La voce che racconta è quella del precettore, narratore inattendibile, in quanto presenta i fatti come l’esatto contrario di quelli che nella realtà sono. Si instaura così una complicità tra e l’autore implicito il lettore che è in grado di ricostruire, grazie a quest’ultimo, la realtà dei fatti.
L’autore critica il vuoto e la corruzione del mondo nobiliare, restandone tuttavia affascinato per via della raffinatezza e dell’eleganza di quell’ambiente; ciò determina un’ambiguità del poeta.
Giovin Signore, o a te scenda per lungo
Di magnanimi lombi ordine il sangue
Purissimo celeste, o in te del sangue
Emendino il difetto i compri onori 5
E le adunate in terra o in mar ricchezze
Dal genitor frugale in pochi lustri,
Me Precettor d’amabil rito ascolta.
Come ingannar questi noiosi e lenti
Giorni di vita, cui sí lungo tedio 10
E fastidio insoffribile accompagna,
Or io t’insegnerò. Quali al Mattino,
Quai dopo il Mezzodí, quali la Sera
Esser debban tue cure apprenderai,
Se in mezzo a gli ozi tuo ozio ti resta 15
Pur di tender gli orecchi a’ versi miei.
Già l’are a Vener sacre e al giocatore
Mercurio ne le Gallie e in Albïone
Devotamente hai visitate, e porti
Pur anco i segni del tuo zelo impressi: 20
Ora è tempo di posa. In vano Marte
A sé t’invita; ché ben folle è quegli
Che a rischio de la vita onor si merca,
E tu naturalmente il sangue aborri.
Né i mesti de la dea Pallade studi 25
Ti son meno odïosi: avverso ad essi
Ti feron troppo i queruli ricinti
Ove l’arti migliori e le scïenze,
Cangiate in mostri e in vane orride larve,
Fan le capaci volte eccheggiar sempre 30
Di giovanili strida. Or primamente
Odi quali il Mattino a te soavi
Cure debba guidar con facil mano.
Sorge il Mattino in compagnia dell’Alba
Innanzi al Sol che di poi grande appare 35
Su l’estremo orizzonte a render lieti
Gli animali e le piante e i campi e l’onde.
Allora il buon villan sorge dal caro
Letto cui la fedel moglie e i minori
Suoi figlioletti intiepidîr la notte; 40
Poi sul collo recando i sacri arnesi
Che prima ritrovâr Cerere e Pale,
Va col bue lento innanzi al campo, e scuote
Lungo il picciol sentier da’ curvi rami
Il rudagioso umor che, quasi gemma, 45
I nascenti del Sol raggi rifrange.
Allora sorge il fabbro, e la sonante
Officina riapre, e all’opre torna
L’altro dí non perfette, o se di chiave
Ardua e ferrati ingegni all’inquïeto 50
Ricco l’arche assecura, o se d’argento
E d’oro incider vuol gioielli e vasi
Per ornamento a nova sposa o a mense.
Ma che? Tu inorridisci, e mostri in capo,
Qual istrice pungente, irti i capegli 55
Al suon di mie parole? Ah non è questo,
Signore, il tuo mattin. Tu col cadente
Sol non sedesti a parca mensa, e al lume
Dell’incerto crepuscolo non gisti
Ieri a corcarti in male agiate piume, 60
Come dannato è a far l’umile vulgo.
A voi, celeste prole, a voi, concilio
Di Semidei terreni, altro concesse
Giove benigno: e con altr’arti e leggi
Per novo calle a me convien guidarvi. 65
Tu tra le veglie e le canore scene
E il patetico gioco oltre piú assai
Producesti la notte; e stanco alfine
In aureo cocchio, col fragor di calde
Precipitose rote e il calpestio 70
Di volanti corsier, lunge agitasti
Il queto aere notturno; e le tenébre
Con fiaccole superbe intorno apristi,
Siccome allor che il Siculo terreno
Da l’uno a l’altro mar rimbombar fèo 75
Pluto col carro, a cui splendeano innanzi
Le tede de le Furie anguicrinite.
Così tornasti a la magion; ma quivi
A novi studi ti attendea la mensa
Cui ricopríen pruriginosi cibi 80
E licor lieti di Francesi colli
O d’Ispani, o di Toschi, o l’Ongarese
Bottiglia a cui di verde edera Bacco
Concedette corona, e disse: Siedi
De le mense reina. Alfine il Sonno 85
Ti sprimacciò le morbide coltríci
Di propria mano, ove, te accolto, il fido
Servo calò le seriche cortine:
E a te soavemente i lumi chiuse
Il gallo che li suole aprire altrui. 90
Dritto è perciò, che a te gli stanchi sensi
Non sciolga da’ papaveri tenaci
Morfeo, prima che già grande il giorno
Tenti di penetrar fra gli spiragli
De le dorate imposte, e la parete 95
Pingano a stento in alcun lato i raggi
Del sol ch’eccelso a te pende sul capo.
Or qui principio le leggiadre cure
Denno aver del tuo giorno; e quinci io debbo
Sciorre il mio legno; e co’ precetti miei 100
Te ad alte imprese ammaestrar cantando.
Audio Lezioni su Giuseppe Parini del prof. Gaudio
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