Vita di Galileo
27 Gennaio 2019ATTO QUARTO
27 Gennaio 2019di Gabriele D’Annunzio
Alla nutrice
Gelida sta la notte cristiana
su le case degli uomini, ma pura.
– O tu che ne la casa tua lontana
fili con dita provvide la lana
de la tua greggia, sin che l’olio dura
ne la lucerna, e il ceppo a tratti splende,
Nutrice, da cui bevvi la mia vita
prima, ne le cui braccia ebbi il sopore
primo!, se da la tua bocca appassita
riudissi io quel canto e le tue dita
vedessi, ove s’attenua il bianco fiore
dei velli, e il fuso pendulo che scende,
e la fronte rugosa che s’inchina
incoronata di capelli bianchi,
ove la semplice anima indovina
si rivela talor quasi divina-
mente in un raggio, e i tuoi cavi occhi stanchi
ove qualche favilla pur s’accende,
io forse piangerei ancora un pianto
salùbre e forse ancora dal profondo
mi sorgerebbe qualche antico e santo
affetto, e mi parrebbe nel tuo canto
ritrovar l’innocenza di quel biondo
pargolo; – e lungi queste cose orrende!
E tutta la freschezza del tuo latte
ne le mie vene! – Una natività
novella, in un candor di nevi intatte. –
E tutta la freschezza del tuo latte
ne le mie vene, e tutta la bontà
dei cieli; – e lungi queste cose orrende,
lungi sempre da l’anima rinata
e del candor natale circonfusa!
Una immensa bianchezza immacolata,
una forma d’amore angelicata,
e per tutto l’imagine diffusa
d’un Bene Sommo che quivi s’attende! –
Ma tu, che ne la casa tua lontana
torci il fuso, non sai la mia ventura.
Fili con dita provvide la lana
de la tua greggia; ne sai la mia vana
tristezza, in quest’azzurra notte pura.
Tu torci il fuso, e il ceppo a tratti splende.
E fili, e fili sin che l’olio dura,
Nutrice; e morta la mammella pende.
Natale del 1892.
Prologo
A fine di riposo sempre affanno.
BENUCCIO SALIMBENI
Tre volte muterai, anzi che giunga
il colpo del martel che ti conficchi
nel core il Ben…
FRATE STOPPA
Tra la spiga e la man qual muro è messo?
Francesco Petrarca
In vano
Arte, o tremenda!, ancóra
tu non ti sei svelata.
Noi t’adorammo in vano.
Gloria, tu passi; e ad altre
fronti concedi il bacio.
Noi ti seguimmo in vano.
Amante ignota, ahi troppo
giovine tu sei morta.
Noi t’aspettammo in vano.
E dove siete, o fiori strani,
o profumi nuovi?
Noi vi cercammo in vano.
Nessun dolente al mondo
da noi fu consolato.
Con lui piangemmo in vano.
Nessun oppresso al mondo
da noi fu vendicato.
Ci sollevammo in vano.
Non fu il dolor sì forte
da vincere il Mistero.
Lo sofferimmo in vano.
Dietro di noi un solco
sterile obliquo lieve
resta. Vivemmo in vano.
D’innanzi a noi, nel buio,
la Morte è senza face.
– Gloria! – Morremo in vano.
Esortazione
Anima, a che t’indugi ignobilmente
fra il tedio de la vita e la paura
de la morte? Le faci sono spente.
Nulla riluce ne la bassura.
A che dunque t’indugi? Ancor ti mente
la speranza di un’ultima avventura?
Guarda ben la tua via; nuda, silente,
come constretta fra due cieche mura.
Poiché non giunge il fulmine improvviso,
a che t’indugi omai? Non dubitare.
La grande pace ti sarà concessa.
Più d’una volta tu leggesti in viso
ai cadaveri freddi ne le bare
che la Morte mantenne la promessa.
Il buon messaggio
“E le piccole foglie in cima ai rami
di primavera? e il cielo così grande?
e i fanciulli? e le tombe venerande?
e la madre? e la casa che tu ami?”
Venir può da tal voce, anche una volta,
questo bene! – O sorella, dunque in cima
ai rami, ai rami teneri, è la prima
foglia? e brilla? E tu hai dunque raccolta
la rugiada nel cavo de la mano?
Son queste, è vero?, cose ancóra buone.
E tu cantasti già qualche canzone
a la madre pensosa d’un lontano?
Non pianga. Tornerà quel suo figliuolo
a la sua casa. E’ stanco di mentire.
Tornerà. Né vorrà più mai partire:
certo, più mai. Da troppo tempo è solo.
Domani tornerà… – Vuoi tu che torni
domani? Dunque aspettami, sorella.
Io le piccole foglie, la novella
erba, e le acque correnti, e certi giorni
così chiari che sembra vi si effonda
quasi un latte divino, e certe lente
notti ove quasi un’ansia occultamente
sospira e poi la canna è più profonda,
io veda, io goda: queste cose io veda,
io goda, e tu mi sia compagna sola.
E sol ne’ tuoi puri occhi di viola,
ed in quelli materni, io guardi, io creda.
Oh al fine io tocchi l’albero e l’arbusto
con mani monde e non mi turbi alcuna
brama! Oggi tutta la bontà s’aduna
in quel cuore che seppe ogni disgusto:
tanta bontà che parmi ismisurato
il cuore… – E dimmi, dunque, dimmi: in cima
ai rami, ai rami teneri, è la prima
foglia? e brilla? E tu hai dunque, cantato?
In votis
Oh non più soffrire
al fine, queste ire
questa guerra atroce
fuggire, altra voce
non udire al fine
che la sua! – Mattine
candide innocenti,
voi su’ freschi v’ènti
da le selve ascose
non odor di rose,
non odor di timo
avrete, ma primo
d’ogni altro l’odore
ch’ella par dal cuore
spandere. Voi, sere
lente ove preghiere
lente vanno sole
e cadon viole
da angeliche mani
in seni lontani,
parrete albe aurore
se dal puro fiore
del suo labbro un riso
trarrò d’improvviso,
che per i confini
del cielo in divini
cerchi saliente
si spanderà. Lente
le stelle ne l’onda
lucida profonda
si scioglieran come
rugiade. Il suo nome
pio seguirà l’Ave
nel coro soave.
Semplice nel bianco
velo ella al mio fianco
verrà su le prode
solinghe. La lode
udrà che d’in torno
salirà pel giorno
fatto d’improvviso
nel cielo da un riso
de la bocca bella.
– Ave, maris stella!
Salve! – Ma udrà ella,
chinate le ciglia,
senza meraviglia.
Nuovo messaggio
Perdonami, tu buona. Io dissi, è vero,
dissi: – Domani tornerò, domani
vi rivedrò. – E siamo ancor lontani,
Anna, e tu credi che non sia sincero
il mio vóto! Oh, perdonami. Io mi sento
morire. E’ questa, è questa oggi la sola
verità. Non so dirti altra parola
che questa. Cade ogni proponimento,
mi lascia ogni speranza. Tutto è vano.
Io non vedrò fiorire il bianco spino
lungo le siepi né pe’ solchi il lino
cerulo né tremante alzarsi il grano;
e non la madre, e non su quello smorto
viso, su quell’estenuato viso
un po’ di sole; e non il suo sorriso;
e non su que’ rosai bianchi dell’orto
le sue mani più pure delle rose
nuove… E le coglierebbe ella, le nuove
rose, è vero?, a fiorir la stanza dove
io comporrei canzoni mal’iose
per consolare il suo dolente cuore;
e cadere vedrei come ad un lieve
fiato le foglie miti come neve
su la pagina, al suo pensier d’amore;
ed ella non si stancherebbe mai
di guardarmi, e il suo sguardo su la fronte
io sentirei, e sentirei la fronte
divenir pura come non fu mai…
Aspettami, ti prego! Io dissi, è vero,
dissi: – Domani tornerò, domani
vi rivedrò. – E siamo ancor lontani.
Ma aspettami, Anna, aspettami. Dispero
io forse? Credi tu che io sia perduto?
Ma non vedi, non vedi tu che io sogno
la mia casa? Non vedi tu che io sogno
i tuoi rosai? Quando sarò venuto,
oh allora… – Aspettami, Anna. E dille, dille
che m’aspetti. Vedrai che questa volta
non rimarrà delusa. Questa volta,
oh per la luce de le sue pupille
tènere, io non avrò promesso in vano.
Questa volta, fiorire il bianco spino
lungo le siepi e lungo i solchi il lino
cerulo, e a poco a poco alzarsi il grano,
e lei che a poco a poco si colora
di salute, e noi due stare a’ suoi piedi,
e il suo sorriso… – Ma tu non mi credi,
Anna? Quando sarò venuto, oh allora…
Hortus conclusus
Amor con lui parlava
del vostro grande orgoglio…
CINO DA PISTOIA
L’alta bellezza tua è tanto nova!
SENNUCCIO DEL BENE
Alma real, dignissima d’impero…
Francesco Petrarca
Hortus conclusus
Giardini chiusi, appena intraveduti,
o contemplati a lungo pe’ cancelli
che mai nessuna mano al viandante
smarrito aprì come in un sogno! Muti
giardini, cimiteri senza avelli,
ove erra forse qualche spirto amante
dietro l’ombre de’ suoi beni perduti!
Splendon ne la memoria i paradisi
inaccessi a cui l’anima inquieta
aspirò con un’ansia che fu viva
oltre l’ora, oltre l’ora fuggitiva,
oltre la luce de la sera estiva
dove i fiori effondean qualche segreta
virtù da’ lor feminei sorrisi,
e i bei penduli pomi tra la fronda
puri come la carne verginale
parean serbare ne la polpa bionda
sapori non terrestri a non mortale
bocca, e più bianche nel silenzio intente
le statue guardavan la profonda
pace e sognavano indicibilmente.
Qual mistero dal gesto d’una grande
statua solitaria in un giardino
silenzioso al vespero si spande!
Su i culmini dei rigidi cipressi,
a cui le rose cingono ghirlande,
inargentasi il cielo vespertino;
i fonti occulti parlano sommessi;
biancheggiano ne l’ombra i curvi cori
di marmo, ora deserti, ove s’aduna
il concilio degli ultimi poeti;
tenue su la messe alta dei fiori
passa la falce de la nova l’una;
ne l’ombra i fonti parlano segreti;
rare sgorgan le stelle, ad una ad una;
un cigno con remeggio lento fende
il lago pura imagine del cielo
(desìo d’amori umani ancor l’accende?
memoria è in lui del nuzial suo lito?)
e fluttua nel lene solco il velo
de l’antica Tindaride, risplende
su l’acque il lume de l’antico mito.
Di sovrumani amori visioni
sorgono su da’ vasti orti recinti
che mai una divina a lo straniero
aprirà coronata di giacinti
per lui condurre in alti labirinti
di fiori verso il triplice mistero
cantando inaudite sue canzoni.
Ma quegli, folle del profumo effuso
dal cor degli invisibili rosai,
chino a la soglia come quando adora,
pieni d’un sogno non sognato mai
gli occhi mortali, giù per l’ombre esplora
nel profondo crepuscolo in confuso
il dominio silente ch’egli ignora.
Così la prima volta io vi guardai
con questi occhi mortali. Voi, signora,
siete per me come un giardino chiuso.
La passeggiata
Voi non mi amate ed io non vi amo. Pure
qualche dolcezza è ne la nostra vita
da ieri: una dolcezza indefinita
che vela un poco, sembra, le sventure
nostre e le fa, sembra, quasi lontane.
Ben, ieri, mi sembravano lontane
mentre io parlava, mentre io v’ascoltava,
e il mare in calma a pena a pena ansava,
ed eran quei vapori come lane
di agnelli, sparsi in un benigno cielo.
Mi veniva da voi o da quel cielo
e da quel mare l’umile riposo?
Certo, in un punto, io fui quasi oblioso.
Lane di agnelli, gigli senza stelo,
vaghe bianche apparenze, in cielo, in mare…
Come leggero ai lidi ansava il mare!
Il vostro passo diventò più lento.
Come leggero anche! Ed io era attento
più la ritmo di quel passo o a quell’ansare,
o a le vostre parole, o al mio pensiero?
Parea che io non avessi alcun pensiero.
Non pensava. Sentiva, solamente.
Dite: non foste mai convalescente
in un aprile un po’ velato? E’ vero
che nulla al mondo, nulla è più soave?
Qualche cosa era in me, di quel soave.
Pure, voi non mi amate ed io non vi amo.
Pure, quando vi chiamo, io non vi chiamo
per, nome. E il vostro nome è quel de l’Ave:
nome che pare un balsamo a la bocca!
Quando parlate, io non guardo la bocca
parlare, o al men non troppo guardo. Ascolto;
comprendo, vi rispondo. Il vostro volto
non muta se la mia mano vi tocca.
La vostra mano è quella che non dona.
Nulla di voi, nulla di voi si dona.
Però, nulla io vi chiedo, nulla attendo
se bene, debolmente sorridendo
come chi langue e pur non s’abbandona…
Oh, no! Voi eravate, ieri, stanca.
Voi eravate ieri molto stanca,
oh tanto che vi caddero di mano
i fiori. Non è vero che di mano
vi caddero le rose, tanto stanca
eravate? Così vi vedo ancóra.
E fate che così vi veda ancóra,
un’altra volta, un’altra volta sola.
Forse… Oh no. Sorridete. E’ una parola
vana questa che io dico. Voi, signora,
siete per me come un giardino chiuso.
Siete per me come un giardino chiuso,
dove nessuno è penetrato mai.
Di profondi invisibili rosai
giunge tale un divino odore effuso
che atterra ogni desìo di chi l’aspira.
Non ad altro la nostra anima aspira
che a una tristezza riposata, eguale.
Conosco il vostro portentoso male;
e il dolore ch’è in voi forse m’attira
più de la vostra bocca e dei capelli
vostri, dei grandi meduséi capelli
bruni come foglie morte
ma vivi e fien come l’angui attorte
de la Górgone, io temo, se ribelli,
e pieni del terribile mistero.
Me non avvolgerà tanto mistero.
Dicono che nel folto de le chiome
voi abbiate una ciocca rossa come
una fiamma: nel folto chiusa. E’ vero?
Io la penso, e la veggo fiammeggiare.
La veggo stramente fiammeggiare
come un segno fatale. – O passione
arsa a quel fuoco! – Tutte le corone
de la terra non possono oscurare
quel segno unico. Voi siete l’Eccelsa.
Voi che passate, voi siete l’Eccelsa.
E passate così, per vie terrene!
Chi osa? Chi vi prende? Chi vi tiene?
Siete come una spada senza l’elsa,
pura e lucente, e non brandita mai…
Oh, dove sono giunto! Perché mai
vi dico queste cose? Perdonate
chi sogna. Perdonate, perdonate.
Il tramonto è una fiamma, e i marinai
cantano da le navi, e odora il mare.
Voi vedete: non è lo stesso mare
di ieri. Voi vedete: è un altro cielo.
Lane di agnelli, gigli senza stelo,
vaghe bianche apparenze, in cielo, in mare:
queste cose rispondon meglio a noi,
meglio a le nostre anime stanche. Noi
saremo paghi di qualche dolcezza
mite, noi cercheremo una tristezza
riposata ed eguale. Ed abbia i suoi
cieli velati Aprile, come ieri,
i suoi mari quieti, come ieri;
sì che possiamo noi recar l’ungh’essi
i lidi, o sotto gli alberi, sommessi
colloqui e sogni e taciti pensieri,
– o voi dal dolce nome che io non chiamo! –
perché voi non mi amate ed io non vi amo.
Il giogo
Quella sua chioma, volgente
su da la fronte regale
cui cingeva l’immortale
Tristezza divinamente,
mi ricordava il tesoro
de le foreste profonde
ove l’Autunno profonde
tra porpore cupe l’oro.
E gli occhi, remoti in cavi
cerchi d’ombra e di mistero,
cui tanto il sogno e il pensiero
facean le palpebre gravi,
non aveano un’infinita
calma di tarde acque stigie?
Entro io vi scorgea l’effigie
de la morte, ne la vita.
E le labbra mai concesse
(la vita dà tali frutti!)
ov’erano insieme tutti
i rifiuti e le promesse,
da l’invincibile orgoglio
con suggel rigido chiuse
tacevano, ma ben use
a l’alta parola VOGLIO.
Ampia era la stanza. Aveva
qualche alito veemente
la sera; che di repente
i cortinaggi scoteva
con uno strano susurro.
Si sfogliavan su ‘l balcone
le rose, ma le corone
de gli astri ardean ne l’azzurro
con un fulgore che parve
insolito a gli occhi miei.
Tutto, allora, a gli occhi miei
insolito e grande parve;
e le voci de la sera
vennero tutte a la mia
anima. Io dissi: – Maria! –
Dissi. E quel nome non era
che un soffio, ma in sé portava
una immensità di cose
sovrane. E mentre le rose
morivano e palpitava
il cielo ed ella era muta,
io sentii pormi il suo giogo.
Ogni scienza del luogo
e del tempo fu perduta.
E nulla più, veramente,
a me parve ch’esistesse.
E quelle voci sommesse
tacquero. Ne la mia mente
non balenò che un pensiero
su l’anima sbigottita.
Da quell’attimo la vita
non ebbe che un sol mistero.
Ella così pose il giogo
a l’artefice superbo.
Ed ella non disse verbo.
Splendeva come in un rogo.
La sera
I.
Rimanete, vi prego, rimanete
qui. Non vi alzate! Avete voi bisogno
di luce? No. Fate che questo sogno
duri ancóra. Vi prego: rimanete!
Ci ferirebbe forse, come un dardo,
la luce. Troppo lungo è stato il giorno:
oh, troppo! Ed io già penso al suo ritorno
con orrore. La luce è come un dardo.
Anche voi non l’amate, è vero? Gli occhi
vostri, nel giorno, sono stanchi. Pare
quasi che non possiate sollevare
le pàlpebre, su quei dolorosi occhi;
e nulla, veramente, nulla è più
triste de l’ombra che le ciglia immote
fanno talvolta a sommo de le gote
quando la bocca non sorride più.
II.
Ma chi vide più larghi e più profondi
occhi dei vostri, se incominci il sole
a morire? Quale anima si duole
fascinata da abissi più profondi?
lo non conosco, veramente, cosa
che somigli a quel lento dilatarsi
ne la sera: – non gli astri in alto apparsi,
non i fiori. Non so nessuna cosa.
E quale cosa eguaglia ne la vita
del mio spirito l’estasi e il terrore
che m’invadono? Il mio corpo non muore
e pur sembra ch’io viva oltre la vita!
Sembra che in ciel l’innaturale forma
con la sera divina si congiunga,
poi che l’immensa ombra del ciel prolunga
i tuoi capelli in una sola forma,
in una sola onda, in un sol fiume
misterioso che con un suo largo
giro m’avvolge e trae nel suo letargo
dando l’oblìo come l’antico fiume.
III.
Piangi, tu che hai nei grandi occhi la mia
anima ed in cui palpita il mio cuore
segreto, o tu, sorella del Dolore,
sorella de la Sera, unica mia.
Per consolarmi in ore di tristezza
io ti creai de la più pura essenza,
fantasma immarcescibile, ma senza
consolare la mia vera tristezza!
Sopra un “erotik”
(di Eduard Grieg)
Voglio un amore doloroso, lento,
che lento sia come una lenta morte,
e senza fine (voglio che più forte
sia de la morte) e senza mutamento.
Voglio che senza tregua in un tormento
occulto sien le nostre anime assorte;
e un mare sia presso a le nostre porte,
solo, che pianga in un silenzio intento.
Voglio che sia la torre alta granito,
ed alta sia così che nel sereno
sembri attingere il grande astro polare.
Voglio un letto di porpora, e trovare
in quell’ombra giacendo su quel seno,
come in fondo a un sepolcro, l’infinito.
Ancóra sopra l'”erotik”
Erinni! E questo il tragico tuo nome.
Ancóra è viva in te l’antica possa.
L’immensa notte, o Furia, s’è commossa
tutta al fremito sol de le tue chiome.
Se appari tu su la mia soglia come
una fiamma fiammando ne la rossa
veste, mi corre un brivido per l’ossa
l’anima grida il tragico tuo nome.
Ma tu sei bianca questa notte, Erinni.
Oh come bianca! Ti sei tu svenata
forse per colorare la tua veste?
Odi, che canta il mare, lugubri inni!
E tu rinnova in me la disperata
demenza che faceva insonne Oreste.
Sopra un “adagio”
(di Johannes Brahms)
Tutto è silenzio, lùgubre infinito
silenzio, nel lontano
regno che regnerai. Simile a un nero
sepolcro è un trono vacuo, deserto
da tempo immemorabile, fatale:
ove già stette solitario assiso
un re onnipossente.
Riluceano il carbonchio e il crisolito
sul suo capo sovrano
mistici come gli astri; un gran pensiero
recingevano i cerchi del suo serto;
e più di quel fulgore siderale
risplendea quel pensiero nel suo viso
muto, indicibilmente.
Nel dominio attingea l’estremo lito
il gesto de la mano
sacra; levava i turbini un severo
cenno. Fioria la messe dal deserto,
rose fiorian da l’infecondo sale,
risorgeano le vampe, al suo sorriso,
da le ceneri spente.
E scomparve. Sta un lugubre infinito
silenzio sul lontano
regno che regnerai; ed un mistero
profondo, come in un sepolcro aperto,
troverai tu nel trono, o spiritale
regina di quel morto paradiso
che tace eternamente,
o vana luce di quel paradiso
morto ne la mia mente!
Autunno
Autunno, che negli occhi suoi specchiasti
e nel mar taciturno il tuo fulvo oro
– tutte le acque un immobile tesoro
parvero, e gli occhi più del mare vasti -,
Autunno, io non sentii mai così forte
la tristezza che tu solo diffondi
– quante di me ne’ tuoi boschi profondi
son cose morte tra le foglie morte!
come ieri. Fu ieri la suprema
tristezza e fu l’amor supremo. Ah mai,
ne l’ore più segrete, mai l’amai
come ieri. Ancor l’anima ne trema.
Ella taceva, chiusa ne la nera
tunica dove sparsi erano fiori
pallidi, Autunno, come i tuoi che indori
sul vano stelo; e, china a la ringhiera,
guardava il golfo solitario, china
come colei che un peso immane aggrava.
– Ombra de la sua fronte! – O non guardava
forse dentro di sé la sua ruina?
Forse. Non domandai. Ma così piena-
mente a lei rispondean tutte le cose
visibili, apparenze dolorose
d’anime involte ne la stessa pena,
che io credetti vedere il suo dolore
in quelle forme, vivere in un mondo
espresso intero dal suo cuor profondo,
irradiato da quel solo cuore;
e fu per me ciascuna forma un segno
che svelava un mistero: quasi un muto
verbo; e più nulla fu disconosciuto,
anche per me, ne l’infinito regno.
Nell’estate dei morti
Guarda. Non ha la terra una pianura
più dolce. Sotto l’autunnale giorno
come regina sta, porpora e oro,
immemore de l’alta genitura.
Alte le biade, se ricordi, in torno
fluttuavano come un mar sonoro,
avanzando la grande tua figura.
Guarda le nubi. Fendono leggère
tal’une il cielo come le galere
un ellesponto cariche di rose
che si riversan pe’ ricurvi fianchi;
vanno tal’une come gloriose
quadrighe tratte da cavalli bianchi;
figurando la forza ed il piacere.
Dense come tangibili velarii
scorrono il piano le lunghe ombre loro.
Entro splendonvi or sì or no le vigne
pampinee, le pergole, i pomarii,
e le foreste da la chioma insigne,
e tutte quelle sparse cose d’oro,
come entro laghi azzurri e solitarii.
Guarda. Ti dà la terra tutti i suoi
pensieri. Lèggi. Mai per le sue forme
visibili ella espresse più profondi
pensieri. (Io ben li leggo ora, da poi
che tu nel giorno più non mi nascondi
il sole.) Guarda come ella s’addorme
ne’ suoi pensieri. – Che faremo noi?
Oggi, per far più cupo il tuo pallore,
per far più triste l’anima dolente,
evocherò, come più tristamente
non volli mai – con una melodia
infinita, continua, che sia
senza numero quasi -, un grande amore
passato, un grande lontano dolore.
Tendevi, ne la luce ultima, ieri
verso i tuoi fulvi alberi ancor vocali,
tendevi tu l’orecchio, – ti ricordi? –
proclive, come un musico che accordi
una lira; ed a te l’ombre dei neri
capelli in fronte battevan come ali.
E parevi diffusa in quei misteri.
Or tu m’odi ne l’atto che mi piacque,
t’inclina al verso come a quel susurro
di morienti nel letale occaso.
Rimanesti in ascolto quando tacque,
immota; e l’ora ti coprì d’azzurro
e di silenzio pia. Sole, nel vaso
marmoreo, per te piansero l’acque.
Piansero quelle ch’eran sì canore!
Scendea l’azzurro col silenzio e il gelo
notturno, senza fine; senza fine
gli astri sgorgavan come adamantine
lacrime dal profondo cielo; e il cielo
era lontano come un grande amore
passato, un grande lontano dolore.
Odimi, reclinata verso il suono.
L’anima imperiosa, dal suo trono
piegando verso me che parlo, m’oda.
La farò triste come non fu mai.
Sol una volta almen tu piangerai,
tu che non ridi al verso che ti loda
e scuoti il capo quando io t’incorono.
Hortus Larvarum
Ben vi ricorda de’ perduti giorni;
dell’usate lusinghe…
CONTE DI BATTIFOLLE
Qui si vedrà tua dolce melodia.
SAVIOZZO DA SIENA
… quasi d’uom che sogna…
Francesco Petrarca
Hortus Larvarum
Il bel giardino in tempi assai lontani
occultamente pare lontanare.
Le fonti, chiare di chiaror d’opale,
fan ne la calma suoni dolci e strani.
Nei roseti le rose estenuate
cadono, quasi non odoran più.
L’Anima langue. I nostri sogni vani
chiamano i tempi che non sono più.
O danze, arie di tempi assai lontani,
voi che in qualche dimora secolare
facean su ‘l virginale risonare
dolentemente così bianche mani:
mani di donna avida ancor d’amare,
non più giovine, non amata più:
e voi movete questi sogni vani,
arie di tempi che non sono più!
O profumi di tempi assai lontani,
voi che nel fondo de le vuote fiale
lasciaste la dolcezza essenziale
così che par che un spirito n’emani
(forse ne le segrete anime tale
un sol ricordo non vanisce più):
e voi guidate i nostri sogni vani,
profumi, ai tempi che non sono più!
O figure di tempi assai lontani,
voi che il tessuto pallido animate,
ninfe su fiumi, cacciatrici armate
dietro bei cervi in bei boschi pagani
(Delia, tal’uno a notte alta, d’estate,
te rimirando non dormiva più):
e voi ridete in questi sogni vani
come nei tempi che non sono più!
E tu vissuta in tempi assai lontani,
donna, come le tue danze obliate,
come i profumi tuoi ne le tue fiale,
donna che avevi così bianche mani,
tu che moristi avida ancor d’amare,
non più giovane, non amata più,
oggi tu passa in questi sogni vani,
morta dei tempi che non sono più!
Climene
Nel giardino, che al tempo dei granduchi
moderavan le stridule cesoie,
ora non altro per le lunghe noie
del giorno s’ode che il ronzar dei fuchi.
Tacciono le fontane un tempo vive,
che ridean tutte vive di zampilli.
Non altro s’ode che il cantar dei grilli
eguale e roco, ne le sere estive.
Chiudon la tromba del Tritone arguto
i licheni ed i muschi verdegialli.
Nettuno, senza braccia, i suoi cavalli
marini guarda ne la vasca muto.
Grandi urne vuote lungo i balaustri
s’alternan con le statue corrose:
urne d’antica forma, ove le rose
fiorivan per virtù di mani industri.
Luce ne l’ombra dei viali il busso
da la foglia polita. Ai luccicori
vaghi sogna quell’erma che gli amori
antichi vide ne l’antico lusso.
Ma è l’erma quella che ne l’ombra verde
biancheggia? S’ode un passo nel viale.
Il silenzio è profondo, sepolcrale.
Non il più lieve strepito si perde.
Qual creatura visita il deserto
luogo sola? Da qual sepolcro escita?
Da quale esilio torna a questa vita
la donna che ha sì lieve passo incerto?
Viene ella in una lunga veste bianca
di raso, a mille righe violette,
d’antica foggia. Il feltro ampio le mette
un’ombra su la faccia un poco stanca.
Chiari come i topazi e lunghi, gli occhi,
come le mandorle: umidi ma d’una
lacrima che non sgorga. Non la luna
è così dolce, se un vapor la tocchi.
Ondeggiano sul feltro i nastri ad ogni
passo, e la cipria vola da la nuca
bionda. Ella viene. Par che la conduca
un ricordo nei luoghi, e par che sogni.
Mormora a quando a quando un nome: “Alceste”.
Si sofferma talvolta, e poi sorride
vagamente. Una foglia secca stride
sul suolo presa all’orlo de la veste.
Mormora: “Non fu ieri? Non fu ieri?
Le rose avean l’odor de le mie chiome
per lui. Dov’è? Dov’è, dunque? Il mio nome
era Climene; Alceste il suo. Fu ieri”.
Aprile
Socchiusa è la finestra, sul giardino.
Un’ora passa lenta, sonnolenta.
Ed ella, ch’era attenta, s’addormenta
a quella voce che già si lamenta,
– che si lamenta in fondo a quel giardino.
Non è che voce d’acque su la pietra:
e quante volte, quante volte udita!
Quell’amore e quell’ora in quella vita
s’affondan come ne l’onda infinita
stretti insieme il cadavere e la pietra.
Ella stende l’angoscia sua nel sonno.
L’angoscia è forte, e il sonno è così lieve!
(Par la luce d’april quasi una neve
che sia tiepida.) Ed ella certo deve
soffrire, vagamente, anche nel sonno.
Tutto nel sonno si rivela il male
che la corrompe. Il volto impallidisce
lentamente: la bocca s’appassisce
nel suo respiro; su le guance lisce
s’incava un’ombra… O rose, è il vostro male:
rose del sole nuovo, pur di ieri,
ch’ella recise ad una ad una (e intanto
ella era affaticata un poco, e intanto
l’acque avean su la stessa pietra il pianto
d’oggi), oggi quasi sfatte, e pur di ieri!
Ella non è più giovine. I suoi tardi
fiori effuse nel primo ultimo amore.
Fu di voluttà ebra e di dolore.
Un grido era nel suo segreto cuore,
assiduo: – Troppo tardi! Troppo tardi! –
Ella non è più giovine. Son quasi
bianchi i capelli su la tempia; sono
su la fronte un po’ radi. L’abbandono
(ella è supina e immota), l’abbandono
fa sembrar morte le sue mani, quasi.
Né pure il gesto fa scendere mai
sangue all’estrenútà de le sue dita!
La tragga il sogno lungi da la vita.
Veda nel sogno almen ringiovanita
l’Amato ch’ella non vedrà piu mai.
Socchiusa è la finestra, sul giardino.
Un’ora passa lenta, sonnolenta.
Non altro s’ode, ne la luce spenta,
che quella voce che giù si lamenta,
– che si lamenta in fondo a quel giardino.
L’ora
Passano l’ore. Tace
la stanza in una eguale
ombra. Voce non sale
da la via. Tutto è pace.
Ella aspetta che l’Ora
giunga. Da più d’un giorno
ella aspetta il ritorno
fatale di quell’ora;
da più d’un giorno aspetta
la vita, ella che muore
sola. E passano l’ore,
passano l’ore. E aspetta!
Sola, tacita, senza
un gemito, che mai
spera? Non altro omai,
forse, che la demenza.
Resta immobile, sotto
il peso d’un pensiero
unico. d’un pensiero
assiduo, non rotto
da alcuna tregua, sia
pur breve. Non la tocca
altra cosa. La bocca
disse già: – Così sia. –
E così sia. Bisogna
morire. Oggi? Domani?
Quando? Senza domani
è il giorno ch’ella sogna.
Oh se Iddio l’ascoltasse!
Ma non verrà quel giorno.
Oh se almeno, al ritorno
dell’Ora, le scoppiasse
il cuore! – Questo spera,
forse: non più la vita
ma la morte, infinita-
mente più dolce. O sfera,
corri! – E il suo sguardo segue
sul pallido quadrante
la sfera che l’amante
non sazio, ne le tregue
del piacere, più volte
già con la man furtiva
tenne, mentre languiva
ella ne le sue sciolte
chiome e non così lesto
era l’inganno ch’ella
di tra le nere anella
non travedesse il gesto.
Prossima è l’Ora. Tace
la stanza in una eguale
ombra. Voce non sale
da la via. Tutto è pace.
Pendon ritratti oscuri
d’amiche morte da la
Parete d’onde esala
quell’odore dei muri
vetusti, quell’odore
dei muri ove un tessuto
lentamente ha perduto,
come un fiore, il colore
suo primo ed ha, se il sole
illumina, il sorriso
tenue ch’è in un viso
d’inferno. (Non si duole
forse un’anima in ogni
cosa?) E gli occhi soavi
dei ritratti son gravi
di sconosciuti sogni;
e lunghi, lunghi come
le mandorle; e seguaci.
Chiuse le labbra ai baci,
chiuse per sempre al nome
ch’ebbero caro. – O donne
beate che non più
amano, che non più
aspettano! L’insonne
ama, aspetta: da quanto? –
Vien l’Ora. Non si sente
alito. Vagamente
il cembalo in un canto
luce; e sopra vi luce
una coppa ov’è un fiore
solo. Altro nel sopore
de la stanza non luce.
Tutto è silenzio. Tace
la stanza in una eguale
ombra. Voce non sale
da la via. Tutto è pace.
Oh Morte! L’Ora scocca,
funebre. Ella morrà.
S’irrigidisce; ma
non mette da la bocca
grido. Il cuore le trema,
vivo!, per ogni fibra.
Cupo il cembalo vibra
e a lungo. Par che gema.
Sopra un’aria antica
Non sorgono (ascolta,
ascolta) le nostre parole
da quell’aria antica?
Io t’ho dissepolta.
E al fine rivedi tu il sole,
tu mi parli, o amica!
Queste tu parlavi
parole. Non odi? Non odi?
Ma chi le raccolse?
Da gli alvei cavi
del legno i tuoi modi
sorgono, che il vento disciolse.
Dicevi: “lo ti leggo
nel cuore. Non mi ami.
Tu pensi che è l’ultima volta!”.
La bocca riveggo
un poco appassita. “Non m’ami.
E’ l’ultima volta.
Ma, prima che tu m’abbandoni
il vóto s’adempia.
Oh, fa che sul cuore io ti manchi!
Tu non mi perdoni
se già su la tempia
baciata i capelli son bianchi?”
Guardai que’ capelli,
su quel collo pallido i segni
degli anni; e ti dissi: “Ma taci!
Io t’amo”. I tuoi belli
occhi erano pregni
di lacrime sotto i miei baci.
“M’inganni, m ‘inganni”
rispondevi tu, le mie mani
baciando. “Che importa?
Io so che m’inganni;
ma forge domani
tu m’amerai morta.”
Profondo era il cielo
del letto; ed il letto profondo
come tomba, oscuro.
Era senza velo
il corpo; e nel letto profondo
pareva già impuro.
Vidi per l’aperto
balcone un paese
lontano solcato da un fiume
volubile, chiuso da un serto
di rupi che accese
ardeano d’un lume
vermiglio, nel giorno
estivo; ed i v’ènti
recavano odori
degli orti remoti ove in torno
andavano donne possenti
cantando tra cupidi fiori.
Invito alla fedeltà
Ed egli le diceva
sorridendo (sul viso
in ombra era un sorriso
ambiguo), le diceva:
– A che, dopo tanti anni,
rompere la catena?
Giova l’antica pena –
mutar con nuovi affanni?
Nulla forse per noi
sarebbe nuovo, o amica.
La tenerezza antica
ha pur gli incanti suoi.
Per l’amor che rimane
e a la vita resiste,
nulla è più dolce e triste
de le cose lontane.
Il nostro amor sia come
un pomeriggio lento.
Ne l’aria senza vento
fluiscon le tue chiome,
che già folte di rose
ondeggiarono al sole.
La mia mano viole
su la tua tempia pose;
e, quando tra i miei fiori
la tua fronte si china,
il cuor tutti indovina
gli occulti tuoi dolori.
Non ti parlo. Conosco
l’ombra del tedio e certe
stanchezze, e il peso inerte
de la carne, ed il fosco
nembo che tiene oppressa
l’anima per interi
giorni, senza pensieri,
senza sogni: ahi, la stessa
mia pena! E, se talvolta
parlo, so che lontano
il tuo cuore o che in vano
io ti ripeto: “Ascolta”.
Ma a che, dopo tanti anni,
rompere la catena?
Giova l’antica pena
mutar con nuovi affanni?
Amare, amare ancóra
come amammo, ancor dire
quelle parole, udire
quelle parole, e l’ora
attendere con quelle
ansie, e alternar quei gesti
bassi con quei celesti
sospiri, e da le stelle
a le rose quei sogni
tessere, e avere al fine
quei disgusti, e il confine
già conosciuto d’ogni
senso giungere… Vuoi
tu ritentar la sorte?
Nulla, fuor che la morte,
sarà nuovo per noi.
Siamo dunque fedeli
al nostro antico amore!
Tutti del tuo pudore
son lacerati i veli;
e nessuna carezza
t’è più ignota, nessuna.
Al sole ed a la luna
salì la nostra ebrezza.
Ma pur, talvolta, quale
profondo incanto è in questa
desolata foresta
di ricordi, ove sale
il nostro sogno lento:
più lento che leggiere
fumo da l’incensiere
in aria senza vento.
Siamo dunque fedeli
poi che tanto ridemmo,
poi che tanto piangemmo
sotto immutati cieli!
Per l’amor che rimane
e a la vita resiste,
nulla è più dolce e triste
de le cose lontane.
Ed io le amo lontane
ne’ tuoi occhi velati
come in laghi velati
apparenze lontane.
E tu, lascerai tu
dunque ne l’abbandono
le cose che non sono
più, che non sono più!
Vas mysterii
A la donna andò, vinta dal
potere occulto del sogno…
Ella piange da ieri il suo defunto
amore. Al fine, o giusta morte, è sola!
Ed ella piega il suo volto consunto,
senza parola.
Sta la parola nel suo cor profondo.
(Nessuno scioglierà quel dolor muto.)
Il suono de la sua voce nel mondo
è sconosciuto.
E piega ella il suo volto doloroso
e piange ella ne l’anima immortale
il suo defunto amore. Oh luminoso
il funerale!
Da ieri son tutti i miei sogni accesi
come torce, d’innanzi a le sue porte;
però che troppo lungamente attesi
io questa morte.
Se il mio potere occulto al fin la induce
a sollevare il volto sibillino,
ella pensa: – Che è mai questa luce?
Forse il mattino? –
A quando a quando pe ‘l gran vento rotte
le fiamme attingono i veroni foschi;
ed ella pensa: – Chi mai ne la notte
incendia i boschi? –
(Tutti arderei, Citera, i tuoi felici
boschi di mirti, sol per rallegrarla!)
Ella pensa, temendo i malefici:
– Chi è che parla? –
Udendo nel suo cor la voce oscura
che vi trasfonde la fatal mia brama,
ella pensa con sùbita paura:
– Chi è che chiama? –
E surge; e viene su la soglia. Cede
il pallor de la morte al suo pallore.
Fuor de la nera tunica il suo piede
è come un fiore.
Come un fiore scolpito ne l’istessa
pietra di quella soglia resta immoto.
Ma in vano ella ripugna. Ella è promessa
al letto ignoto.
Lei trarrà da la soglia il mio potere
occulto, come il turbo svelle un giglio.
Per la sua guancia è pronto un origliere
tutto vermiglio.
Ed ella incederà tra i luminari
meravigliosi, per giardini immensi.
Quasi alata, verrà senza calzari
sopra gli incensi.
Salirà l’alta scala, entrerà sola
ne l’alta stanza, andrà verso il mio letto
come verso una tomba. E sola, e sola
al mio conspetto,
sola come nessuna creatura
al mondo mai fu sola (dentro i neri
occhi ella avrà la sua favola oscura,
tutti i misteri),
attenderà silenziosamente
il fato. – Non sei tu, divina, l’urna
del Silenzio? La tua bocca è un’algente
rosa notturna.
Io non trarrò da la tua bocca mai
una parola un gemito un sospiro.
Ma questa notte al men tu mi darai
il tuo respiro.
Il mio letto è una tomba, o taciturna.
Tutto è profondo nel profondo impero
del sogno. Apriti al fine, o tu che l’urna
sei del Mistero! –
Psiche giacente
Da Burne-Jones.
Su ‘l ciglio del marmoreo bacino,
che i misteri de l’acqua in sé racchiude,
la vergine giacente un suo divino
sonno compone; e de le braccia ignude,
mentre i sogni dal cuor salgono al dolce
murmure, il bel chiomato capo folce,
bionda sotto il grande arco cristallino.
Piegasi in arco l’acqua che una bocca
marmorea da l’alto muro esprime;
ma il ceruleo curvo stel non tocca
la chioma de la vergine sublime
né il breve piede che Atalanta invidia.
Sale per lei baciare, con insidia
lenta, al margine l’acqua; e non trabocca.
Sta quasi in una armoniosa cuna
Psiche. Il liquido stel che si rinnova
frangendosi ha tal suono cui nessuna
voce eguaglia in dolcezza. E par si muova
dal respir de l’immota quel sovrano
ritmo che seguon pur nel ciel lontano
le stelle rifiorendo ad una ad una.
Nel silenzio la musica diffonde
pel gran palagio un lento incantamento.
Dai fastigi a le sedi più profonde
tutto vive ed ascolta. Solo il vento
a quando a quando languido sospira
inebriato da gli odor che aspira
tra le rose di Cipri ove s’asconde.
Anelando morire ne’ capelli
divini, si protendono le rose:
protendon, mal frenate da i cancelli,
le umide bocche lor voluttuose.
Vive, come di carne, palpitanti,
anelano. Chi viene in questi incanti?
Par che più dolce l’acqua ora favelli.
Vien per l’ombra furtivo il giovinetto
ignoto: Amore. Ed è la prima sera.
Par che tutta nel suo profondo petto
l’ansia diffusa ne la primavera
de la terra e del cielo si raccolga,
mentre ei s’inclina. – O zona, ch’ei ti sciolga!
O rose, non vi dolga essergli letto!
Acque, cantate il carme nuziale!
L’alta vergine ignora il suo destino
mentre tende le braccia a l’Immortale,
bionda sotto il grande arco cristallino.
Voi, rose, offritevi a la man che appresta
il letto, empite quella man funesta
CHE ACCENDERÀ LA LAMPADA FATALE!
La napea
Lentamente dai cieli il Giorno inclina
come stanco dei troppo lungo ardore,
acceso avendo l’intimo sapore
in quei frutti che sola una divina
mano dai rami penduli ne l’ore
notturne coglierà, su la collina
irrigata, di quasi feminina
forma, ove dura un qualche antico amore.
Lentamente la curva ombra si stende
giù pe ‘l declivo; e giunge, d’orto in orto,
insino a un golfo che de’ raggi estremi
ampio e falcato in lontananza splende:
ove già fu, nel tempo antico, un porto
che forse contenea mille triremi.
La naiade
Pullula ne l’opaco bosco e lene
tremula e si dilata in suoi leggeri
cerchi l’acqua; ed or vela i suoi misteri,
ora per tutte le sue chiare vene
ha un brivido scoprendo all’imo arene
nuziali ove ancor restano intieri
i vestigi dei corpi che in piaceri
d’amor commisti riguardò Selene.
Morta è Selene; morte son le Argire;
i talami, deserti; nel sovrano
silenzio de la notte l’acqua tace;
ma pur sembrami a quando a quando udire
il gorgoglio di un’urna che una mano
invisibile affonda in quella pace.
La donna del sarcofago
Da un prerafaelita
La donna in attitudine regale
sopra il grande sarcofago romano
assisa – ov’è scolpita, opra di mano
mirabile, una pompa funerale –
aspetta forse l’Edipo fatale
che disciolga l’enigma sovrumano?
o la sorella Morte che il profano
sogno chiuda nel marmo sepolcrale?
La sua bocca non dice il suo pensiero.
Chi suggerà da la sanguigna polpa
di quel frutto l’essenza del mistero?
Aspetta. E ne’ profondi occhi impudichi,
ombrati già da la futura colpa,
trapassano ombre di delitti antichi.
La statua
Chi scenderà da l’alta scala ai cigni
aspettanti? Protendono silenti
i lunghi colli, ad ora ad ora; e intenti
riguatano dai neri occhi ferigni.
Chiusa l’acqua nel cerchio dei macigni
muscosi ride ai bianchi solchi lenti.
Una statua, memore d’assenti
numi, grandeggia fra i cipressi insigni.
Qual mistero dal gesto d’una grande
statua solitaria in un giardino
silenzioso al vespero si spande!
Manca il sole; ma il Giorno, ancóra chino
su i monti, sfoglia l’ultime ghirlande.
E il cielo è più lontano e più divino.
La statua
Il bel parco, ove un dì correa la muta
de’ veltri in caccia dietro il capriuolo,
ora tace. è- deserto. Un fonte, solo,
ne l’ombra ride e piange a muta a muta.
E piange e ride verso l’ombra muta
ove un dì poetava l’usignuolo.
E v’è, senza letizia e senza duolo,
la statua dal gesto che non muta.
E v’è (però che l’anima risponda
sempre a le cose) e v’è qualcuno ancóra,
solo, che piange verso un’ombra muta.
E su quest’uno, che a la sua profonda
pena un respiro vanamente implora,
sta forse un altro gesto che non muta.
La statua
Le statue solinghe, nel cui volto
lapideo talora il mio pensiero
vidi pensando ed il mio sogno vero
talora negli inerti occhi raccolto,
lentamente dileguano nel folto
de le nobili selve ov’hanno impero;
né più le cerco io quivi, poi che spero
solo nel marmo in cui sarò sepolto.
Ma non copra marmo umile la cava
tomba, sì ben vi segga una sovrana
forma de l’Arte. Questo m’è ne’ vóti:
– dormire nel sepolcro su cui grava
la massa colossale e sovrumana
de la tua figlia Notte, o Buonarroti!
Romanza della donna velata
Chi dunque ne la mia memoria oscura
susciterà quel duplice ricordo?
Una musica e un sogno. (E una figura
di donna?) Oh, ch’io ritrovi il primo accordo
e rivivrà la dolce creatura,
ed il sogno con lei, nel mio ricordo;
e l’una e l’altro non morranno più.
Ma quale fu la musica? Ma quale
fu il sogno? Ma qual era il vostro viso,
donna velata? Il giorno era autunnale
(mi sovviene del giorno, all’improvviso!)
ed il sole era come un grande opale
in un ciel così bianco che un sorriso
di piena l’una non è forse più.
D’altro ancor mi sovviene. Giungea piano
a me il suono, fin là su la ringhiera;
e pareami venisse di lontano.
Ai penduli rosai qualche leggera
aura facea, ne le pause, uno strano
bisbiglio. Ed anche quella musica era
dolce; ma non so quale fosse più.
Profondavasi innanzi una contrada
nobile e calma; e un fiume la partiva
lento, che mettea foce in una rada
cerula. E Il fiume lungi m’appariva
nel diffuso vapor come la spada
appannato da l’alito; o spariva
subitamente, non luceva più.
D’altro ancor mi sovviene. Se talora
io mi volgeva, senza sollevare
le tende ove languia l’onda sonora,
io scorgeva a traverso quelle rare
trame confusamente la signora
misteriosa e vago luccicare
il cembalo ne l’ombra, e nulla più.
La musica fluiva, nel sovrano
incanto di quel giorno moribondo,
con tal dolcezza che il mio cuore umano
non la sostenne. Ed un oblìo profondo
de la vita mi trasse in un lontano
mondo. Ah perché di quel lontano mondo,
anima mia, non ti sovviene più?
Le mani
Le mani de le donne che incontrammo
una volta, e nel sogno, e ne la vita:
oh quelle mani, Anima, quelle dita
che stringemmo una volta, che sfiorammo
con le labbra, e nel sogno, e ne la vita!
Fredde tal’une, fredde come cose
morte, di gelo (tutto era perduto);
o tepide, e parean come un velluto
che vivesse, parean come le rose:
– rose di qual giardino sconosciuto? –
Ci lasciaron tal’une una fragranza
così tenace che per una intera
notte avemmo nel cuor la primavera;
e tanto auliva la solinga stanza
che foresta d’april non più dolce era.
Da altre, cui forse ardeva il fuoco estremo
d’uno spirto (ove sei, piccola mano,
intangibile omai, che troppo piano
strinsi?), venne il rammarico supremo:
– Tu che m’avresti amato, e non in vano!
Da altre venne il desìo, quel violento
fulmineo desìo che ci percote
come una sferza; e imaginammo ignote
lussurie in un’alcova, un morir lento:
– per quella bocca aver le vene vuote!
Altre (o le stesse?) furono omicide:
meravigliose nel tramar l’inganno,
Tutti gli odor d’Arabia non potranno
addolcirle. – Bellissime ed infide,
quanti per voi baciare periranno! –
Altre (o le stesse?), mani alabastrine,
ma più possenti di qualunque spira,
ci diedero un furor geloso, un’ira
folle; e pensammo di mozzarle al file.
(Nel sogno sta la mutilata, e attira.
Nel sogno immobilmente eretta vive,
l’atroce donna da le mani mozze.
E innanzi a lei rosseggiano due pozze
di sangue, e le mani entro ancóra vive
sonvi, neppure d’una stilla sozze.)
Ma ben, pari a le mani di Maria,
altre furono come le ostie sante.
Brillò su l’anulare il diamante
ne’ gesti gravi de la liturgia?
E non mai tra’ capelli d’un amante.
Altre, quasi virili, che stringemmo
forte e a lungo, da noi ogni paura
fugarono, ogni passione oscura;
e anelammo a la Gloria, e in noi vedemmo
illuminarsi l’opera futura.
Altre ancóra ci diedero un profondo
brivido, quello che non ha l’uguale.
Noi sentimmo, così, che ne la frale
palma chiuder potevano esse un mondo
immenso, e tutto il Bene e tutto il Male:
Anima, e tutto il Bene e tutto il Male.
Pamphila
Poi che nessuno amore umano appaga
l’artefice superbo che non soffre
ombra straniera su la sua conquista;
poi che la donna è impura e la sua piaga
eterna; poi che nessun cielo m’offre
ancóra quella che non fu mai vista;
oggi il potere occulto del mio sogno
evoca pel disgusto mio supremo
quella che fu da tutti posseduta
nel suo letto sul trivio ove il bisogno
immondo trasse gli uomini del remo,
i soldati ebri, una turba sconosciuta:
quella che fu dei principi e dei duchi
nel suo letto d’argento, e il suo veleno
letale infuse nel più ricco sangue,
e il suo pallore colorì di fuchi
preziosi e coprì di gemme il seno
e d’anelli gravò la mano esangue:
da tutti posseduta, dal mendico
e dal sire, coperta di carezze
immemorabili, ultima tua prole,
Elena, ancóra del mistero antico
circonfusa per me le sue bellezze
che vide Il’io risplendere nel sole!
Quella amerò. Ne le sue membra impure
io coglierò tutto il desìo terreno,
conoscerò tutto l’amor del mondo;
negli occhi suoi nembi di cose oscure
inseguirò; udrò sotto il suo seno
arido battere il suo cor profondo;
bacerò le sue mani, le sue mani
esperte che toccarono il lanoso
mento al pilota reduce da mari
sconosciuti e solcarono con piani
gesti i capelli al giovine pensoso
mentre errava pe’ grandi interlunari
silenzi in sogno l’anima smarrita;
bacerò le sue mani in cui gli unguenti
creato avranno un soprannaturale
candore, tra le cui musiche dita
forse in antico risonò pe’ v’ènti
lesbìaci una lira sul natale
Egèo dove i rosai di Mitilene
aulivan cari a le segrete amiche
di Saffo da la chioma di viola;
bacerò ne’ suoi polsi le sue vene
più azzurre; da le sue labbra impudiche
muto trarrò la cupida parola
più lasciva del bacio; tutti i nomi
più dolci e ardenti apprenderò che ai mille
amanti ella avrà dati in un sospiro
o in un grido; berrò tutti gli aromi
de le foreste più remote, a stille,
infusi nel suo liquido respiro;
negli occhi suoi nembi di cose oscure
inseguirò; udrò sotto il suo seno
arido battere il suo cor profondo.
E l’amerò! Ne le sue membra impure
io coglierò tutto il desìo terreno,
conoscerò tutto l’amor del mondo.
Hortulus Animae
E questa guerra mai non è finita.
DOMENICO CAVALCA
Merzé merzé merzé del mio tormento!
MATTEO FRESCOBALDI
Fo novo consiglio
di non più amare.
BONACCORSO DA MONTEMAGNO
Hortulus Animae
Anima, lungi queste cose orrende!
Ti sieno cari gli umili sentieri
ove nel lungo oblìo l’erba germoglia.
Una pace verrà ne’ tuoi pensieri
nuova, e da te cadrà l’antica spoglia
come cade da l’albero la foglia
arida. E lungi queste cose orrende!
Ti sieno cari i vecchi lauri ancóra
che soffrono l’obrio tristi e selvaggi.
Forse aspettano. A lor la dolce suora
forse recò que’ tuoi buoni messaggi.
Ritroverai ne l’ombra amica i saggi,
consigli. E lungi queste cose orrende!
Ai lauri
Lauri, che ne la grande ombra severa
accoglieste il pensoso adolescente,
parlatemi di lui, la prima sera.
Parlatemi di lui benignamente
vecchi lauri, però ch’egli forse ode;
però ch’egli è lontano e pur presente.
Quanto v’amava il giovine custode!
E quante volte a la sua fronte amica
tendeste i rami in ascoltar la lode!
Egli leggea quel libro ove pudica
l’Anima geme, lacrima e desìa
chiusa nel velo d’una Grazia antica.
Lento d’intorno il bel giardin salìa
fiorendo, come un sogno dal cuor sale;
rigato da la pura melodìa,
in una luce insolita spirtale
che non era del cielo ma sul mondo
effusa da la pagina immortale.
O lauri, io son colui. Non più m’ascondo.
Io son colui che lesse il libro e vide
quella luce e gioì nel cor profondo.
Tutto è perduto? Il raggio ultimo irride
nel gran bacino l’acqua putre e scarsa;
il paone su l’alto muro stride;
tra la gramigna livida e riarsa
giacciono spenti i cari iddii del loco…
Ogni divinità dunque è scomparsa?
Sol giunge suono di campane fioco.
A qual dolore l’onda pia si frange!
L’ombra invade una casa a poco a poco,
la triste casa ove mia madre piange.
Consol’azione
Non pianger più. Torna il diletto figlio
a la tua casa. E’ stanco di mentire.
Vieni, usciamo. Tempo è di rifiorire.
Troppo sei bianca: il volto è quasi un giglio.
Vieni; usciamo. Il giardino abbandonato
serba ancóra per noi qualche sentiero.
Ti dirò come sia dolce il mistero
che vela certe cose del passato.
Ancóra qualche rosa è ne’ rosai,
ancóra qualche timida erba odora.
Ne l’abbandono il caro luogo ancóra
sorriderà, se tu sorriderai.
Ti dirò come sia dolce il sorriso
di certe cose che l’oblìo afflisse.
Che proveresti tu se ti fiorisse
la terra sotto i piedi, all’improvviso?
Tanto accadrà, ben che non sia d’aprile.
Usciamo. Non coprirti il capo. E’ un lento
sol di settembre, e ancor non vedo argento
su ‘l tuo capo, e la riga è ancor sottile.
Perché ti neghi con lo sguardo stanco?
La madre fa quel che il buon figlio vuole.
Bisogna che tu prenda un po’ di sole,
un po’ di sole su quel viso bianco.
Bisogna che tu sia forte; bisogna
che tu non pensi a le cattive cose…
Se noi andiamo verso quelle orse,
io parlo piano, l’anima tua sogna.
Sogna, sogna, mia cara anima! Tutto,
tutto sarà come al tempo lontano.
Io metterò ne la tua pura mano
tutto il mio cuore. Nulla è ancor distrutto.
Sogna, sogna! Io vivrò de la tua vita.
In una vita semplice e profonda
io rivivrò. La lieve ostia che monda
io la riceverò da le tue dita.
Sogna, ché il tempo di sognare è giunto.
lo parlo. Di’: l’anima tua m’intende?
Vedi? Ne l’aria fluttua e s’accende
quasi il fantasma d’un april defunto.
Settembre (di’: l’anima tua m’ascolta?)
ha ne l’odore suo, nel suo pallore,
non so, quasi l’odore ed il pallore
di qualche primavera dissepolta.
Sogniamo, poi ch’è tempo di sognare.
Sorridiamo. E la nostra primavera,
questa. A casa, più tardi, verso sera,
vo’ riaprire il cembalo e sonare.
Quanto ha dormito, il cembalo! Mancava,
allora, qualche corda; qualche corda
ancóra manca. E l’ebano ricorda
le lunghe dita ceree de l’ava.
Mentre che fra le tende scolorate
vagherà qualche odore delicato,
(m’odi tu?) qualche cosa come un fiato
debole di viole un po’ passate,
sonerò qualche vecchia aria di danza,
assai vecchia, assai nobile, anche un poco
triste; e il suon sarà velato, fioco,
quasi venisse da quell’altra stanza.
Poi per te sola io vo’ comporre un canto
che ti raccolga come in una cuna,
sopra un antico metro, ma con una
grazia che sia vaga e negletta alquanto.
Tutto sarà come al tempo lontano.
L’anima sarà semplice com’era;
e a te verrà, quando vorrai, leggera
come vien l’acqua al cavo de la mano.
L’inganno
No, non soffro. Se sono taciturno,
la sera, quando mi ti seggo ai piedi
(oh il terrore del prossimo notturno
supplizio in quel gran letto bianco!), credi,
è perché meglio l’anima assapora
questa tranquillità deliziosa
(giorno e notte un pensiero mi divora
l’anima, senza posa, senza posa),
questa tranquillità che mi circonda
d’un gaudio troppo, forse, inconsueto.
(Fate, Signore, fate ch’io nasconda
per sempre il mio terribile segreto!)
Oh questa gran rinunzia e quest’oblìo
di tutto, ai piedi tuoi! Sii benedetta.
(L’anima non avrà giammai l’oblìo,
giammai l’oblìo, giammai.) Sii benedetta.
Un ricordo
Ella teneva a terra gli occhi fissi.
Nel silenzio incredibile i minuti
pareano aprire smisurati abissi.
Oh se per sempre, sotto un improvviso
colpo, fossimo noi rimasti muti!
Lenta mi sollevò quelli occhi al viso.
Ancóra la convulsa bocca esangue
vedo. Le prime sue parole, rare,
cadono come gocciole di sangue
da piaga che incominci a sanguinare.
Un ricordo
Forse quelli occhi sovrumani, apparsi
come due fari all’anima perduta,
io vedrò ne l’oblìo lento oscurarsi.
Di te mi scorderò forse, caduta
negli abissi del Tempo ora fatale
in cui bevvi l’ebrezza sconosciuta.
Immemore sarò forse del male
che mi faceste, o uomini, del bene
che mi faceste, e d’ogni altra mortale
cosa; ma non di voi per quelle arene
lùgubri sotto quel tumultuoso
cielo femmine urlanti come iene.
Urlavan esse contro il gran maroso,
vincendo il mugghio; urlavan ne la notte,
invisibili, senza mai riposo.
E tra le grida lor non interrotte
udiansi a quando a quando acuti stridi
d’uccelli che volavan basso a frotte.
Atterriva il clamore tutti i lidi.
Verso quale naufragio urlavan esse?
Ne la notte le udii ma non le vidi.
Cadevan da la cupa nube spesse
gocce, tiepide come sangue o come
lacrime. E mi parea che ripetesse
dietro a me quel clamore un nome, un nome!
Un sogno
lo non odo i miei passi nel viale
muto per ove il Sogno mi conduce.
E’ l’ora del silenzio e de la luce.
Un velario di perle è il cielo, eguale.
Attingono i cipressi con oscure
punte quel cielo: immoti, senza pianto;
ma sono tristi, ma non sono tanto
tristi i cipressi de le sepolture.
Il paese d’in torno è sconosciuto,
quasi informe, abitato da un mistero
antichissimo, dove il mio pensiero
si perde, andando pe ‘l viale muto.
Io non odo i miei passi. Io sono come
un’ombra; il mio dolore è come un’ombra;
è tutta la mia vita come un’ombra
vaga, incerta, indistinta, senza nome.
Un sogno
Era morta, era fredda. La ferita
era a pena visibile, in un fianco:
piccolo varco per sì grande vita!
Il lenzuolo pareva assai men bianco
del cadavere. Mai nessuna cosa
vedran gli occhi più bianca di quel bianco.
Fiammeggiava l’estate impetuosa
ai vetri; e insetti che pareano enormi
facean ne l’afa un rombo, senza posa.
Ella era fredda. Io le dicea: – Ma dormi? –
Con un sorriso stupido ed atroce
io ripetea, da presso: – Dormi? Dormi?
Dormi? – E il pensier che quella rauca voce
non fosse mia, mi strinse di paura.
Ascoltai. Non si udì fiato né voce.
Parevano di fiamma quelle mura.
In quell’afa un odor sempre più forte
saliva, come in una sepoltura.
L’invincibile odore de la morte
mi soffocava. E bene, io soffocai.
Io stesso chiuso avea finestre e porte.
– Dormi? Dormi? – Ella non rispose mai.
Il lenzuolo parea di lei men bianco.
Su la terra nessuna cosa mai
vedran gli occhi più bianca di quel bianco.
Un ricordo
Io non sapea qual fosse il mio malore
né dove andassi. Era uno strano giorno.
Oh, il giorno tanto pallido era in, torno,
pallido tanto che facea stupore.
Non mi sovviene che di uno stupore
immenso che quella pianura in torno
mi facea, così pallida in quel giorno,
e muta, e ignota come il mio malore.
Non mi sovviene che d’un infinito
silenzio, dove un palpitare solo,
debole, oh tanto debole, si udiva.
Poi, veramente, nulla più si udiva.
D’altro non mi sovviene. Eravi un solo
essere, un solo; e il resto era infinito.
La buona voce
Sei solo. D’altro più non ti sovviene.
E d’altro più non ti sovvenga mai!
Sul tuo cuore fluisca l’oblìo lene.
Ti sien dolci questi umili sentieri.
Ancóra qualche rosa è ne’ rosai.
Sarà domani quel che non fu ieri.
Domani prenderà novo coraggio
e nova forza l’anima che teme.
A la prima rugiada, al primo raggio
non s’alza l’erba che il tuo piede preme?
L’erba
Erba che il piede preme, o creatura
umile de la terra, tu che nasci
ovunque, in fili tenui ed in fasci,
e da la gleba e da la fenditura,
e sempre viva attendi la futura
primavera nei geli orridi, e pasci
l’armento innumerevole, e rinasci,
pur sempre viva dopo mietitura,
erba immortale, o tu che il piede preme,
io so d’un uomo che gittò nel mondo
un seme come il tuo dolce e tenace;
e nulla può distruggere quel seme…
– Pensa l’Anima un carcere profondo
ove l’erba germoglia umile in pace.
O rus!
Sotto il ciel iacintino i paschi irrigui
che il sol traversa di sue lunghe bande
mentre ai limiti cerula si spande
l’ombra che tiene i gran boschi contigui;
e i latifondi ove la zolla grassa
riluce a specchio sotto la tagliente
vanga o rosseggia franta dal bidente
seguace dietro il vomere che passa;
e i frutteti ove tarda maturando
la sorba s’empie d’un pastoso miele
e rubiconde piombano le mele
giù dal ramo gravato, a quando a quando;
e i casolari sparsi, i bianchi fumi
sparsi – dentro, la pentola che bolle:
canta la nuora su le sue cipolle
e la suocera sceglie i suoi legumi – ;
e le vie chiare andanti tra due fossi
ove a la luna gracidò la rana
estiva ed or la pigra acqua piovana
rispecchia i salci in fila e gialli e rossi;
e la ripa di pioppi mormorante
ove fischia col merlo a la prim’alba
il fanciul che v’abbevera la falba
e bianca maculata ruminante;
e la montagna al fondo, nel cui grembo,
come il bracco se torna da la caccia
stanco, il nugolo bigio s’accovaccia
cheto aspettando il sibilo del nembo;
e l’aria che s’indora e si colora,
fumigando le glebe umide sotto
la forza; e l’aria sana che del ghiotto
fungo e del timo e del ginepro odora;
o antico Autunno, in qual mai tempo e dove
m’erano queste cose godimento
sommo? in qual tempo, dove, se a me intento
queste cose oggi paiono sì nuove?
Non cerca oggi il mio spirito l’occulto
simbolo al suo dolor laborioso,
ma attonito si placa in un riposo
profondo, quasi in un divino indulto.
Datemi i frutti succulenti, i buoni
frutti de la mia terra, ch’io li morda.
Ah forsennato chi non si ricorda
di te, Madre, e de’ tuoi semplici doni!
Datemi il fresco latte, ch’io lo beva
a larghi sorsi. Per le vene irriguo
mi scenda come allor che ne l’esiguo
petto al roseo pargolo scendeva
da l’adusta nutrice; ed io ne senta
fluire tutta in sino al cor profonda
la freschezza aromale. Qual più abonda,
il timo in questi pascoli o la menta?
Non tanto a la stagion del miele odora
forse ne l’arnia il favo quanto, appena
munto, il latte che schiuma ne la piena
tazza dove la bocca lo disfiora.
Scroscia il getto vivace da la gonfia
mamma premuta con vigore esperto.
S’arresta come attonita e con erto
il collo occhieggia la gallina tronfia
che razzolava nel recente fimo.
Placida la mammifera premuta
volge le froge a quando a quando; e fiuta
sentendo la sua menta ed il suo timo.
Le foreste
Foreste bionde come donne bionde,
e taciturne, verso i grandi cieli
sognano, ove la nuvola diffonde
lenta i suoi veli;
bionde con un pallor roseo, quale
vide il Correggio, a Acrisio, il tuo tesoro:
Danae vinta da la gioviale
nuvola d’oro;
e taciturne, ma con un respiro
voluttuoso come di chi, gode
il sonno primo, – e pur qualche sospiro
fievole s’ode
ne l’aria vaporata ch’è si morta
che non da ramo foglia al suolo cade,
si che varcata sembrami la porta
aver de l’Ade.
Alto silenzio in un oblio profondo
come ne l’Ade ove discese Orfeo.
Abbraccia le foreste l’errabondo
fiume leteo.
Circonfuse d’oblìo le solitarie
dormono lungo i piani e su pe’ monti;
sognano. Splende l’arida cesarie
d’oro ai tramonti.
Splende come non mai qual per segreti
prestigi; e pare che l’incendio irrompa
e si propaghi. Guardano i poeti
l’ultima pompa.
Guardan l’ultima volta fiammeggiare
divinamente ai monti e a le pianure,
muti, le sacre al vento aquilonare
capellature:
muti: e un divino amor l’Anima pensa.
– Or che è mai la fiamma d’altre chiome?
O tu, bionda foresta, amante immensa
e senza nome,
o tu che sogni verso i grandi cieli,
tu che il fiume invisibile circonda
di antico oblìo; la nube di suoi veli
come te bionda,
foresta, accogli il nostro amor supremo,
tu che non sai! Troppo è di noi più forte
la vita. Ora chiediamo a te l’estremo
sonno, la morte.
Ma non l’opaca morte ne le bare
sterili; ben, la pace in che tu sogni
verso i cieli: dormir teco, sognare
tutti i tuoi sogni. –
Non giunge a le dormenti il van desìo
foreste bionde come donne bionde.
Invisibile il fiume de l’oblio
le circonfonde
sole; e i poeti, soli, impallidire
guardan le chiome verso i cieli spenti.
Oh chiome armoniose come lire,
promesse ai v’ènti!
Cade su tutte l’ombra. Ora (ascoltate)
or piangon ne la sera umida, belle
e dolci come amanti abbandonate,
sotto le stelle.
Le tristezze ignote
E sia pace al defunto.
Ma che soave odore!
Autunno, già nei vasi
fioriscon le viole!
Ed ecco, al fine, il sole
sul davanzale è giunto.
Tra le mie dita, quasi
ha il liquido tepore
del latte appena munto.
Sia pace a chi sofferse.
Oggi tutto è pacato.
Io non son triste, quasi.
Penso a tristezze ignote,
d’anime assai remote,
ne la vita disperse.
Io non son triste, quasi.
Oggi tutto è pacato.
Sia pace a chi sofferse.
Le suore, a le finestre
del convento, sul fiume
guardan passar le barche:
guardano mute e sole,
mute e digiune, al sole.
Giungono a le finestre
(come tarde le barche!)
un odor di bitume,
un odore silvestre.
I prigionieri assale
un’ansia: falci lente
falciano l’erba nuova,
a la prigione intorno.
Gli infermi (inclina il giorno),
pallidi sul guanciale,
ascoltano la piova
battere dolcemente
l’orto de l’ospedale.
L’incurabile
Bianco è il letto, che fu già nuziale,
ove giace l’infermo sopra un fianco.
Ed il volto di lui non è men bianco,
forse; che si profonda nel guanciale,
appesantito d’un peso mortale.
E non mai volto d’uomo fu più stanco.
Un braccio fuori del lenzuolo posa:
ed è immobile. Ed è prona la mano.
Come tutta si svela in quella mano
l’inesprimibile anima affannosa!
Non è forse nel mondo alcuna cosa
più triste. E’ là tutto il dolore umano.
Anche un libro, da presso, è sul lenzuolo:
chiuso: che forse non riapriranno
quelle dita però che a quell’affanno
non v’è conforto, o v’è un conforto solo.
Ed una suora, muta nel soggolo,
è a piè del letto. E l’ore lente vanno.
A piè del letto vedovo la mite
donna sceglie legumi, paziente.
Ella non soffre. Continuamente
quante d’innanzi a lei passano vite!
Ella muove le labbra scolorite
ne la preghiera continuamente.
Silenzio. La finestra è aperta un poco
sopra l’orto. Silenzio. Entra talora
un soffio subitaneo che sfiora
il letto. Un suono di campane fioco
giunge. Silenzio immenso. A poco a poco
il cielo, ch’era argenteo, s’indora.
Bianco è il letto, che fu già nuziale,
ove giace l’infermo sopra un fianco.
Ed il volto di lui non è men bianco,
forse; che si profonda nel guanciale,
appesantito d’un peso mortale.
E non mai volto d’uomo fu più stanco.
Ma perché quest’immagine t’assale,
Anima? Che tristezza oggi t’assale?
Un verso
E colei che non dorme è mia sorella.
FRANCESCO VANNOZZO
Solo ne la memoria oggi mi canta
unico il verso d’un poeta antico
quasi obliato; che fu dolce amico
al Petrarca nel tempo ch’ei patìa
l’ontosa guerra da l’Amor nemico;
quasi obliato; cui Marsilio vanta
sovran maestro d’ogni melodia.
“A vo’, gentil Francesco di Vannozzo,
sovran maestro d’ogni melodia.”
Solo e misterioso oggi risale
quel verso da la mia melancolìa.
Solo e misterioso il musicale
spirito il mio pensiero ha in signoria;
ha tutta in signoria l’anima mia
ch’è insonne e che si pasce del suo male
ne la notte infinita ove l’appella
vanamente una voce siderale.
“E colei che non dorme è mia sorella.”
Non d’altro verso né d’altre parole
mi sovviene. lo non so altro pensiero
di quell’antico, né so altra imago,
né so dolore alcun di quella vita
da si lontano secolo vanita
ne l’oblio. Ma che può dunque il mistero
d’un sol verso? Qual muove desìo vago
ne l’anima ch’è insonne e che si duole
vanamente in sue chiuse notti sole?
“E colei che non dorme è mia sorella.”
Suspiria de profundis
I.
Chi finalmente a l’origliere il sonno
può ricondurmi? Chi mi dà riposo?
Voi, care mani, voi che ne la morte
mi chiuderete gli occhi senza luce
(io non vedrò quel gesto ultimo, o Dio!),
voi non potete, voi, farmi dormire?
Oh dolce, ne la notte alta, dormire!
Oh dolce, nel profondo letto, il sonno!
Che mai feci, che mai feci, mio Dio?
Perché mi neghi tu questo riposo
ch’io ti chieggo? Rinuncio, ecco, a la luce.
Ben, io sia cieco. Io m’offro, ecco, a la morte.
Venga e mi prenda la gelata morte
ne le sue braccia. Io m’offro a lei. Dormire
ne le sue braccia, non veder più luce,
chiuder per sempre gli occhi aridi al sonno!
Ah perché, dunque, tu questo riposo
vorrai negarmi? Che mai feci, o Dio?
– In vano, in vano! E’ il tuo, misero, un dio
terribile. Tu chiami in van la morte.
Tu non morrai; tu non avrai riposo;
tu non potrai, tu non potrai dormire.
E’ morto il sonno, il lene amico, il sonno!
Tu non morrai. Per te sempre la luce;
per te, pur ne le tenebre, la luce;
sempre la luce. E il tuo, misero, un dio
terribile. – Me misero! Né il sonno
mi chiuderà questi occhi, né la morte…
Oh, non è vero. Fatemi dormire,
voi, care mani; datemi il riposo!
Pallide mani, datemi il riposo;
premete le mie pàlpebre! La luce
è come un dardo. Oh fatemi dormire,
pallide mani! Alzatevi al mio Dio
congiunte, e voi pregatemi la morte
se troppo è dolce al mio peccato il sonno.
Non chiedo il sonno. Io sol chiedo il riposo
de la morte; non più veder la luce
orrida; eternamente, o Dio, dormire.
II.
– Odi tu? Odi tu? Questo romore
sempre questo romore… Ascolta! Ascolta!
Forse dormi, sorella? – Dorme in pace.
E sogna. Alcun romore nel silenzio
del suo sangue non giunge. Il suo respiro
è come un flutto languido, lontano.
Vanno i suoi muti sogni assai lontano.
La notte è immensa. Cade ogni romore.
E come un flutto placido il respiro
del bianco petto; eguale. Anima, ascolta.
Ella, dormendo, genera il silenzio;
crea dal petto una lene onda di pace.
Oh memoria! Piovea dal ciel la pace
ai lidi; l’acque ardean presso e lontano;
pendea la luna sul divin silenzio;
faceano l’acque e gli alberi un romore
alterno, come di parole. – Ascolta! –
Vincea tutte le voci il suo respiro.
Movea per certo allora il suo respiro
i cerchi de le stelle in quella pace.
Ora dorme, co’ sogni. Anima, ascolta!
E’ come un flutto languido, lontano…
Ahi me! Non odi tu? Questo romore,
sempre questo romore… Ov’è il silenzio?
Oh desiderio mio lungo, oh silenzio
agognato! L’incanto del respiro
è dunque rotto? E mai questo romore
non mi darà, non mi darà mai pace?
Nessuno mai mi porterà lontano,
in fondo a un mare, in un sepolcro? Ascolta,
buona sorella: déstati ed ascolta.
Non odi tu? – Non giunge nel silenzio
del suo sangue la voce mia. Lontano
me la traggono i sogni. Ed io respiro
quest’aria ov’ella beve la sua pace!
Dunque è vero? E’ così? Questo romore
è supplizio a me solo? Anima, ascolta.
Fosse rombo di morte! Alto silenzio,
dopo ne la gelata ombra, lontano.
III.
Guardavi gli occhi miei tu, l’altra notte
ardere… Ho sete. Spengi tu la fiamma
che mi consuma; toglimi il dolore,
buona sorella; caccia questo male!
Ah, tu non puoi. Non guarirò già mai.
Apri. Ti prego: fa ch’io veda il cielo.
Come rifulge, innanzi l’alba, il cielo!
Come, nel suo morir lento, la notte
palpita! Oh come palpita! Non mai
io vidi l’Orsa rendere tal fiamma.
Hanno gli astri pietà di questo male,
alta pietà del grave uman dolore…
Io gemo dal mio letto il mio dolore.
Vago de l’alba, ride umido il cielo.
Levo io la fronte angusta, arsa dal male.
Sente l’alba ed i veli ampi la notte
agita pe’ suoi mille archi di fiamma.
O cielo, o notte, chi v’attinse mai?
Ah non io già v’udii risponder mai,
allor che su da l’anima in dolore
la preghiera sorgea come una fiamma!
Pur, muta allora mi scendea dal cielo
una promessa; e ne l’immensa notte
pareami allora piccolo il mio male.
O sorella, ben altro è questo male.
Non guarirò, non guarirò più mai.
Morissi al meno! Fosse al men la notte
ultima questa e l’ultimo dolore
questo al conspetto del soave cielo
e non m’ardesse più l’atroce fiamma!
Ah tu non sai, ah tu non sai che fiamma!
Perché mi guardi tu? Guardi tu il male
divorarmi? Io ti veggo alta su’l cielo,
simile a un giglio. Io non ti vidi mai
così pallida, mai su’l mio dolore
così pallida. Un giglio ne la notte…
Perché mi guardi? Vedi tu la fiamma
crescer ne gli occhi miei? Vedi tu il male
cangiarsi in morte? – Oh sorridente cielo!
Epilogo
… infin qui t’ho condutto
salvo (ond’io mi rallegro), benché stanco.
Francesco Petrarca
Questo novello spirito, ch’appare
dentro d’una vertù gentile e forte…
CINO DA PISTOIA
Non tragga arcier in van, se vede ‘l segno.
BINDO BONICHI
O giovinezza!
O Giovinezza, ahi me, la tua corona
su la mia fronte già quasi è sfiorita.
Premere sento il peso de la vita,
che fu si lieve, su la fronte prona.
Ma l’anima nel cor si fa più buona,
come il frutto maturo. Umile e ardita,
sa piegarsi e resistere; ferita,
non geme; assai comprende, assai perdona.
Dileguan le tue brevi ultime aurore,
o Giovinezza; tacciono le rive
poi che il tonante vortice dispare.
Odo altro suono, vedo altro bagliore.
Vedo in occhi fratelli ardere vive
lacrime, odo fratelli petti ansare.
La visione
Quasi era a mezzo il dì. Presso e lontano
il fiume sorridea come a’ belli anni.
Si placavan nel cor tutti gli affanni
per quel candore immenso cristiano.
Ed io vidi la riva del Giordano,
e splendere Gesù ne’ rossi panni
qual fiamma che s’inchina, e a lui Giovanni
sparger l’onda su ‘l capo sovrumano.
Ora, andando io così l’ungh’esso il fiume
pio (non so qual bontà muta nel sole
spirava il mondo), l’albero e l’arbusto
m’eran fratelli. E in tal beato lume
e in tal silenzio udimmo le parole:
– convien compire tutto quel che è giusto. –
L’esempio
Il veglio mi guardò, tra gli arboscelli
che di gemme coprìa la primavera.
La barba su quel petto placido era
dolce come la lana degli agnelli.
Mi guardò, mi sorrise. E i suoi capelli
erano così candidi che vera-
mente nulla più candido in torno era.
Ed in torno cantavano gli uccelli.
Seguitò per i campi. Erano vasti
i campi. A quando a quando, di lontano
io lo vedea chinarsi, rilevarsi.
Né mai restava da l’affaticarsi
per la sua via, quel veglio! E tu, mia mano,
quale forma prostrata sollevasti?
La parola
Parola che l’amor da la rotonda
bocca mi versa come unguenti e odori;
Parola che da l’odio irrompi fuori
fischiando come sasso da la fionda;
sola virtù che da la carne immonda
alzi gli spinti e inebri di fulgori;
o seme indistruttibile ne’ cuori,
Parola, o cosa mistica e profonda;
ben io so la tua specie e il tuo mistero
e la forza terribile che dentro
porti e la pia soavità che spandi;
ma fossi tu per me fiume tra i grandi
fiumi più grande, e limpido nel centro
de la Vita recassi il mio pensiero!
I poeti
Il sogno d’un passato lontano, d’una ignota
stirpe, d’una remota
favola nei Poeti luce. Ai Poeti oscuro
è il sogno del futuro.
Qual contro l’aure avverse una chioma divina,
una fiamma divina,
tal ne la vita splende
l’Anima, si distende,
in dietro effusa pende.
Ospiti fummo (O tu che m’ami: ti sovviene?
Era ne le tue vene
il Ritmo), ospiti fummo in imperi di gloria.
Nativa è la memoria
in noi, dei fiori ardenti su dai cavi alabastri
come tangibili astri,
dei misteri veduti,
degli amori goduti,
degli aromi bevuti.
In qual sera purpurea chiudemmo gli occhi? Quale
fu ne l’ora mortale
il nostro dio? Da quale portentosa ferita
esalammo la vita?
Forse dopo una strage di eroi? Sotto il profondo
ciel d’un letto profondo?
Le nostre spoglie fiera
custodì la Chimera
ne la purpurea sera.
E al risveglio improvviso dal sonno secolare
noi vedemmo raggiare
un altro cielo; udimmo altre voci, altri canti;
udimmo tutti i pianti
umani, tutti i pianti umani che la Terra
nel suo cerchio rinserra.
Udimmo tutti i vani
gemiti e gli urli insani
e le bestemmie immani.
Udimmo taciturni la querela confusa.
Ma ne l’anima chiusa
l’antichissimo sogno, che fluttuava ancòra,
ebbe una nuova aurora.
E vivemmo; e ingannammo la vita ricordando
quella morte, cantando
dei misteri veduti,
degli amori goduti,
degli aromi bevuti.
Or conviene il silenzio: alto silenzio. Oscuro
è il sogno del futuro.
Nuova morte ci attende. Ma in qual giorno supremo,
o Fato, rivivremo?
Quando i Poeti al mondo canteranno su corde
d’oro l’inno concorde:
– O voi che il sangue opprime,
Uomini, su le cime
splende l’Alba sublime!
FINE