Il re dei ladri – Racconti di Padre Brown
11 Dicembre 2015Padre Brown cover Renato Rascel
11 Dicembre 2015L’Ecloga I delle “Bucoliche” di Virgilio è un dialogo tra due pastori, Melibeo e Titiro, che mette in luce temi di esilio, sicurezza, riconoscenza, fortuna, libertà e il potere simbolico della natura.
Luigi Gaudio ha tradotto l’opera in endecasillabi italiani, mantenendo il tono pastorale e il significato profondo del testo originale.
Temi Principali
Contrasto tra Esilio e Sicurezza:
- Melibeo: Simbolo di esilio e perdita della terra natale, costretto a vagare in terre straniere.
- Titiro: Simbolo di sicurezza e pace, mantenendo la sua terra grazie alla protezione divina di Augusto.
Riconoscenza e Fortuna:
- Titiro: Esprime riconoscenza verso il “dio” (Augusto) che gli ha permesso di mantenere le sue terre e la libertà di pascolare e suonare il flauto.
- Melibeo: Riflette sulla sua sfortuna e la dissolutezza dei cittadini romani che hanno causato tale situazione.
Il Potere della Libertà:
- Titiro: Sottolinea come la libertà sia arrivata tardi nella sua vita, permettendogli finalmente di godere della sua terra e delle sue attività pastorali.
Simbolismo della Natura:
- La natura gioca un ruolo centrale, con riferimenti continui a campi, caprette, faggi e altre immagini pastorali che enfatizzano la connessione tra l’uomo e il suo ambiente.
Conclusioni
L’Ecloga I delle “Bucoliche” di Virgilio, tradotta da Luigi Gaudio, continua a essere un’opera di grande rilevanza, riflettendo su temi eterni come la perdita, la sicurezza, la riconoscenza e il potere della libertà. Il dialogo tra Melibeo e Titiro non solo rappresenta le sfide della vita contadina romana, ma anche una profonda meditazione sulla condizione umana e le influenze divine.
Testo originale di Virgilio | Traduzione in endecasillabi di Luigi Gaudio |
Meliboeus
Tītyre, tū patulae recubāns sub tegmine fāgī
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Melibeo: O Titiro, tu riposando all’ombra di quel frondoso faggio vai studiando un boscaiolo canto sul tuo flauto; abbandoniamo le dolci campagne e il suolo della patria, che fuggiamo; tu, o Titiro, calmissimo nell’ombra, fai risuonare nelle selve ombrose con la sua eco il nome di Amarilli. |
Tītyrus
Ō Meliboee, deus nōbīs haec ōtia fēcit.
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Titiro: O Melibeo, un dio, che è l’Augusto, questa graziosa pace mi ha donato: – e per me certo un dio rimarrà sempre; si tingerà spessissimo il suo altare del sangue di un agnello da me tolto. Col suo permesso, come puoi guardare, le mie giovenche posson pascolare e posso or io col flauto ricordare canzoni, suoni e tutto ciò che voglio. |
Meliboeus
Nōn equidem invideō, mīror magis; undique tōtīs
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Melibeo: Non provo certo invidia, t’assicuro, ma il cuore mio dalla sorpresa è colto. Un gran rumor rimbomba per i campi da ogni parte ed anche io stesso, affranto, le capre spingo innanzi al mio cammino; con sforzo questa, o Titiro, trascino: da poco, tra i foltissimi noccioli, ha messo due gemelli, mia speranza, dopo aver partorito su una pietra. Se avessimo pensato saggiamente l’avevan già predetto questo male le querce che dal ciel furon schiacciate. Ricordo ben, non v’è da dubitare. Ma, insomma, dicci, o Titiro, qual è questo gran dio che ha aiutato te. |
Tītyrus
Urbem quam dīcunt Rōmam, Meliboee, putāvī
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Titiro: O Melibeo, quella grande città che chiaman Roma io consideravo come questa città, dove scambiamo le tenere caprette col denaro. I cuccioli alle cagne comparavo, le caprettine alle maestose madri; il grande con il piccol raffrontavo. Questa città fra le altre s’è innalzata come i cipressi fra i cespugli bassi. |
Meliboeus
Et quae tanta fuit Rōmam tibi causa videndī? |
Melibeo: Per qual motivo hai visitato Roma? |
Tītyrus
Lībertās, quae sēra tamen respexit inertem,
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Titiro: La libertà lo sguardo mi ha rivolto benigno, benché tardi sia arrivata, quand’ ero ormai canuto ed invecchiato dopo sì lungo tempo guardò e venne dopo che Galatea mi ha abbandonato e la bella Amarilli mi ha sposato. Infatti, finché Galatea mi tenne, di libertà speranza non mi venne, né possibilità di risparmiare. Quantunque dai recinti carne uscisse e dalle mani mie cacio venisse per il paese ingrato, io sia impiccato se con la destra greve son tornato |
Meliboeus
Mirabar quid maesta deos, Amarylli, vocares, |
Melibeo: Alquanto, o Amarilli, mi stupivo che tu invocassi mestamente un divo e che lasciassi pendere – per chi? i dolci frutti nell’albero, lì. Da qui lontano Titiro era andato. Da pini, fonti e arbusti era chiamato. |
Tityrus
Quid facerem? neque servitio me exire licebat 40 |
Titiro: Che far? Non esser schiavo non potevo, né altri dei trovare in altro loco. O Melibeo, quel giovin qui vedevo per cui ogni anno sopra i nostri altari per dodici giornate si dà foco. Qui subito rispose alle richieste: “Pascete come prima i vostri buoi ed allevate i tori, miei garzoni”. |
Meliboeus
Fortunate senex, ergo tua rura manebunt
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Melibeo: O fortunato vecchio, resteranno per sempre tuoi quei campi e grandi assai benché coperti siano, per lor danno, di sassi in tutta l’area, come sai, e la palude con fangosi giunchi circondi tutti i pascoli oramai. Alle caprette gravide e pesanti non nuoceranno i campi nuovi e strani neppur le offenderà il malsan contagio dei greggi e degli armenti non lontani. O fortunato vecchio, qui nell’agio tra i rivi sacri e i fiumi familiari godrai felice questo fresco ombrato. La siepe che il prossimo steccato da un lato come sempre coprirà, dove le api il salice han mangiato, spesso a dormire là ti inviterà. Dall’altro lato ai piedi di un gran masso all’alba il potatore canterà, né tuttavia le rauche colombelle tue predilette, o la tortorella, di canticchiare mai si stancheranno dall’alto di quell’olmo, dove stanno |
Tityrus
Ante leves ergo pascentur in aethere cervi
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Titiro: Allor leggieri a vol pascoleranno nell’aria i cervi e le onde nelle acque in secco i pesci al lido lasceranno e, dopo lungo errare, 1’un dall’altro, berrà il Parto dall’Arari e il Germano dal Tigri, prima che, dal nostro cuore, sia cancellato il volto di costui. |
Meliboeus
At nos hinc alii sitientis ibimus Afros,
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Melibeo: Noi invece di qui andremo, chi tra gli Afri da sete presi, e chi nella Scizia presso l’Oassi che la sabbia afferra o tra i Britanni del tutto divisi dalla parte restante della Terra. Ahi, un giorno, dopo innumerevol tempo stupirmi mai potrò di ritrovare tra quei paterni campi qualche spiga mentre rivedo – triste infine – il tetto della capanna mia di zolle pieno, quello che un tempo era il regno mio? Un barbaro soldato può mai avere questi maggesi così coltivati? Possederà mai un Gallo queste messi? Ecco a qual segno la dissolutezza i tristi cittadini ha trascinato. Povero Melibeo, innesta ora i peri tuoi e ordina le viti. E vado via, mio assai felice gregge di quel tempo lontano, e via, caprette, da adesso in poi più non vi scorgerò, sdraiato lieto nel mio antro verde, lontano andar, sospese a un duro colle. Canzoni allegre più non canterò, o caprettine mie, quando del citiso o del salice amaro avrete foglie, il vostro pastorello io non sarò |
Tityrus
Hic tamen hanc mecum poteras requiescere noctem |
Titiro: Malgrado ciò potresti riposare insieme a me stanotte su un giaciglio verde di fronde nella mia casetta. Ho molti frutti e tenere castagne latte rappreso con grande abbondanza. E, si intravede già qui, da lontano, delle capanne fumano i camini e dalla sommità delle montagne più lunghe e scure scendono le ombre. |
traduzione di Luigi Gaudio (webmaster di atuttascuola)