di Luigi Gaudio
O Titiro, tu riposando all’ombra
di quel frondoso faggio vai studiando
un boscaiolo canto sul tuo flauto;
abbandoniamo le dolci campagne
e il suolo della patria, che fuggiamo;
tu, o Titiro, calmissimo nell’ombra,
fai risuonare nelle selve ombrose
con la sua eco il nome di Amarilli.
O Melibeo, un dio, che è l’Augusto,
questa graziosa pace mi ha donato: –
e per me certo un dio rimarrà sempre;
si tingerà spessissimo il suo altare
del sangue di un agnello da me tolto.
Col suo permesso, come puoi guardare,
le mie giovenche posson pascolare
e posso or io col flauto ricordare
canzoni, suoni e tutto ciò che voglio.
Non provo certo invidia, t’assicuro,
ma il cuore mio dalla sorpresa è colto.
Un gran rumor rimbomba per i campi
da ogni parte ed anche io stesso, affranto,
le capre spingo innanzi al mio cammino;
con sforzo questa, o Titiro, trascino:
da poco, tra i foltissimi noccioli,
ha messo due gemelli, mia speranza,
dopo aver partorito su una pietra.
Se avessimo pensato saggiamente
l’avevan già predetto questo male
le querce che dal ciel furon schiacciate.
Ricordo ben, non v’è da dubitare.
Ma, insomma, dicci, o Titiro, qual è
questo gran dio che ha aiutato te.
O Melibeo, quella grande città
che chiaman Roma io consideravo
come questa città, dove scambiamo
le tenere caprette col denaro.
I cuccioli alle cagne comparavo,
le caprettine alle maestose madri;
il grande con il piccol raffrontavo.
Questa città fra le altre s’è innalzata
come i cipressi fra i cespugli bassi.
Per qual motivo hai visitato Roma?
La libertà lo sguardo mi ha rivolto
benigno, benché tardi sia arrivata,
quand’ ero ormai canuto ed invecchiato
dopo sì lungo tempo guardò e venne
dopo che Galatea mi ha abbandonato
e la bella Amarilli mi ha sposato.
Infatti, finché Galatea mi tenne,
di libertà speranza non mi venne,
né possibilità di risparmiare.
Quantunque dai recinti carne uscisse
e dalle mani mie cacio venisse
per il paese ingrato, io sia impiccato
se con la destra greve son tornato
Alquanto, o Amarilli, mi stupivo
che tu invocassi mestamente un divo
e che lasciassi pendere – per chi?
i dolci frutti nell’albero, lì.
Da qui lontano Titiro era andato.
Da pini, fonti e arbusti era chiamato.
Che far? Non esser schiavo non potevo,
né altri dei trovare in altro loco.
O Melibeo, quel giovin qui vedevo
per cui ogni anno sopra i nostri altari
per dodici giornate si dà foco.
Qui subito rispose alle richieste:
“Pascete come prima i vostri buoi
ed allevate i tori, miei garzoni”.
O fortunato vecchio, resteranno
per sempre tuoi quei campi e grandi assai
benché coperti siano, per lor danno,
di sassi in tutta l’area, come sai,
e la palude con fangosi giunchi
circondi tutti i pascoli oramai.
Alle caprette gravide e pesanti
non nuoceranno i campi nuovi e strani
neppur le offenderà il malsan contagio
dei greggi e degli armenti non lontani.
O fortunato vecchio, qui nell’agio
tra i rivi sacri e i fiumi familiari
godrai felice questo fresco ombrato.
La siepe che il prossimo steccato
da un lato come sempre coprirà,
dove le api il salice han mangiato,
spesso a dormire là ti inviterà.
Dall’altro lato ai piedi di un gran masso
all’alba il potatore canterà,
né tuttavia le rauche colombelle
tue predilette, o la tortorella,
di canticchiare mai si stancheranno
dall’alto di quell’olmo, dove stanno
Allor leggieri a vol pascoleranno
nell’aria i cervi e le onde nelle acque
in secco i pesci al lido lasceranno
e, dopo lungo errare, 1’un dall’altro,
berrà il Parto dall’Arari e il Germano
dal Tigri, prima che, dal nostro cuore,
sia cancellato il volto di costui.
Noi invece di qui andremo, chi tra gli Afri
da sete presi, e chi nella Scizia
presso l’Oassi che la sabbia afferra
o tra i Britanni del tutto divisi
dalla parte restante della Terra.
Ahi, un giorno, dopo innumerevol tempo
stupirmi mai potrò di ritrovare
tra quei paterni campi qualche spiga
mentre rivedo – triste infine – il tetto
della capanna mia di zolle pieno,
quello che un tempo era il regno mio?
Un barbaro soldato può mai avere
questi maggesi così coltivati?
Possederà mai un Gallo queste messi?
Ecco a qual segno la dissolutezza
i tristi cittadini ha trascinato.
Povero Melibeo, innesta ora
i peri tuoi e ordina le viti.
E vado via, mio assai felice gregge
di quel tempo lontano, e via, caprette,
da adesso in poi più non vi scorgerò,
sdraiato lieto nel mio antro verde,
lontano andar, sospese a un duro colle.
Canzoni allegre più non canterò,
o caprettine mie, quando del citiso
o del salice amaro avrete foglie,
il vostro pastorello io non sarò
Malgrado ciò potresti riposare
insieme a me stanotte su un giaciglio
verde di fronde nella mia casetta.
Ho molti frutti e tenere castagne
latte rappreso con grande abbondanza.
E, si intravede già qui, da lontano,
delle capanne fumano i camini
e dalla sommità delle montagne
più lunghe e scure scendono le ombre.
traduzione di Luigi Gaudio (webmaster di atuttascuola)