistesse nulla si muoverebbe e nulla esisterebbe. La metafisica si occupa della causa che non si vede della realtà che si vede ma è necessario porre la causa sovrasensibile perché non si spiegherebbero il tempo e il movimento; la metafisica studia una realtà dimostrata dall’esistenza delle cose che si muovono.
Come si spiegano le cose e quando sono comprese scientificamente? Quando se ne capisce la causa, nel senso che ci si chiede che cos’è la causa; quando cerca le cause è scienziato, quando si chiede che cos’è la causa è filosofo, fabbrica gli strumenti concettuali per studiare le cose, astratti e universali; discorso epistemologico, di ricerca della scienza. Aristotele verifica questi strumenti nelle cose e in seguito li assolutizza, in questo è più simile all’uomo occidentale di oggi rispetto a Platone. Per Aristotele le parole come causa essere uno bene si dice in tanti modi, poi analizzando la molteplicità va alla ricerca della definizione. Modi della causa: materiale formale efficiente finale, le prime due spiegano l’essere fermo, le altre l’essere in moto. Ogni cosa è fatta di materia e forma, causa materiale = ciò di cui è fatta una cosa, causa formale = figura che ha una cosa, non c’è cosa che non cada sotto questi due parametri; causa efficiente = causa che fa o causa motrice, causa finale = direzione del movimento, ciò che attira mentre la causa efficiente è ciò che spinge; Aristotele privilegia la causa finale a quella efficiente, ciò che muove il mondo è la causa finale, dove tende la natura e la storia del mondo. In natura tutto ciò che è mosso è mosso da altro, non esiste cosa che abbia in sé il movimento; ogni cosa può essere mossa come causa efficiente o finale. Aristotele collega l’agire umano e il movimento naturale, entrambi fanno capo alla causa finale; si tratta di eziologia, scienza della causa. L’aspetto rivoluzionario di Aristotele è l’osservare l’essere e dal dato voler arrivare al concetto, trova la scienza delle cause a partire da ciò che è causato.
L’essere si dice in quattro modi: per sé per accidenti potenza-atto come vero, qui si cataloga tutto quello che compare in natura. L’essere come vero riguarda la logica. L’essere per sé si regge da solo, è autonomo, tra questi vi è l’uomo; l’essere per accidente è per caso, non è necessario che sia, delle cose accidentali non può esserci scienza. Potenza-atto: Aristotele aggiunge un significato a potenza contrapponendola all’atto, potenza = poter essere, si può essere due cose contemporaneamente una in potenza una in atto, dimensione del futuro nell’essere, uomo = soggetto mutevole e mobile per natura; il non essere è un essere in potenza, di più dell’essere. La priorità è nell’atto, perché ci sia qualcosa in potenza deve esserci in atto.
Ogni essere per sé o sostanza è una realtà complessa, ha delle qualità, ha un volume cioè una quantità, un dove, un quando, un agire e un patire, una relazione, un avere e un giacere (circa come il luogo), sono queste le categorie, le caratteristiche dell’essere per sé o sostanza; una sostanza con tutte queste categorie generali è un individuo, un oggetto fisico, ma da sole non si trovano in natura. Nelle categorie rientrano tutte le cose che possiamo conoscere e si sistemano automaticamente in un rapporto di analogia con la sostanza che ha la priorità. Perché la qualità, così poco stabile, è tra le categorie? Perché la sostanza non può non avere qualità né quantità ecc., le categorie possono variare individualmente ma non possono non esserci. La qualità rientra nel per sé ma può essere accidentale ed è in potenza e in atto; ciascun attributo dell’essere si dice della sostanza. L’essere per sé è affetto da una o più categorie che possono essere in potenza in atto o accidentali.
Criteri per trovare la sostanza: 1 non si predica né inerisce ad altro; 2 sussiste per sé; 3 è individuale e determinata, non universale (confuta il maestro per cui l’idea esiste di più della cosa); 4 è unitaria non un agglomerato di cose; 5 deve essere in atto. La materia è sostanza in senso debole perché risponde solo al primo criterio, è ciò di cui sono fatte tutte le cose e non si predica di altro, ma non sussiste di per sé, non è determinata perché non è oggetto, e non è unitaria perché non ha forma e non è in atto. E’ sostanza in senso forte la forma, ciò che fa essere le cose quello che è, l’organismo non è la somma delle parti ma la sua forma è la sua anima, ciò che fa sì che una cosa sia se stessa e nel caso dell’organismo la chiamava pneuma vitale. La forma è l’anima delle cose che si sostengono per sé e rispondono a tutti i criteri; il sinolo è l’unione di un’anima con il corpo; egli credeva che gli astri non avessero corpo ma l’uomo fosse un sinolo. Metafisica: resa armonica di quattro scienze: eziologia ontologia usiologia teologia, che in realtà formano un’unica scienza. Qualsiasi cosa sensibile è limitata, deve esistere qualcosa di illimitato, il movimento, e la metafisica ricerca il movimento infinito che non è sostanziale né stabile ma enigmatico; le quattro scienze devono trovare unità perché il pensiero sia filosofico, la teologia garantisce questa unità, le altre di per sé sono tre vie aperte che non si coagulano. I quattro significati dell’essere sono uniti in relazione analogica con la sostanza. Perché la forma è sostanza in senso pieno? E’ ciò che fa sì che le cose siano quello che sono: nelle categorie la qualità è forma, la sostanza stessa è forma, Dio è forma pura. Forma deriva da eidos idea di Platone per lui il vero essere delle cose, per Aristotele essa non è nell’iperuranio ma è affine all’idea platonica, non è la semplice figura, ciò che fa essere una cosa quella cosa, non è qualcosa che si vede ma di più, pesante filosoficamente: nella parola forma è implicito il concetto di persona, il logos della persona o della cosa. Nel mondo fisico questa sostanza che è la forma è mescolata con la materia e abbiamo il sinolo. Si conosce qualcosa se si conosce la forma perché essa è il logos, è ciò che può uscire dalla materia e entrare nella nostra mente e nella nostra anima, così si coglie la sostanza delle cose. Si spiega come è fatto il mondo e come si conosce superando Platone che aveva la necessità di postulare il mondo delle idee. La forma non è un elemento della cosa ma ne è la struttura, il logos, che è un’armonia. Ma il movimento infinito ha bisogno di una causa, da solo non esiste, è l’epifania di una realtà infinita, non si vede il movimento infinito ma se ne vedono gli effetti. Se c’è causa del movimento essa è sostanza, è l’unica che esiste per sé; Aristotele vedeva che in tutti i movimenti c’è un motore e un mosso, assioma che deriva dall’esperienza, ma così la catena non finisce, ma Aristotele afferma che il primo motore è immobile. Di per sé il motore immobile non produce movimento, sarebbe una contraddizione in termini se non ci fosse differenza tra il nostro meccanicismo e l’idea aristotelica, noi privilegiamo la causa efficiente mentre per lui la causa finale è primaria. Se non si giudicano le cose in una catena causale, il motore è tale perché è immobile, ha già realizzato, è causa finale compiuta, si muove chi tende a qualcosa quello a cui manca qualcosa, ma a Dio non manca nulla, la sua immobilità è il segno della perfezione e dell’atto puro. Una cosa perfetta in un orizzonte concepito finalisticamente spiega tutto il moto, tutto si compatta attorno alla perfezione (come un magnete). La perfezione non si vede nell’esperienza, il motore immobile è il pensiero di pensiero, il pensiero di se stesso; il pensiero che è la più nobile delle cose, quando pensa se stesso diventa dio e atto puro, diventa perfetto e come causa finale attrae ogni cosa che esiste, dalle intelligenze motrici degli astri al mondo sublunare via via meno perfetto. Dio non pensa al mondo penserebbe ad altro meno bello di sé e non sarebbe infinito, ma il mondo pensa a Dio che è l’unica cosa perfetta e tende ad esso; la causa formale del mondo è dio, ciò che fa essere il mondo quello che è, raccoglie i caratteri perfetti, la miglior parte dell’essere.
Aristotele è un monumento al metodo, i suoi errori sono proprio in ragione del sistema che ha creato e proprio per merito suo si riconoscono: non ha puntato sulla verità come risultato ma come metodo, ha dato il suo scritto e le regole per giudicarlo; si contraddice più di Platone perché questi si esprimeva in modo quasi letterario e spesso criptico, Aristotele in modo del tutto sistematico. Non ammette il vuoto perché il suo universo è finalistico e nel vuoto non c’è spazio per la ragione, non può valere nessuna legge fisica perché qualunque essa sia è sempre incarnata in una realtà anche se può essere astratta ma è processo mentale. E’ un mondo affascinante in cui tutto avviene per qualcosa che non è ancora avvenuto, per un fine, permette una spiegazione unitaria di ciò che esiste, diverso dal mondo meccanico con la causa efficiente inospitale per l’uomo, il mondo finalistico è ospitale. Allo stesso tempo ciò è simile a noi, il criterio della causa efficiente è incongruo rispetto alla nostra vita, si pensa al fine delle cose e non al meccanismo, i concetti si fondono. Anche il bene e il male stanno nel progetto, nel fine, che se viene tolto si toglie anche il bene e il male, il meccanismo li elimina entrambi; siamo fatti per vivere secondo il fine, ma siamo sbattuti in un mondo della causa efficiente; Aristotele aveva riunificato le parti e aveva messo l’uomo in un mondo finalistico mettendolo in sintonia con esso.
Aristotele inizia il discorso etico parlando del bene, come concludeva Platone: bene, ciò a cui ogni cosa tende, tutte le arti le ricerche e ogni cosa; gli stoici definiranno il bene ciò a cui ciascuna cosa tende. Se ciascuna cosa tende ad un bene ci deve essere un bene supremo, stessa formula del mondo fisico motore-mosso, come allora non si può arrivare all’infinito, ci vuole un fine ovvero un bene supremo, che è la felicità. Oggi piacere e felicità sono la stessa cosa, qui felicità è il fine ultimo, uno stato in cui ciascuno non desidera avere altro rispetto a ciò che ha, perfezione positiva dell’uomo, stato di quiete interiore. Questo stato fa sì che finiscano i fini perché non c’è più spinta alla ricerca. Aristotele dice cosa non è la felicità, l’onore non è la felicità perché dipende più da chi conferisce l’onore che da chi lo riceve, è precario, prelude all’esaurimento perché non dipende da noi. Non è il piacere perché rende simili agli schiavi, dipende da chi eroga il piacere, implica perdita di libertà. La ricchezza è contro natura perché non può essere fine perché il denaro è strumento che di per sé non è bene e male, bene e male è come si usa. La felicità non può essere un ideale cioè una cosa in potenza, altrimenti non si potrebbe essere felici; né le cose troppo vicine né troppo lontane possono essere felicità, onore piacere ricchezza idea del bene, non si può spiegare cos’è una cosa astratta con 1n’altra cosa astratta. Dopo questa pars destruens Aristotele esamina l’azione propria dell’uomo, essere è agire, qui prende forma l’uomo occidentale; l’uomo perfettamente realizzato è l’uomo che perfettamente agisce cioè la sua attività perfetta è attività di ciò che è veramente, l’uomo è veramente la sua anima razionale e si chiude il cerchio. L’uomo virtuoso agisce secondo la sua anima razionale, è dominato e ama soprattutto l’intelletto. La felicità non viene da fuori, tanto più si dipende da una felicità esterna tanto più cresce l’angoscia dell’abbandono, si soffre sempre più di precarietà e si è esposti alla mutevolezza ddi tempi. Ogni essere ha l’opera propria, l’opera propria dell’uomo è l’intelletto, la felicità sta nel perfezionare ciò che gli è proprio quindi il sapere. Aristotele riconosce l’anima divisa in vegetativa (crescita dell’individuo), sensitiva e razionale; sa però che non esiste nell’uomo sensazione avulsa dall’intelligenza, pollakos legetai come l’essere e la sostanza perché ha tante funzioni; l’uomo cerca la perfezione delle anime sensitiva e razionale connesse, progresso rispetto a Socrate da cui era partito. Aristotele parla di beni esteriori (ricchezza fama gloria) che non potevano essere la felicità ma restano beni, beni dell’anima e beni del corpo; quelli dell’anima sono i più perfetti ma hanno bisogno dei beni esteriori come mezzi di aiuto per la felicità; non si può essere felici se si fa la fine di Priamo, i beni naturali non sono la felicità ma senza beni naturali non si può essere felici, essi sono dunque necessari ma non sufficienti, non è detto che chi ha i beni naturali sia felice, l’insegnamento del filosofo à utile e onesto. L’anima sensitiva non è svincolata dalla ragione, ci saranno virtù che riguardano quest1nima e sono le virtù etiche che si rappresentano mediante il concetto di abitudine e di medietà (in medio stat virtus), si rivolgono soprattutto ai dati dei sensi; l’abitudine porta alla virtù, facendo abitualmente azioni giuste si diventa giusti, è la frequenza e non l’entità della singola azione che fa un uomo virtuoso; compiendo azioni ci si forma un habitus, un modo di essere, facendo cose coraggiose si diventa coraggiosi e così via. La medietà non è fissa e meccanica ma deve essere adattata a ciascuna persona, evitare l’eccesso e il difetto stabiliti in relazione a noi; medietà diverso da mediocrità = assenza di qualità. Coraggioso ad esempio è la via di mezzo tra vile e temerario, preceduto da una adeguata valutazione del rischio e non sporadico, sulla base di sensazioni, di azioni e passioni. La tavola delle virtù diventa logica, c’è una regola o un ragionamento attraverso il quale si può personalizzare la virtù, la via di mezzo dipende dalle mie facoltà, non c’è un codice di comportamento ma una regola per scegliere. Anche i ragionamenti si uniscono con le sensazioni e formano un modo di sentire e vivere tipico dell’uomo; non può esserci incompatibilità tra sensi e ragione.
Le virtù dianoetiche riguardano l’intelletto che può avere due fini: l’intelletto applicato alle cose del mondo o alle cose sovramondane metafisiche perfette. Quando l’intelletto considera il mondo in cui vive si ha la virtù della saggezza: la virtù etica rende retto lo scopo, la saggezza rende retti i mezzi ???; per essere virtuosi cioè felici bisogna essere saggi, ma per essere saggi bisogna essere virtuosi, petizione di principio, questione insolubile perché non ci sono i mezzi per andare nella direzione delle virtù ovvero trovare la via di mezzo, è importante perché ognuno ha virtù personali e non sono assolute. Come si mette in pratica il fine da raggiungere? Lo può dire la figura del saggio; prima o di fianco alla regola morale ci vuole un essere morale, la saggezza è la capacità pratica di realizzare il mezzo ma non può essere scritta perché varia per ognuno, può solo essere esemplificata. La saggezza è la ragione efficace che rende la virtù verità, la morale non può prescindere dalla prassi perché le virtù sono proprie dell’individuo. La vera sapienza non è umana, l’uomo è ciò che pensa, se pensa cose grandi è grande; Dio contempla se stesso, l’uomo quando contempla i principi del mondo è uguale a dio e non è immaginabile felicità superiore a questa. La felicità è teoresi, io raccolgo nell’unico atto della contemplazione tutta la potenzialità dell’azione mia propria, quella di contemplare. La differenza tra la felicità dell’uomo e di Dio non è ontologica ma è la durata, dio tutta la vita pensa se stesso, per l’uomo, per la sua natura carnale, sono i rari momenti in cui contempla il finalismo universale che è la corsa delle cose verso la perfezione; partendo dall’ergon umano si arriva a una felicità non umana, l’uomo è pacificato quando diventa come dio, stesso procedimento che nella Metafisica, dallo studio della fisicità del movimento e della quattro cause, lo aveva portato al motore immobile pensiero di pensiero. Il mondo di Aristotele è così ospitale perché la perfezione della natura corrisponde alla felicità dell’uomo, pensiero che avrà notevole influenza.
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