La prosa del duecento
28 Dicembre 2019L’indefinito negativo nemo nihil
28 Dicembre 2019I versi 102-236 de La Ginestra di Giacomo Leopardi costituiscono una riflessione potente e incisiva sulla condizione umana, sulla fragilità dell’uomo di fronte alla natura e sull’inutilità delle illusioni di grandezza e progresso.
Leopardi contrappone l’umiltà della ginestra, simbolo di resistenza e accettazione della realtà, alla superbia dell’uomo, che crede erroneamente di poter dominare la natura e il proprio destino. In questi versi emergono con forza i temi centrali della filosofia leopardiana: l’indifferenza della natura, l’insignificanza dell’uomo nell’universo e la necessità di un’alleanza solidale tra gli uomini per affrontare la comune fragilità.
Analisi
1. La critica al progresso e alla superbia umana (vv. 102-128)
Leopardi inizia con una dura critica a coloro che promettono un futuro di felicità e progresso, scrivendo “eccelsi fati e nòve felicitá” che non solo il cielo ignora, ma anche la terra. Queste promesse sono vanificate dalla realtà dei fatti: basta una tempesta, un terremoto, o un piccolo evento naturale per cancellare interi popoli dalla faccia della Terra, lasciando a malapena un ricordo della loro esistenza. L’ironia leopardiana emerge nel contrasto tra le aspirazioni umane di grandezza e la fragilità reale dell’uomo di fronte alla forza distruttrice della natura.
Leopardi loda la “nobil natura”, cioè quella parte di umanità che è capace di guardare in faccia la realtà senza rifugiarsi in illusioni. Questo tipo di natura riconosce la propria condizione di debolezza, accetta il “mal che ci fu dato in sorte” e non cerca di attribuire colpe agli uomini per le sofferenze che subisce, ma incolpa la vera responsabile: la natura, matrigna indifferente e crudele.
2. La solidarietà umana contro la natura (vv. 129-156)
Di fronte alla natura, Leopardi esalta la necessità di una solidarietà tra gli uomini. Egli critica chi, invece di allearsi con i propri simili per combattere le difficoltà comuni, sceglie di aggravare la propria condizione attraverso conflitti e divisioni. In questo contesto, la natura è vista come una nemica comune, e l’umanità dovrebbe unirsi contro di essa, riconoscendo la verità della propria fragilità. Leopardi paragona chi scatena guerre fratricide, mentre la minaccia esterna della natura incombe, a un soldato che in battaglia, circondato da nemici, dimentica la minaccia esterna e inizia a combattere contro i propri compagni.
Questa visione è profondamente moderna e anticipa una sorta di umanesimo collettivo: l’uomo, per sopravvivere alla propria condizione di debolezza, deve unirsi ai suoi simili e agire con giustizia e pietà, non basandosi su “superbe fole” (illusioni vanagloriose), ma su una consapevolezza realistica della propria condizione.
3. La contemplazione dell’universo e l’insignificanza umana (vv. 157-204)
Leopardi si sofferma poi sull’osservazione delle stelle e sull’immensità dell’universo, un tema centrale nella sua poetica. Dalla solitaria contemplazione notturna della volta stellata, il poeta riflette sull’immensità del cosmo e sull’insignificanza dell’uomo. Le stelle, che da lontano appaiono come piccoli punti di luce, sono in realtà immense, e l’uomo, così come la Terra, al loro confronto non è che “un punto”. Questa consapevolezza dell’infinitamente piccolo a confronto dell’infinitamente grande porta Leopardi a chiedersi: “che sembri allora, o prole dell’uomo?”, sottolineando l’incongruenza tra l’orgoglio umano e la sua effettiva irrilevanza nell’universo.
L’ironia è evidente quando Leopardi ricorda come l’uomo, pur essendo “niente” rispetto all’universo, si sia spesso immaginato come fine e centro della creazione. La Terra, “questo oscuro granel di sabbia”, è stata spesso teatro di racconti mitici, in cui gli uomini si consideravano al centro dell’attenzione divina e cosmica. Questi miti, continua Leopardi, sono tanto ridicoli da suscitare un misto di riso e pietà, mostrando la presunzione dell’uomo che pretende di avere un ruolo centrale nell’universo.
4. La metafora del pomo e la fragilità delle civiltà umane (vv. 205-236)
Leopardi utilizza poi la metafora del piccolo pomo che, cadendo, distrugge le formicai delle formiche che con tanto sforzo hanno costruito le loro dimore e accumulato le loro risorse. Allo stesso modo, un’eruzione vulcanica o una catastrofe naturale può cancellare intere città, annientando in un attimo tutto ciò che gli uomini hanno faticosamente costruito. La scena descritta del Vesuvio che distrugge le città sottolinea la forza devastante e indifferente della natura.
Questa metafora evidenzia ancora una volta come la natura non faccia alcuna distinzione tra l’uomo e altri esseri viventi: l’uomo non ha più valore di una formica. Se la distruzione dell’uomo è meno frequente di quella degli animali, non è per una maggiore considerazione che la natura ha verso l’uomo, ma semplicemente perché l’uomo è meno prolifico e quindi le stragi sono meno frequenti.
Testo e parafrasi dei versi 102-236 della poesia di Leopardi
Testo
e di fetido orgoglio Costei chiama inimica; e incontro a questa Cosí fatti pensieri 145 Sovente in queste rive, E poi che gli occhi a quelle luci appunto, Come d’arbor cadendo un picciol pomo, Non ha natura al seme |
Parafrasi:
102-108: Di fetido orgoglio 109-118: La vera nobiltà d’animo 119-128: Questa natura 129-140: Chi armerebbe la propria mano 141-156: Quando simili pensieri 157-172: Spesso, su queste rive desolate, 173-182: Quando fisso gli occhi 183-193: E riflettendo 194-204: E quando penso 205-213: Come un piccolo pomo, 214-236: Il Vesuvio
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