INGLESE
27 Gennaio 2019UNA SCUOLA, TANTI INDIRIZZI
27 Gennaio 2019Arcadia
CAPITOLO VII
Venuto Opico a la fine del suo cantare, non senza gran diletto da tutta la brigata ascoltato, Carino piacevolmente a me voltatosi, mi domandò chi e donde io era, e per qual cagione in Arcadia dimorava. Al quale io, dopo un gran sospiro, quasi da necessità constretto, così rispusi:
– Non posso, grazioso pastore, senza noia grandissima ricordarmi de’ passati tempi; li quali avegna che per me poco lieti dir si possano, niente di meno avendoli a racontare ora che in maggiore molestia mi trovo, mi saranno accrescimento di pena e quasi uno inacerbire di dolore a la mal saldata piaga, che naturalmente rifugge di farsi spesso toccare; ma perché lo sfogare con parole ai miseri suole a le volte essere alleviamento di peso, il dirò pure.
Napoli, sì come ciascuno di voi molte volte può avere udito, è ne la più fruttifera e dilettevole parte di Italia, al lito del mare posta, famosa e nobilissima città, e di arme e di lettere felice forse quanto alcuna altra che al mondo ne sia. La quale da popoli di Calcidia venuti sovra le vetuste ceneri de la Sirena Partenope edificata, prese et ancora ritiene il venerando nome de la sepolta giovene.
In quella dunque nacqui io, ove non da oscuro sangue, ma, se dirlo non mi si disconviene, secondo che per le più celebri parti di essa città le insegne de’ miei predecessori chiaramente dimostrano, da antichissima e generosa prosapia disceso, era tra gli altri miei coetanei gioveni forse non il minimo riputato. E lo avolo del mio padre, da la cisalpina Gallia, benché, se a’ principii si riguarda, da la estrema Ispagna prendendo origine, nei quali duo luoghi ancor oggi le reliquie de la mia famiglia fioriscono, fu oltra a la nobilità de’ maggiori per suoi proprii gesti notabilissimo. Il quale, capo di molta gente con la laudevole impresa del terzo Carlo ne l’ausonico regno venendo, meritò per sua virtù di possedere la antica Sinuessa, con gran parte de’ campi Falerni, e i monti Massici, inseme con la picciola terra sovraposta al lito ove il turbulento Volturno prorumpe nel mare, e L’interno, benché solitario, niente di meno famoso per la memoria de le sacrate ceneri del divino Africano; senza che ne la fertile Lucania avea sotto onorato titulo molte terre e castella, de le quali solo avrebbe potuto, secondo che a la sua condizione si richiedeva, vivere abondantissimamente. Ma la Fortuna, via più liberale in donare che sollicita in conservare le mondane prosperità, volse che in discorso di tempo, morto il Re Carlo e ‘l suo legittimo successore Lanzilao, rimanesse il vedovo regno in man di femina. La quale da la naturale inconstanzia e mobilità di animo incitata, agli altri suoi pessimi fatti questo aggiunse, che coloro i quali erano stati e dal padre e dal fratello con sommo onore magnificati, lei esterminando et umiliando annullò, e quasi ad estrema perdizione ricondusse. Oltra di ciò quante e quali fussen le necessitadi e gli infortunii che lo avolo e ‘l padre mio soffersono, lungo sarebbe a racontare,
Vegno a me adunque, il quale in quegli estremi anni che la recolenda memoria del vittorioso Re Alfonso di Aragona passò da le cose mortali a più tranquilli secoli, sotto infelice prodigio di comete, di terremoto, di pestilenzia, di sanguinose battaglie nato et in povertà, o vero, secondo i savii, in modesta fortuna nudrito; sì come la mia stella e i fati volsono, appena avea otto anni forniti, che le forze di Amore a sentire incominciai; e de la vaghezza di una picciola fanciulla, ma bella e leggiadra più che altra che vedere mi paresse giamai, e da alto sangue discesa, inamorato, con più diligenzia che ai puerili anni non si conviene, questo mio desiderio teneva occolto. Per la qual cosa colei, senza punto di ciò avvedersi, fanciullescamente meco giocando, di giorno in giorno, di ora in ora più con le sue eccessive bellezze le mie tenere medolle accendeva; intanto che con gli anni crescendo lo amore, in più adulta età et a li caldi desii più inclinata pervenimmo. Né per tutto ciò la solita conversazione cessando, anzi quella ognor più domesticamente ristringendosi, mi era di maggiore noia cagione. Perché parendomi lo amore, la benivolenzia e la affezzione grandissima da lei portatami, non essere a quel fine che io avrei desiderato, e conoscendo me avere altro nel petto, che di fuori mostrare non mi bisognava; né avendo ancora ardire di discoprirmegli in cosa alcuna, per non perdere in un punto quel che in molti anni mi parea avere con industriosa fatica racquistato; in sì fiera malinconia e dolore intrai, che ‘l consueto cibo e ‘l sonno perdendone, più ad ombra di morte che ad uom vivo assomigliava. De la qual cosa molte volte da lei domandato qual fusse la cagione, altro che un sospiro ardentissimo in risposta non gli rendea. E quantunque nel letticciuolo de la mia cameretta molte cose ne la memoria mi proponesse di dirli, niente di meno quando in sua presenza era, impallidiva, tremava e diveniva mutolo; in maniera che a molti forse, che ciò vedeano, diedi cagione di sospettare. Ma lei, o che per innata bontà non se ne avvedesse giamai, o che fusse di sì freddo petto che amore non potesse ricevere, o forse, quel che più credibile è, che fusse sì savia che migliore di me sel sapesse nascondere, in atti et in parole sovra di ciò semplicissima mi si mostrava. Per la qual cosa io né di amarla mi sapea distraere, né dimorare in sì misera vita mi giovava. Dunque per ultimo rimedio di più non stare in vita deliberai; e pensando meco del modo, varie e strane condizioni di morte andai esaminando; e veramente o con laccio, o con veleno, o vero con la tagliente spada avrei finiti li miei tristi giorni, se la dolente anima da non so che viltà sovrapresa, non fusse divenuta timida di quel che più desiderava. Dal che rivolto il fiero proponimento in più regulato consiglio, presi per partito di abandonare Napoli e le paterne case, credendo forse di lasciare amore e i pensieri inseme con quelle.
Ma, lasso, che molto altrimente ch’io non avvisava mi avvenne; però che se allora, veggendo e parlando sovente a colei che io tanto amo, mi riputava infelice, sol pensando che la cagione del mio penare a lei non era nota; ora mi posso giustamente sovra ogni altro chiamare infelicissimo, trovandomi per tanta distanza di paese assente da lei, e forse senza speranza di rivederla giamai, né di udirne novella che per me salutifera sia. Massimamente ricordandomi in questa fervida adolescenzia de’ piaceri de la deliciosa patria tra queste solitudini di Arcadia, ove, con vostra pace il dirò, non che i gioveni ne le nobili città nudriti, ma appena mi si lascia credere che le selvatiche bestie vi possano con diletto dimorare. E se a me non fusse altra tribul’azione che la ansietà de la mente, la quale me continuamente tene suspeso a diverse cose, per lo fervente desio ch’io ho di rivederla, non potendolami né notte né giorno quale stia fatta riformare ne la memoria, si sarebbe ella grandissima.
Io non veggio né monte né selva alcuna, che tuttavia non mi persuada di doverlavi ritrovare, quantunque a pensarlo mi paia impossibile. Niuna fiera né ucello né ramo vi sento movere, ch’io non mi gire paventoso per mirare se fusse dessa in queste parti venuta ad intendere la misera vita ch’io sostegno per lei. Similmente niuna altra cosa vedere vi posso, che prima non mi sia cagione di rimembrarmi con più fervore e sollicitudine di lei. E mi pare che le concave grotte, i fonti, le valli, i monti, con tutte le selve la chiamino, e gli alti arbusti risoneno sempre il nome di lei. Tra i quali alcuna volta trovandomi io, e mirando i fronzuti olmi circondati da le pampinose viti, mi corre amaramente ne l’animo con angoscia incomportabile, quanto sia lo stato mio difforme da quello degli insensati alberi, i quali, da le care viti amati, dimorano continuamente con quelle in graziosi abracciari; et io per tanto spazio di cielo, per tanta longinquità di terra, per tanti seni di mare dal mio desio dilungato, in continuo dolore e lacrime mi consumo.
Oh quante volte e’ mi ricorda che vedendo per li soli boschi gli affettuosi colombi con suave mormorio basciarsi, e poi andare desiderosi cercando lo amato nido, quasi da invidia vinto ne piansi, cotali parole dicendo: «Oh felici voi, ai quali senza suspetto alcuno di gelosia è concesso dormire e veghiare con secura pace! Lungo sia il vostro diletto, lunghi siano i vostri amori; acciò che io solo di dolore spettaculo possa a’ viventi rimanere!».
Elli interviene ancora spesse fiate che guardando io, sì come per usanza ho preso in queste vostre selve, i vagabundi armenti, veggio tra i fertili campi alcun toro magrissimo appena con le deboli ossa sostinere la secca pelle, il quale veramente senza fatica e dolore inestimabile non posso mirare, pensando un medesmo amore essere a me et a lui cagione di penosa vita. Oltra a queste cose mi soviene che fuggendo tal ora io dal consorzio de’ pastori, per poter meglio ne le solitudini pensare a’ miei mali, ho veduto la inamorata vaccarella andare sola per le alte selve muggendo e cercando il giovene giovenco, e poi stanca gittarsi a la riva di alcun fiume, dimenticata di pascere e di dar luogo a le tenebre de la oscura notte; la qual cosa quanto sia a me che simile vita sostegno noiosa a riguardare, colui solamente sel può pensare, che lo ha pruovato o pruova. Elli mi viene una tristezza di mente incurabile, con una compassione grandissima di me stesso, mossa da le intime medolle, la quale non mi lascia pelo veruno ne la persona, che non mi si arricci; e per le raffreddate estremità mi si move un sudore angoscioso, con un palpitare di core sì forte, che veramente s’io nol desiderasse, temerei che la dolente anima se ne volesse di fuori uscire.
Ma che più mi prolungo io in racontar quello che a ciascuno può essere manifesto? Io non mi sento giamai da alcun di voi nominare «Sannazaro», quantunque cognome a’ miei predecessori onorevole stato sia, che, ricordandomi da lei essere stato per adietro chiamato «Sincero», non mi sia cagione di sospirare. Né odo mai suono di sampogna alcuna, né voce di qualunque pastore, che gli occhi miei non versino amare lacrime; tornandomi a la memoria i lieti tempi, nei quali io le mie rime e i versi allora fatti cantando, mi udia da lei sommamente comendare. E per non andare ogni mia pena puntalmente racontando, niuna cosa m’aggrada, nulla festa né gioco mi può non dico accrescere di letizia, ma scemare de le miserie; a le quali io prego qualunque Idio esaudisce le voci de’ dolorosi, che o con presta morte, o con prospero succedimento ponga fine. –
Rispose allora Carino al mio lungo parlare:
– Gravi sono i tuoi dolori, Sincero mio, e veramente da non senza compassione grandissima ascoltarsi; ma dimmi, se gli Dii ne le braccia ti rechino de la desiata donna, quali furon quelle rime, che non molto tempo è ti udii cantare ne la pura notte? de le quali se le parole non mi fusseno uscite di mente, del modo mi ricorderei. Et io in guidardone ti donerò questa sampogna di sambuco, la quale io con le mie mani colsi tra monti asprissimi e da le nostre ville lontani, ove non credo che voce giamai pervenisse di matutino gallo, che di suono privata l’avesse; con la quale spero che, se da li fati non ti è tolto, con più alto stile canterai gli amori di Fauni e di Ninfe nel futuro. E sì come insino qui i principii de la tua adolescenzia hai tra semplici e boscarecci canti di pastori infruttuosamente dispesi, così per lo inanzi la felice giovenezza tra sonore trombe di poeti chiarissimi del tuo secolo, non senza speranza di eterna fama trapasserai. –
E questo detto, si tacque; et io l’usata lira sonando così cominciai:
SINCERO
Come notturno ucel nemico al sole,
lasso, vo io per luoghi oscuri e foschi,
mentre scorgo il dì chiaro in su la terra;
poi quando al mondo sopravien la sera,
non com’altri animai m’acqueta il sonno,
ma allor mi desto a pianger per le piagge.
Se mai quest’occhi tra boschetti o piagge,
ove no splenda con suoi raggi il sole,
stanchi di lacrimar mi chiude il sonno,
vision crude et error vani e foschi
m’attristan sì, ch’io già pavento a sera,
per tema di dormir, gittarmi in terra.
O madre universal, benigna terra,
fia mai ch’io pòsi in qua’ che verdi piagge,
tal che m’addorma in quella ultima sera,
e non mi desti mai, per fin che ‘l sole
vegna a mostrar sua luce agli occhi foschi
e mi risvegii da sì lungo sonno?
Dal dì che gli occhi miei sbandiro il sonno
e ‘l letticciuol lasciai, per starmi in terra,
i dì seren mi fur turbidi e foschi,
campi di stecchi le fiorite piagge;
tal che quando a’ mortali aggiorna il sole,
a me sì oscura in tenebrosa sera.
Madonna, sua mercé, pur una sera
gioiosa e bella assai m’apparve in sonno
e rallegrò il mio cor, sì come il sole
suol dopo pioggia disgombrar la terra,
dicendo a me: – Vien, cogli a le mie piagge
qualche fioretto, e lascia gli antri foschi. –
Fuggite omai, pensier noiosi e foschi,
che fatto avete a me sì lunga sera;
ch’io vo’ cercar le apriche e liete piagge,
prendendo in su l’erbetta un dolce sonno;
perché so ben c’uom mai fatto di terra
più felice di me non vide il sole.
Canzon, di sera in oriente il sole
vedrai, e me sotterra ai regni foschi,
prima che ‘n queste piagge io prenda sonno
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