Le Odi di Orazio
28 Dicembre 2019Amico di Renato Zero
28 Dicembre 2019I versi 192-269 del libro terzo dell’Eneide di Virgilio narrano un episodio particolarmente drammatico del viaggio di Enea e dei suoi compagni verso l’Italia, ovvero l’incontro con le Arpie sulle isole Strofadi.
Questo passaggio si colloca nel contesto del lungo peregrinare dei Troiani dopo la caduta di Troia, e rappresenta uno dei tanti ostacoli che Enea deve affrontare per compiere il proprio destino. Attraverso una potente combinazione di descrizioni paesaggistiche, battaglie epiche e visioni profetiche, Virgilio carica questo episodio di un significato simbolico e mitologico, anticipando anche le difficoltà che Enea e il suo popolo incontreranno nella fondazione di Roma.
Analisi dettagliata
La tempesta e il naufragio (vv. 192-204)
Dopo che le navi furono al largo, e disparvero tutte le terre, e dovunque cielo e dovunque acque, allora mi s’addensò sul capo un livido uragano, portando notte e tempesta, e rabbrividì l’onda nelle tenebre.
Subito i venti sconvolgono il mare e alti si levano i flutti; siamo dispersi e agitati dal vasto gorgo; i nembi avvolsero il giorno, e un’umida notte ci tolse il cielo; s’infittiscono, squarciate le nubi, i fulmini.
Usciamo sbalzati dalla rotta, ed erriamo sulle cieche onde. Lo stesso Palinuro dice di non distinguere in cielo la notte dal giorno, e di non riconoscere la via tra le onde.
Virgilio apre il brano con una descrizione della tempesta che sorprende la flotta di Enea. Il poeta utilizza immagini cupe e potenti per descrivere la furia del mare: il cielo diventa “livido”, il vento “sconvolge” il mare e le navi sono preda di un “vasto gorgo”. Questo caos naturale non è solo fisico ma simbolico: rappresenta l’incertezza e la confusione dei Troiani, che non riescono a distinguere la rotta e si trovano a “erriamo sulle cieche onde”. Anche Palinuro, il fidato timoniere, è sopraffatto dalla situazione, incapace di distinguere il giorno dalla notte, il che sottolinea la disperazione totale in cui si trovano.
L’arrivo alle Strofadi e l’incontro con le Arpie (vv. 205-228)
Così erriamo sul mare per tre incerti soli nella cieca caligine, e altrettante notti senza stelle. Infine il quarto giorno apparve ergersi una terra, e lontano svelare montagne, e levare fumo. Le vele cadono, sorgiamo sui remi; i marinai instancabili rovesciano con forza le schiume e spazzano i lividi flutti.
Mi accolgono dapprima in salvo dalle onde le rive delle Strofadi; sono denominate Strofadi, con nome greco, le isole del vasto Ionio, che la sinistra Celeno e le altre Arpie abitano, dopo che la casa di Fineo si chiuse, e per timore lasciarono le antiche mense. Non v’è mostro più infausto di quelle; nessuna peste più crudele o maledizione divina uscì dalle onde stigie. Virginei volti su corpi di uccelli, nauseante profluvio di ventre, artigli adunchi, e pallida sempre la faccia di fame.
Dopo tre giorni di erranza in mare, finalmente i Troiani avvistano terra, le isole Strofadi. Il sollievo per aver raggiunto la terraferma è immediato, ma viene subito contrastato dall’introduzione delle Arpie, creature mostruose. Virgilio descrive questi esseri come i più infausti mostri mai usciti dalle “onde stigie” (un riferimento all’Ade e al regno dei morti). Le Arpie sono metà donna e metà uccello, con “virginei volti”, ma corpi mostruosi e artigli. Il loro aspetto e comportamento, soprattutto l’insaziabile fame che rappresentano, simboleggiano il disordine e la devastazione, rafforzando il contrasto tra il sollievo dell’arrivo sull’isola e la minaccia che vi si nasconde.
Il saccheggio e l’attacco delle Arpie (vv. 229-251)
Come, arrivati qui, entrammo nel porto, ecco vediamo floridi armenti di buoi sparsi nei campi e senza alcun custode un gregge di capre tra l’erba. Assaliamo col ferro e chiamiamo a parte della preda gli dei e lo stesso Giove; allora sulla curva spiaggia disponiamo giacigli e banchettiamo con laute vivande. Ma improvvise con orribile discesa dai monti compaiono le Arpie e scuotono con grandi strida le ali, ghermiscono i cibi e lordano tutto con immondo contatto; s’odono lugubri strida tra il lezzo.
Arrivati alle Strofadi, i Troiani trovano apparentemente abbondanza di risorse: greggi e armenti senza custodia. Decidono quindi di appropriarsi degli animali e di banchettare, invocando persino Giove, in un tentativo di legittimare le proprie azioni. Tuttavia, le Arpie interrompono il banchetto con una violenta discesa dalle montagne, devastando le tavole e portando caos e sporcizia. Virgilio usa immagini forti per sottolineare il disgusto suscitato da queste creature: non solo rubano il cibo, ma lo inquinano con la loro presenza.
La battaglia con le Arpie e la profezia di Celeno (vv. 252-269)
Sola si fermò su un’altissima rupe Celeno, infausta profetessa, ed eruppe questa voce dal petto: “Guerra, anche, per la strage dei buoi e gli abbattuti giovenchi, o Laomedontiadi, guerra vi preparate a portare e a scacciare dal patrio regno le innocenti Arpie? Accogliete dunque nell’animo e imprimete queste parole: ciò che il Padre onnipotente predisse a Febo, e Febo Apollo a me, io, massima delle Furie, svelo. Voi navigate verso l’Italia, e la invocate seguendo i venti: giungerete in Italia, e potrete entrare in porto; ma non cingerete di mura la città destinata prima che una terribile fame e l’offesa fatta coll’aggredirci vi costringa a consumare con le mascelle le róse mense”.
Dopo aver tentato di combattere le Arpie senza successo (i Troiani scoprono che le loro armi non possono ferirle), la scena culmina con l’apparizione di Celeno, una delle Arpie, che si ferma su una rupe e pronuncia una profezia minacciosa. Celeno rivela che i Troiani riusciranno a giungere in Italia, ma saranno colpiti da una terribile fame come punizione per aver osato attaccare le Arpie. Il significato simbolico della profezia si manifesterà più avanti nell’Eneide, quando i Troiani, in un momento di disperazione, saranno costretti a consumare i loro stessi piatti, come previsto da Celeno.
Tematiche principali
- Il viaggio come prova: La tempesta e l’incontro con le Arpie fanno parte del lungo viaggio iniziatico che Enea e i suoi devono affrontare per raggiungere l’Italia. Ogni tappa è un ostacolo che mette alla prova la loro resistenza fisica e morale.
- Il rapporto con il divino: La presenza delle Arpie, creature semi-divine, e la profezia di Celeno sottolineano il ruolo cruciale del volere divino nel destino di Enea. L’episodio mostra come gli dei non siano sempre benevoli, e come l’intervento divino possa avere anche connotazioni negative e punitive.
- La fame come punizione: La fame, sia fisica che spirituale, è una delle punizioni ricorrenti nell’Eneide. La profezia di Celeno preannuncia una sofferenza che non sarà solo materiale, ma che segnerà profondamente l’animo dei Troiani, come conseguenza della loro trasgressione.
- La predestinazione e l’inevitabilità del destino: Nonostante le difficoltà, Enea e i suoi sono destinati a raggiungere l’Italia, ma il loro cammino è segnato da ostacoli e sofferenze che non possono evitare. La profezia delle Arpie aggiunge un ulteriore elemento di predestinazione al loro viaggio.
Conclusione
Questi versi del libro terzo dell’Eneide rappresentano una fase cruciale del viaggio di Enea. Virgilio dipinge un quadro vivido di sofferenza, incertezza e orrore, utilizzando l’immagine delle Arpie per rappresentare le forze ostili che ostacolano il destino del protagonista. L’incontro con le Arpie, la loro invulnerabilità e la profezia di Celeno evidenziano l’intervento divino nel viaggio dei Troiani, sottolineando come ogni evento, anche il più sfortunato, faccia parte di un piano più grande e predeterminato.
Testo dei versi 192-269 del libro terzo dell’Eneide di Virgilio
Dopo che le navi furono al largo, e disparvero
tutte le terre, e dovunque cielo e dovunque acque,
allora mi s’addensò sul capo un livido uragano,
portando notte e tempesta, e rabbrividì l’onda nelle
tenebre.
Subito i venti sconvolgono il mare e alti si levano
i flutti; siamo dispersi e agitati dal vasto gorgo;
i nembi avvolsero il giorno, e un’umida notte ci tolse
il cielo; s’infittiscono, squarciate le nubi. i fulmini.
Usciamo sbalzati dalla rotta, ed erriamo sulle cieche onde.
Lo stesso Palinuro dice di non distinguere in cielo
la notte dal giorno, e di non riconoscere la via tra le onde.
Così erriamo sul mare per tre incerti soli
nella cieca caligine, e altrettante notti senza stelle.
Infine il quarto giorno apparve ergersi una terra,
e lontano svelare montagne, e levare fumo.
Le vele cadono, sorgiamo sui remi; i marinai instancabili
rovesciano con forza le schiume e spazzano i lividi flutti.
Mi accolgono dapprima in salvo dalle onde le rive
delle Strofadi; sono denominate Strofadi, con nome greco,
le isole del vasto Ionio, che la sinistra Celeno
e le altre Arpie abitano, dopo che la casa di Fineo
si chiuse, e per timore lasciarono le antiche mense.
Non v’è mostro più infausto di quelle; nessuna peste
più crudele o maledizione divina uscì dalle onde stigie.
Virginei volti su corpi di uccelli, nauseante profluvio
di ventre, artigli adunchi, e pallida sempre
la faccia di fame.
Come, arrivati qui, entrammo nel porto, ecco
vediamo floridi armenti di buoi sparsi nei campi
e senza alcun custode un gregge di capre tra l’erba.
Assaliamo col ferro e chiamiamo a parte della preda
gli dei e lo stesso Giove; allora sulla curva spiaggia
disponiamo giacigli e banchettiamo con laute vivande.
Ma improvvise con orribile discesa dai monti compaiono
le Arpie e scuotono con grandi strida le ali,
ghermiscono i cibi e lordano tutto con immondo
contatto; s’odono lugubri strida tra il lezzo.
Imbandiamo di nuovo le mense in una profonda rientranza
sotto una cava rupe, racchiusa intorno da alberi
e da ombre emergenti, e riponiamo il fuoco sulle are:
di nuovo da una diversa parte del cielo, e da ciechi nascondigli,
vola la turba sonora intorno alla preda con unghie
adunche e insozza i cibi con la bocca. Allora ai compagni
ordino di prendere le armi, e di combattere la sinistra
genìa. Fanno com’è comandato, e dispongono
le spade celate nell’erba e nascondono gli scudi.
Dunque, appena esse discesero per la curva spiaggia e produssero
strepito, Miseno dall’alta vedetta emette il segnale
con il cavo bronzo. I compagni assalgono e tentano
strane battaglie, ferire col ferro i sudici uccelli del mare.
Ma non ricevono offesa nelle piume, o ferite
sul dorso, e volate con rapida fuga alle stelle
lasciano la preda semidivorata e le sozze vestigia.
Sola si fermò su un’altissima rupe Celeno,
infausta profetessa, ed eruppe questa voce dal petto:
“Guerra, anche, per la strage dei buoi e gli abbattuti
giovenchi, o Laomedontiadi, guerra vi preparate a portare
e a scacciare dal patrio regno le innocenti Arpie?
Accogliete dunque nell’animo e imprimete queste parole:
ciò che il Padre onnipotente predisse a Febo,
e Febo Apollo a me, io, massima delle Furie, svelo.
Voi navigate verso l’Italia, e la invocate seguendo i venti:
giungerete in Italia, e potrete entrare in porto;
ma non cingerete di mura la città destinata
prima che una terribile fame e l’offesa fatta coll’aggredirci
vi costringa a consumare con le mascelle le róse mense”.
Disse, e levatasi sulle ali, fuggì nella selva.
Ai compagni per l’improvviso terrore si rapprese gelido
il sangue; caddero gli animi, e non più con le armi,
ma con voti e preghiere esigono di chiedere pace,
siano dee, o sinistri e sudici uccelli.
Il padre Anchise, sollevate le braccia dalla riva,
invoca i grandi numi e indice giusti onori:
“O dei, impedite la minaccia, disperdete una tale sventura,
e benigni salvateci per la nostra pietà”. Poi ordina
di strappare gli ormeggi dalla riva e di scuotere e mollare le gomene.