
La presa del potere
27 Gennaio 2019


Il sistema periodico
27 Gennaio 2019Citazioni da La luna e i Falò di Cesare Pavese
Nessun testo mostra più profondamente il legame di Pavese con le sue colline quanto il romanzo La luna e i falò, che si presenta come una sorta di testamento spirituale da consegnare alle generazioni future, nell’imminenza di quell’unico atto che lo liberò, o lo allontanò, per sempre dal faticoso ma misterioso “mestiere di vivere”, quale fu appunto il suo suicidio nel 1950, un anno dopo la pubblicazione di questo romanzo (1949).
Forse la ragione più profonda del ritorno di Anguilla alla Gaminella è proprio questa: riscoprire le proprie radici per capire meglio se stessi, il motivo per cui si è al mondo, motivo che disperatamente sembra sfuggire e mancare.
La luna e i Falò – incipit
C’è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire “Ecco cos’ero prima di nascere”. Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi.
La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia due povere donne da Monticello, da Neive o perché no da Cravanzana.
Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione.
Se sono cresciuto in questo paese, devo dir grazie alla Virgilia, a Padrino, tutta gente che non c’è più, anche se loro mi hanno preso e allevato soltanto perché l’ospedale di Alessandria gli passava la mesata. Su queste colline quarant’anni fa c’erano dei dannati che per vedere uno scudo d’argento si caricavano un bastardo dell’ospedale, oltre ai figli che avevano già.
C’era chi prendeva una bambina per averci poi la servetta e comandarla meglio; la Virgilia volle me perché di figlie ne aveva già due, e quando fossi un po’ cresciuto speravano di aggiustarsi in una grossa cascina e lavorare tutti quanti e star bene.
Io venni su con le ragazze, ci rubavamo la polenta, dormivamo sullo stesso saccone, Angiolina la maggiore aveva un anno più di me; e soltanto a dieci anni, nell’inverno quando morì la Virgilia, seppi per caso che non ero suo fratello.
Adesso sapevo ch’eravamo dei miserabili, perché soltanto i miserabili allevano i bastardi dell’ospedale. Prima, quando correndo a scuola gli altri mi dicevano bastardo, io credevo che fosse un nome come vigliacco o vagabondo e rispondevo per le rime.
Ma ero già un ragazzo fatto e il municipio non ci pagava più lo scudo, che io ancora non avevo ben capito che non essere figlio di Padrino e della Virgilia voleva dire non essere nato in Gaminella, non essere sbucato da sotto i noccioli o dall’orecchio della nostra capra come le ragazze.
La luna e i Falò – capitolo I
Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che, anche quando non ci sei, resta ad aspettarti.
La luna e i Falò – finale
gli chiesi se Santa era sepolta lì. – Non c’è caso che un giorno la trovino? Hanno trovato quei due… Nuto s’era seduto sul muretto e mi guardò col suo occhio testardo. Scosse il capo. – No, Santa no, – disse, – non la trovano. Una donna come lei non si poteva coprirla di terra e lasciarla così.
Faceva ancora gola a troppi. Ci pensò Baracca. Fece tagliare tanto sarmento nella vigna e la coprimmo fin che bastò. Poi ci versammo la benzina e demmo fuoco. A mezzogiorno era tutta cenere. L’altr’anno c’era ancora il segno, come il letto di un falò.