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25 Aprile, la Resistenza delle donne: tra guerra antifascista e lotta di emancipazioneErano migliaia tra staffette, combattenti armate, o coadiuvanti degli uomini in battaglia. Perché le donne hanno fatto la Resistenza, non ne hanno solo preso parte com
e troppo spesso è stato detto25 APRILE 2019
di SIMONA SIRIANNI
Erano migliaia tra staffette, combattenti armate, o coadiuvanti degli uomini in battaglia. Perché le donne hanno fatto la Resistenza, non ne hanno solo preso parte come troppo spesso è stato detto
C’era Giovanna Marturano, «La bimba col pugno chiuso», morta a 101 anni senza mai smettere di lottare per la giustizia sociale, Irma Bandiera, staffetta nella 7° GAP che divenne combattente con il soprannome di “Mimma” . Fu catturata dai nazifascisti mentre tornava a casa dopo aver trasportato armi e documenti compromettenti. Fu seviziata dai fascisti per sei giorni, ma non rivelò mai i nomi dei propri compagni, facendosi fucilare ai piedi della collina di San Luca. C’era Ondina Peteani, spedita ad Auschwitz l’11 febbraio 1944 ma da cui riesce a fuggire, «Edera», Francesca De Giovanni, che gridò ai suoi assassini: «Tremate. Anche una ragazza vi fa paura». Fu la prima donna partigiana uccisa in Italia dalle Brigate Nere il 1 aprile del ’44 a Bologna.
E poi c’erano ancora Lidia Beccaria Rolfi che sopravvissuta a Ravensbrück scrisse un libro sulla condizione femminile nelle carceri naziste, Rita Rosani, Elsa Pelizzari, Maria Boschi, Aldina Franzosi, Teresa Mattei, Iris Versari, Cleonice Tomassetti, Carla Capponi, Vinka Kitarovic, Enrichetta Alfieri, Laura Francesca Wronowsky
Un lungo elenco che secondo alcuni calcoli fatti dall’Anpi, risulta composto, per quanto riguarda solo le partigiane combattenti, da 35000 donne. Su molti testi che raccontano quel periodo storico, si legge di donne incredibili, operaie, casalinghe, contadine, studentesse, insegnanti, impiegate, intellettuali, artiste, di ogni età ed estrazione sociale che armate o disarmate, antifasciste per i più svariati motivi, prendono parte alla Resistenza attivamente, non con semplici contributi. Ruoli e nomi fondamentali, rimasti ingiustamente avvolti nel silenzio.
Sono loro che impedirono i rastrellamenti degli uomini nella Napoli occupata del settembre 1943 facendo letteralmente svuotare i camion tedeschi già pieni e innescando la miccia dell’insurrezione cittadina. E sono ancora loro, le cittadine di Carrara, che nel luglio 1944 resistettero agli ordini di sfollamento totale impedendo ai tedeschi di garantirsi la via di ritirata verso le retrovie della linea Gotica. Perché non si risparmiano, vogliono esserci e si impegnano in tutti i compiti previsti dalla lotta di Liberazione, dal collegamento all’approvvigionamento, dalla propaganda al trasporto di armi e munizioni, dall’organizzazione ospedaliera fino, ovviamente, allo scontro armato.
Un ruolo che cambia a seconda del luogo in cui si trovano e a seconda del periodo, ma che mantiene sempre determinate caratteristiche. L’attività delle partigiane è stata sottoposta in sede storica a varie letture che non hanno mancato di sottolineare il profondo sotto-significato di questa fondamentale e inedita immagine della «donna attiva nella lotta armata», fino ad adesso consentita soltanto all’uomo: ovvero, il primissimo momento di vera e propria auto definizione. Riflessioni che concordano sull’affermare che l’antifascismo fu, per le donne, una scelta difficile, ma voluta fortemente, perché la Resistenza per loro non significò soltanto imbracciare un fucile, ma si trattò di una guerra anche per la loro emancipazione e divenne la prima occasione di conquistare consapevolezza del proprio valore e delle proprie capacità e ambire alla sconosciuta possibilità di parità con l’uomo.
E’anche per questo che quel ruolo, pur così fondamentale, destabilizzò e imbarazzò coloro che al loro fianco o con loro al proprio fianco, avevano combattuto. Gli stessi compagni di lotta, in una sorta di schizofrenica contraddizione, da un lato necessitavano di quella presenza nella guerra partigiana e dall’altro, però, criticavano la loro scelta di abbandonare il focolare. Chiedendo, spesso loro di continuare a svolgere i compiti classici dell’assistenza e della cura: quindi, più che combattenti, donne madri e spose, cuoche e infermiere.
E, infatti, «per le molte che combattono non ci sono ruoli politici o militari di rilievo, pochissime diventano comandanti o commissari politici. Il grado più alto attribuito alle donne è quello di maggiore, che riguarda comunque una piccola minoranza; quelli più diffusi, tenente e sottotenente». Una scontata sottovalutazione che ha portato a riconoscere a pochissime di loro la qualifica di «partigiana combattente», nonostante un impegno, nei fatti, fondamentale. (A. Bravo, Resistenza civile). Tante donne non chiederanno nemmeno il riconoscimento perché molte di loro, appena conclusa la lotta, ritorneranno alla loro vita familiare e di lavoro, scegliendo l’anonimato. E a tante, materialmente, sarà addirittura (ingiustamente) negato.
Per questo vogliamo ricordarle, perché chiamate a combattere in un mondo in sfacelo, le donne non esitarono ad esporsi a tutti i rischi della lotta. E perché i numeri sono importanti: 35mila le partigiane combattenti; 70mila le donne organizzate nei Gruppi di difesa; 4.653 le arrestate e torturate, oltre 2.750 vennero deportate in Germania, 2.812 fucilate o impiccate; 1.070 caddero in combattimento, 19 decorate di Medaglia d’Oro al valor militare, 54 con Medaglia d’Argento, 167 con Medaglia di Bronzo. (dati ANPI)