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28 Dicembre 2019“La novella L’ultima giornata di Giovanni Verga”, tratta dalla raccolta Per le vie, è un esempio classico del realismo verista verghiano.
Ambientata nella Milano di fine Ottocento, la novella descrive l’ultima giornata di vita di un uomo sconosciuto, un emarginato, la cui esistenza è segnata dalla miseria, dall’indifferenza e dall’incapacità di trovare un posto nella società. Il racconto è privo di sentimentalismo, aderendo ai principi del verismo, con una narrazione oggettiva e distaccata. Verga ci mostra l’alienazione dell’individuo moderno e la spietata insensibilità della società verso i suoi membri più vulnerabili.
Analisi
La novella si apre con un evento che appare quasi insignificante per il lettore e i personaggi: il ritrovamento di un cadavere vicino ai binari del treno. I giornali riportano l’accaduto con poche informazioni e senza particolare interesse, riducendo la morte a un fatto di cronaca spicciola. La vita dello sconosciuto, che viene ucciso da un treno, è come cancellata da questo tragico incidente, e solo pochi dettagli della sua esistenza emergono nel racconto.
L’uomo è descritto come un vagabondo, vestito di stracci, con scarpe tenute insieme dallo spago e una barba di otto giorni. È una figura anonima, invisibile nella società, eppure Verga ci introduce gradualmente nel suo mondo. Ci viene raccontato come, il giorno prima, era stato visto vagare per la città, incerto, stanco, con la mente distratta dai suoi pensieri. Nessuno gli presta attenzione; la sua condizione lo rende un “altro”, separato dal mondo “normale”, dai festeggiamenti e dalla gioia che lo circondano. In una delle scene, viene descritto mentre si ferma ad ascoltare un organetto, quasi come se volesse partecipare alla festa, ma senza mai riuscirci.
La narrazione ci fa vedere come l’uomo sia diventato un emarginato della società: non ha lavoro, è stato rifiutato dai capomastri, e si aggira per la città in cerca di una lettera che gli porti speranza. Questa lettera, che finalmente arriva, non fa che confermare il suo destino di miseria: non c’è posto per lui nell’officina. Questa scoperta lo spinge a una decisione finale e tragica, quella del suicidio, che avviene con una freddezza quasi burocratica. Verga non ci mostra l’uomo come un eroe o un martire, ma come una vittima silenziosa della società, una vita gettata via senza clamore.
La narrazione alterna momenti di dettagli vividi e drammatici, come la descrizione del corpo e del contesto, con momenti di banalità e indifferenza. L’atteggiamento del cantoniere, che copre il volto del morto con dell’erba, e il comportamento dei curiosi, che tirano fuori i numeri del lotto guardando il cadavere, sottolineano l’insensibilità di una società ormai abituata alla sofferenza e alla miseria umana. Anche i contadini che trovano il cadavere sembrano più interessati alla superstizione (il cadavere porta sfortuna) o al gioco del lotto che alla tragica fine dell’uomo.
Commento
L’elemento più caratteristico di questa novella è l’impersonalità della narrazione, tipica del verismo. Verga si astiene da ogni giudizio morale o da un coinvolgimento emotivo, lasciando che siano i fatti a parlare. Non c’è pietà o condanna; l’uomo che si suicida è vittima di un sistema sociale che lo ignora, ma non c’è enfasi drammatica nel racconto del suo dolore. La sua fine viene descritta con la stessa freddezza con cui i curiosi osservano il cadavere o i giornalisti riportano la notizia sui giornali.
La critica sociale è implicita ma potente: l’indifferenza dei personaggi riflette quella della società, dove i poveri e gli emarginati sono lasciati a se stessi, dimenticati o ignorati. La vita del protagonista è ridotta a una serie di episodi di disperazione e degrado: il suo tentativo fallito di trovare lavoro, la sua emarginazione, e infine la decisione di porre fine alla propria vita. Il suicidio viene trattato quasi come una soluzione inevitabile, in un contesto in cui non c’è più speranza.
Verga inserisce elementi simbolici che amplificano il messaggio. Il sole e la primavera, che dovrebbero simboleggiare vita e rinascita, sono in contrasto con il destino dell’uomo, che decide di morire proprio in un momento in cui la natura è in festa. Anche l’organo che suona e il valzer di Madama Angot, che accompagna la morte, sono simboli della vita che continua indifferente, senza fermarsi davanti alla tragedia di un individuo.
Parafrasi dell’inizio della novella
“I viaggiatori che erano nelle prime carrozze del treno per Como, poco dopo Sesto, sentirono una scossa, e una vecchia marchesa, capitata per sua disgrazia fra un giovanotto e una damigella di quelle col cappellaccio grande, sgranò gli occhi e arricciò il naso.”
I passeggeri nelle prime carrozze del treno per Como sentirono uno scossone poco dopo Sesto, e una vecchia marchesa, seduta sfortunatamente tra un giovane e una donna con un grande cappello, sgranò gli occhi e arricciò il naso.
“Il signorino aveva una magnifica pelliccia, e per galanteria voleva dividerla colla sua vicina più giovane, sebbene fosse primavera avanzata. Fra il sì e il no, stavano appunto aggiustando la partita, nel momento in cui il treno sobbalzò. Per fortuna la marchesa era conosciuta alla stazione di Monza, e si fece dare un posto di cupè.”
Il giovane indossava una magnifica pelliccia e, per cortesia, cercava di condividerla con la giovane donna vicina a lui, nonostante fosse primavera inoltrata. Stavano discutendo sul da farsi, quando il treno ebbe un sobbalzo. Fortunatamente la marchesa era conosciuta alla stazione di Monza e riuscì a ottenere un posto in un compartimento privato.
“I giornali della sera raccontavano:
‘Oggi, nelle vicinanze di Sesto, fu trovato il cadavere di uno sconosciuto fra le rotaie della ferrovia. L’autorità informa.’
I giornali della sera riportavano la notizia: “Oggi, vicino a Sesto, è stato trovato il cadavere di un uomo sconosciuto sui binari della ferrovia. Le autorità stanno indagando.”
“I giornali non sapevano altro. Una frotta di contadini che tornavano dalla festa di Gorla si erano trovati tutt’a un tratto quel cadavere fra i piedi, sull’argine della strada ferrata, e avevano fatto crocchio intorno curiosi per vedere com’era. Uno della brigata disse che incontrare un morto la festa porta disgrazia; ma i più ne levano i numeri del lotto.”
I giornali non avevano altre informazioni. Un gruppo di contadini che tornavano dalla festa di Gorla si era imbattuto nel cadavere sui binari della ferrovia e si era radunato intorno per osservarlo. Uno di loro disse che incontrare un morto durante una festa portava sfortuna, mentre altri cercavano di ottenere numeri da giocare al lotto.
“Il cantoniere, onde sbarazzare le rotaie, aveva adagiato il cadavere nel prato, fra le macchie, e gli aveva messa una manciata d’erbacce sulla faccia, ch’era tutta sfracellata, e faceva un brutto vedere, per chi passava.”
Il cantoniere, per liberare i binari, aveva spostato il cadavere in un prato vicino e aveva coperto il viso dell’uomo con dell’erba, poiché il volto era completamente sfigurato e sarebbe stato uno spettacolo orribile per chiunque passasse.
Conclusione
In sintesi, L’ultima giornata è un esempio paradigmatico della visione pessimista e realista di Giovanni Verga. La rappresentazione della miseria e della solitudine umana si accompagna a un ritratto crudo e distaccato della società moderna, che sembra incapace di provare empatia per i suoi membri più deboli. La morte del protagonista non scuote il mondo che lo circonda, ma viene accolta con la stessa indifferenza che caratterizza la sua vita. Verga, con la sua abilità stilistica e la sua adesione al verismo, ci offre una riflessione amara sulla condizione umana.
Testo della novella “L’ultima giornata” da Per le vie di Giovanni Verga
I viaggiatori che erano nelle prime carrozze del treno per Como, poco dopo Sesto, sentirono una scossa, e una vecchia marchesa, capitata per sua disgrazia fra un giovanotto e una damigella di quelle col cappellaccio grande, sgranò gli occhi e arricciò il naso.
Il signorino aveva una magnifica pelliccia, e per galanteria voleva dividerla colla sua vicina più giovane, sebbene fosse primavera avanzata. Fra il sì e il no, stavano appunto aggiustando la partita, nel momento in cui il treno sobbalzò. Per fortuna la marchesa era conosciuta alla stazione di Monza, e si fece dare un posto di cupè.
I giornali della sera raccontavano:
“Oggi, nelle vicinanze di Sesto, fu trovato il cadavere di uno sconosciuto fra le rotaie della ferrovia. L’autorità informa.„
I giornali non sapevano altro. Una frotta di contadini che tornavano dalla festa di Gorla si erano trovati tutt’a un tratto quel cadavere fra i piedi, sull’argine della strada ferrata, e avevano fatto crocchio intorno curiosi per vedere com’era. Uno della brigata disse che incontrare un morto la festa porta disgrazia; ma i più ne levano i numeri del lotto.
Il cantoniere, onde sbarazzare le rotaie, aveva adagiato il cadavere nel prato, fra le macchie, e gli aveva messa una manciata d’erbacce sulla faccia, ch’era tutta sfracellata, e faceva un brutto vedere, per chi passava. Fra un treno e l’altro corsero il pretore, le guardie, i vicini, e com’era la festa dell’Ascensione, nei campi verdi si vedevano i pennacchi rossi dei carabinieri e i vestiti nuovi dei curiosi.
Il morto aveva i calzoni tutti stracciati, una giacchetta di fustagno logora, le scarpe tenute insieme collo spago, e una polizza del lotto in tasca. Cogli occhi spalancati nella faccia livida, guardava il cielo azzurro.
La giustizia cercava se era il caso di un assassinio per furto, o per altro motivo.
E fecero il verbale in regola, nè più nè meno che se in quelle tasche ci fossero state centomila lire. Poi volevano sapere chi fosse, e d’onde venisse; nome, patria, paternità e professione. D’indizi non rimanevano che la barba rossa, lunga di otto giorni, e le mani sudice e patite: delle mani che non avevano fatto nulla, e avevano avuto fame da un gran pezzo.
Alcuni l’avevano riconosciuto a quei contrassegni. Fra gli altri una brigata allegra che faceva baldoria a Loreto. Le ragazze che ballavano, scalmanate e colle sottane al vento, avevano detto:
— Quello là non ha voglia di ballare!
Egli andava diritto per la sua strada, colle braccia ciondoloni, le gambe fiacche, e aveva un bel da fare a strascinare quelle ciabatte, che non stavano insieme. Un momento s’era fermato a sentir suonare l’organetto, quasi avesse voglia di ballar davvero, e guardava senza dir nulla. Poi seguitò ad allontanarsi per il viale che si stendeva largo e polveroso sin dove arrivava l’occhio. Camminava sulla diritta, sotto gli alberi, a capo chino. Il tramvai era stato a un pelo di schiacciarlo, tanto che il cocchiere gli aveva buttato dietro un’imprecazione e una frustata. Egli aveva fatto un salto disperato per scansare il pericolo.
Più tardi lo videro sul limite di un podere, seduto per terra, in attitudine sospetta. Pareva che strologasse la pezza di granoturco, o che contasse i sassi del canale. Il garzone della cascina accorse col randello, e gli si accostò quatto quatto. Voleva vedere cosa stesse macchinando là quel vagabondo, mentre le pannocchie del granoturco ci voleva del tempo ad esser mature, e in tutto il campo, a farlo apposta, non vi sarebbe stato da rubare un quattrino. Allorchè gli fu addosso vide che si era cavate le scarpe, e teneva il mento fra le palme. Il garzone, col randello dietro la schiena, gli domandò cosa stesse a far lì, nella roba altrui; e gli guardava le mani sospettoso. L’altro balbettava senza saper rispondere, e si rimetteva le scarpe mogio mogio. Poi si allontanò di nuovo, col dorso curvo, come un malfattore.
Andava lungo l’argine del canale, sotto i gelsi che mettevano le prime foglie. I prati, a diritta e a sinistra, erano tutti verdi. L’acqua, nell’ombra, scorreva nera, e di tanto in tanto luccicava al sole, un bel sole di primavera, che faceva cinguettare gli uccelli.
Il garzone aggiunse ch’era rimasto più di un’ora in agguato per vedere se tornasse quel vagabondo; e non avrebbe mai creduto che facesse tante storie per andare a finire sotto una locomotiva. L’aveva riconosciuto da quelle scarpe che non si reggevano neppure collo spago, e gli erano saltate fuori dai piedi, di qua e di là dalle rotaie.
— Gli è che al momento in cui le ruote vi son passate di sopra quei piedi hanno dovuto sgambettare! — osservò il cameriere dell’osteria, corso sin là all’odore del morto come un corvo, in giubba nera e col tovagliuolo al braccio. Egli aveva visto passare quello sconosciuto dall’osteria verso mezzogiorno: una di quelle facce affamate che vi rubano cogli occhi la minestra che bolle in pentola, quando passano. Perfino i cani l’avevano odorato, e gli abbaiavano dietro quelle scarpacce che si slabbravano nella polvere.
Come il sole tramontava l’ombra del cadavere si allungava, dai piedi senza scarpe, a guisa di spaventapassere, e gli uccelli volavano via silenziosi. Dalle osterie vicine giungevano allegri il suono delle voci e la canzone del Barbapedana. In fondo al cortile, dietro le pianticelle magre in fila si vedevano saltare e ballare le ragazze scapigliate. E quando il carro che portava i resti del suicida passò sotto le finestre illuminate, queste si oscurarono subito dalla folla dei curiosi che s’affacciavano per vedere. Dentro, l’organetto continuava a suonar il valzer di Madama Angôt.
Più tardi se ne seppe qualche cosa. La affittaletti di Porta Tenaglia aveva visto arrivare quell’uomo della barba rossa una sera che pioveva, era un mese, stanco morto, e con un fardelletto sotto il braccio che non doveva dargli gran noia. Ed essa glielo aveva pesato cogli occhi per vedere se ci erano dentro i due soldi pel letto prima di dirgli di sì. Egli aveva domandato prima quanto si spendeva per dormire al coperto. Poi ogni giorno che Dio mandava in terra aspettava che gli arrivasse una lettera, e si metteva in viaggio all’alba, per andar a cercare quella risposta, colle scarpe rotte, la schiena curva, stanco di già prima di muoversi. Finalmente la lettera era venuta, col bollino da cinque. Diceva che nell’officina non c’era posto. La donna l’aveva trovata sul materasso, perchè lui quel giorno era rimasto sino a tardi col foglio in mano, seduto sul letto, colle gambe ciondoloni.
Nessuno ne sapeva altro. Era venuto da lontano. Gli avevano detto: — A Milano, che è città grande, troverete. — Egli non ci credeva più; ma s’era messo a cercare finchè gli restava qualche soldo.
Aveva fatto un po’ di tutti i mestieri: scalpellino, fornaciaio, e infine manovale. Dacchè si era rotto un braccio non era più quello; e i capomastri se lo rimandavano dall’uno all’altro, per levarselo di fra’ piedi. Poi quando fu stanco di cercare il pane si coricò sulle rotaie della ferrovia. A che cosa pensava, mentre aspettava, supino guardando il cielo limpido e le cime degli alberi verdi? Il giorno innanzi, mentre tornava a casa colle gambe rotte, aveva detto: — Domani!
Era la sera del sabato; tutte le osterie del Foro Bonaparte piene di gente fin sull’uscio, al lume chiaro del gas, dinanzi alle baracche dei saltimbanchi, affollata alle banchette dei venditori ambulanti, perdendosi nell’ombra dei viali, con un bisbiglio di voci sommesse e carezzevoli. Una ragazza in maglia color carne suonava il tamburo sotto un cartellone dipinto. Più in là una coppia di giovani seduti colle spalle al viale si abbracciavano. Un venditore di mele cotte tentava lo stomaco colla sua mercanzia.
Passò dinanzi una bottega socchiusa; c’era in fondo una donna che allattava un bimbo, e un uomo, in maniche di camicia, fumava sulla porta. Egli camminando guardava ogni cosa, ma non osava fermarsi; gli sembrava che lo scacciassero via, via, sempre via. I cristiani pareva che sentissero già l’odor del morto, e lo evitavano. Solo una povera donna, che andava a Sesto curva sotto una gran gerla e brontolando, si mise a sedersi sul ciglio della strada accanto a lui per riposarsi; e cominciò a chiacchierare e a lamentarsi, come fanno i vecchi, ciarlando dei suoi poveri guai: che aveva una figlia all’ospedale, e il genero la faceva lavorare come una bestia; che gli toccava andare fino a Monza con quella gerla lì, e aveva un dolore fisso nella schiena che gliela mangiavano i cani. Poi anch’essa se ne andò per la sua strada, a far cuocere la polenta del genero che l’aspettava. Al villaggio suonava mezzogiorno, e tutte le campane si misero in festa per l’Ascensione. Quando esse tacevano una gran pace si faceva tutto a un colpo per la campagna. A un tratto si udì il sibilo acuto e minaccioso del treno che passava come un lampo.
Il sole era alto e caldo. Di là della strada, verso la ferrovia, le praterie si perdevano a tiro d’occhio sotto i filari ombrosi di gelsi, intersecate dal canale che luccicava fra i pioppi.
— Andiamo, via! è tempo di finirla! Ma non si muoveva, col capo fra le mani. Passò un cagnaccio randagio e affamato, il solo che non gli abbaiasse, e si fermò a guardarlo fra esitante e pauroso; poi cominciò a dimenar la coda. Infine, vedendo che non gli davano nulla, se ne andò anch’esso; e nel silenzio si udì per un pezzetto lo scalpiccìo della povera bestia che vagabondava col ventre magro e la coda penzoloni.
Gli organetti continuarono a suonare, e la baldoria durò sino a tarda sera, nelle osterie. Poi, quando le voci si affiocarono e le ragazze furono stanche di ballare, ricominciarono a parlare del suicidio della giornata. Una raccontò della sua amica, bella come un angelo, che si era asfissiata per amore, e l’avevano trovata col ritratto del suo amante sulle labbra, un traditore che l’aveva piantata per andare a sposare una mercantessa. Ella sapeva la storia con ogni particolare; erano state due anni a cucire allo stesso tavolo. Le compagne ascoltavano mezze sdraiate sul canapè, facendosi vento, ancora rosse e scalmanate. Un giovanotto disse che egli, se avesse avuto motivo di esser geloso, avrebbe fatta la festa a tutti e due, prima lei e poi lui, con quel trincetto che portava indosso, anche quando non era a bottega — non si sa mai! — E si posava colle mani in tasca davanti alle ragazze, che lo ascoltavano intente, bel giovane com’era, coi capelli inanellati che gli scappavano di sotto a un cappelluccio piccino piccino. Il cameriere portò delle altre bottiglie, e tutti, coi gomiti allungati sulla tovaglia, parlavano di cose tenere, cogli occhi lustri, stringendosi le mani. — In questo mondo cane non c’è che l’amicizia e un po’ di volersi bene. Viva l’allegria! Una bottiglia scaccia una settimana di malinconia. Alcuni si misero in mezzo a rappattumare due pezzi di giovanotti che volevano accopparsi per gli occhi della morettina che andava dall’uno all’altro senza vergogna. — È il vino! è il vino! si gridava, Viva l’allegria! — I pacieri furono a un pelo di accapigliarsi coll’oste per alcune bottiglie che vedevano di troppo sul conto. Poi tutti uscirono all’aria fresca, nella notte ch’era già alta. L’oste stette un pezzetto sprangando tutte le porte e le finestre, facendo i conti sul libraccio unto. Poi andò a raggiungere la moglie che sonnecchiava dinanzi al banco, col bimbo in grembo. Le voci si perdevano in lontananza per la strada, con scoppi rari e improvvisi di allegria. Tutto intorno, sotto il cielo stellato, si faceva un gran silenzio, e il grillo canterino si mise a stridere sul ciglio della ferrovia.