Analisi e commento della canzone
Un testo che esemplifica perfettamente l’abilità di Enzo Jannacci e Dario Fo di intrecciare satira sociale con un tono apparentemente leggero. “Ho visto un re” è una canzone che, con ironia e sarcasmo, mette a nudo le dinamiche di potere e il ruolo della classe oppressa. Ogni strofa presenta una figura di potere — un re, un vescovo, un ricco — che si lamenta per piccole perdite, mostrandosi paradossalmente vittima di ingiustizie da parte di altri potenti. Vediamo ora un’analisi più approfondita.
Struttura del testo
La canzone segue una struttura ripetitiva, quasi come una filastrocca:
- Un personaggio di potere viene introdotto (il re, il vescovo, il ricco).
- Questo personaggio soffre una perdita, ma la perdita è del tutto trascurabile, considerando le sue ricchezze.
- La risposta di chi ascolta è una compassione superficiale, espressa con il refrain “Ah, beh; sì, beh”, che banalizza il dolore dei potenti e mette in luce l’assurdità del loro lamento.
L’ironia delle lacrime dei potenti
Ogni figura di potere piange per una perdita ridicola in rapporto alla loro abbondanza:
- Il re piange perché l’imperatore gli ha tolto un castello, ma ne ha ancora 32.
- Il vescovo morde persino la mano del sacrestano per aver perso un’abbazia, ma ne ha ancora 32.
- Il ricco lacrima su un calice di vino perché gli sono state tolte solo tre case e un caseggiato su un totale di 32.
Il ripetersi del numero 32 è significativo: rappresenta l’opulenza esagerata che rende ridicoli i loro dolori. Come possono essere considerate vittime, questi potenti, quando le loro perdite sono briciole rispetto alla loro abbondanza? La “povera” figura del re o del ricco appare ancor più paradossale se paragonata alla reale sofferenza del contadino nella strofa finale.
Il contadino: la vera vittima
Nella strofa conclusiva, il villano (il contadino) perde tutto: la casa, la mucca, persino i dischi di Little Tony (un tocco surreale e ironico che accentua la distanza tra i potenti e il mondo popolare). Questa accumulazione di perdite sottolinea la tragedia reale del contadino, ma la sua reazione è sorprendente: non piange, ride.
Perché ride? Perché “il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale”. Questa frase è il cuore della satira di Jannacci e Fo: i potenti sono disturbati solo dal fatto che il popolo possa ribellarsi o soffrire apertamente. Il contadino ha capito che la sua unica forma di resistenza è la gioia, una sorta di risata amara che mina il potere stesso degli oppressori. L’allegria diventa una forma di sfida, un modo per mantenere la dignità e non permettere ai potenti di godere della sua sofferenza.
L’uso del dialetto e il tono surreale
Il testo mescola sapientemente l’italiano e il dialetto milanese, conferendo un’atmosfera più popolare e autentica, tipica del teatro di Fo e della musica di Jannacci. Il linguaggio colloquiale e il tono apparentemente scherzoso amplificano l’effetto satirico, rendendo la critica più penetrante. Il dialetto “porta a casa” il messaggio: i personaggi potenti diventano caricature, figure quasi farsesche, incapaci di confrontarsi con il mondo reale.
Conclusione
“Ho visto un re” è una geniale satira delle dinamiche di potere e delle classi sociali. I potenti, dipinti come caricature grottesche, si lamentano per perdite insignificanti, mentre il vero dolore è vissuto dal contadino. Tuttavia, è proprio il contadino che, pur subendo le ingiustizie più grandi, ride e non piange, consapevole che il suo pianto servirebbe solo a dare potere ai suoi oppressori.
L’ironia è brillante: chi ha tutto piange per aver perso una piccola parte, mentre chi non ha nulla ride, perché sa che la sua sofferenza non può essere compresa dai potenti. Questa canzone è un’ode all’allegrezza come forma di resistenza, un invito a non concedere mai ai potenti il privilegio della nostra sofferenza.
Un capolavoro, inutile negarlo.
Testo della canzone