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Il delitto Notarbartolo
La sera del 1° febbraio 1893 un treno corre verso Palermo, nel tratto Termini Imerese – Travia: un uomo si avvicina ad un altro, lo accoltella a morte e poi ne scaraventa il corpo giù sulla scarpata. L’uomo ucciso è il comm. Emanuele Notarbartolo, già direttore generale del Banco di Sicilia: per la sua fama di uomo integerrimo era stato chiamato dal Governo a tale alto incarico nel 1876, dopo alcuni scandali che avevano coinvolto il Banco in un losco giro di speculazioni e di finanziamenti ad imprese non proprio “pulite”; era stato così scoperto un enorme ammanco di oltre un milione e mezzo di lire dell’epoca. Notarbartolo in quattro anni aveva sanato la situazione finanziaria, ma si era anche scontrato con un gruppo di affaristi, capeggiato da Raffaele Palizzolo, tanto vicino alla mafia che, con i suoi voti, questi sarà eletto deputato al Parlamento per il collegio di Caccamo, sua zona d’influenza. Già nel 1882 Notarbartolo fu rapito e rilasciato solo dopo il pagamento di un riscatto: dei banditi solo uno fu catturato, si trattava di un protetto del Palizzolo, ma la storia fu conclusa così. Nel 1890 il ministero del Tesoro sciolse, per i continui contrasti interni, il consiglio d’amministrazione del Banco e collocò a riposo il Direttore generale. Palizzolo, allora, intensificò le sue sporche operazioni, ma i movimenti di denaro furono poi scoperti da un onesto impiegato, tal Rammacca, che si confidò con Notarbartolo. Il ministro stava probabilmente per far tornare Notarbartolo alla Direzione generale, quando appunto avvenne il delitto.
Le indagini, con molte incertezze ed errori, si indirizzarono – anche per dichiarazioni dei familiari di Notarbartolo e di qualche timido testimone – verso Palizzolo e una cosca mafiosa a lui vicina, quella di Villabate. L’istruttoria si trascinò fino al 1899, quando il processo ebbe inizio – a Milano – con imputati Palizzolo come mandante e un tal Fontana (esecutore), più vari complici. Il Palizzolo fu arrestato dopo autorizzazione a procedere del Parlamento, ma nel frattempo avvocati e mafiosi si diedero da fare a Palermo per spargere voce che le accuse contro l’onorevole erano un complotto dei socialisti per colpire una brava persona e screditare l’intera Sicilia; nel contempo, il processo fu spostato a Bologna e affidato a un giudice amico del procuratore generale di Palermo, Cosenza, uomo vicino al deputato. Comunque, grazie alle dichiarazioni di alcuni testimoni sugli imbrogli interni al Banco, la Corte condannò gli imputati per l’omicidio di Notarbartolo (1902). Se nel resto d’Italia le reazioni dell’opinione pubblica furono entusiastiche, a Palermo la condanna fu fatta passare da molta gente influente (e dai giornali) come un insulto all’Isola, tanto che si formò un certo numero di comitati “Pro Sicilia” in favore di Palizzolo, che, alla fine “pro bono pacis”, ottennero persino l’appoggio del Prefetto e segretamente del governo Giolitti. Nel 1903 la Corte di Cassazione annullò, per un cavillo formale, il processo a Palizzolo fu annullato; il nuovo processo si trascinò stancamente in un’atmosfera distratta, con ritrattazioni di testimoni e il suicidio molto sospetto del più importante. Gli imputati furono assolti e Palizzolo portato in trionfo a Palermo, anche se la sua carriera politica e mafiosa finirà lì. Fine della storia. Dopo lunghi anni di lotte, il figlio di Emanuele Notarbartolo, Leopoldo, completerà un suo libro dossier – pubblicato solo nel 1949 – in cui dimostrerà la rete mafiosa che mortalmente si era chiusa su suo padre: prima che dalla mano omicida l’onesto comm. Notarbartolo, che sognava “una Palermo europea con le casse comunali in ordine, gli ospedali funzionanti, le strade pavimentate, l’immondizia raccolta, le facciate dei palazzi rinnovate, i luoghi di sepoltura ben ordinati e i teatri aperti ai più qualificati spettacoli” (La Sicilia, 23/5/1884), fu assassinato dai silenzi e dall’isolamento che lo avevano circondato proprio nell’esercizio del suo dovere. Voleva solo essere un uomo normale in una città normale.
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