
Il Saul di Vittorio Alfieri
28 Dicembre 2019
Giuseppe Ungaretti nomade e i suoi fiumi
28 Dicembre 2019Questo passo, tratto dal Canto XXXIII dell’Inferno di Dante Alighieri, presenta il monologo del conte Ugolino della Gherardesca, un momento tra i più strazianti e drammatici della Divina Commedia.
Il conte Ugolino, condannato all’Antenora (la zona dell’Inferno riservata ai traditori della patria), racconta a Dante la sua terribile morte per fame insieme ai suoi figli e nipoti nella Torre della Muda (ribattezzata in seguito Torre della Fame).
Commento e analisi
In questo passaggio, Ugolino racconta in prima persona la tragica vicenda della sua prigionia e morte per fame insieme ai suoi figli e nipoti, rinchiusi nella Torre della Muda per ordine dell’arcivescovo Ruggieri, suo alleato traditore. Il crudo realismo del racconto si mescola a elementi simbolici e onirici, come il sogno premonitore di Ugolino che rappresenta la caccia ai lupi, simbolo del suo destino e della sua famiglia.
- L’immagine del fiero pasto: La scena si apre con Ugolino che solleva la bocca dal “fiero pasto”, ossia dal cranio dell’arcivescovo Ruggieri, che sta mordendo in un atto di eterna vendetta per la tortura subita. Questo atto ferino e brutale mostra la degradazione morale e fisica di Ugolino, che è ormai ridotto a una condizione bestiale, divorato dalla sua rabbia e dal suo dolore.
- Il sogno simbolico: Il sogno di Ugolino, in cui lui e i suoi figli sono rappresentati come lupi cacciati da cani feroci (i Gualandi, i Sismondi e i Lanfranchi), è un chiaro presagio del tradimento che subirà. Il sogno trasforma i traditori in predatori, e Ugolino e i suoi figli in prede, evidenziando l’inevitabilità del destino che li attende.
- La descrizione della morte per fame: Il momento più toccante e doloroso del racconto è la morte per fame dei figli di Ugolino. I bambini, ormai disperati, offrono il proprio corpo al padre affinché possa sfamarsi, mostrando un amore disperato e un sacrificio estremo. Ugolino, però, rifiuta questa richiesta, e il suo dolore si trasforma in un silenzio pietrificato, reso ancora più straziante dal fatto che i suoi figli muoiono uno dopo l’altro.
- La fame come potere finale: Alla fine del racconto, Ugolino rivela che è stata la fame, e non il dolore, a ucciderlo. Questo sottolinea la brutalità del destino a cui lui e i suoi figli sono stati condannati, una vendetta crudele da parte dell’arcivescovo Ruggieri, che ha lasciato che la fame li consumasse lentamente.
Il Canto XXXIII dell’Inferno è uno dei più intensi dal punto di vista emotivo e morale. La figura di Ugolino è profondamente ambigua: da una parte suscita compassione per il suo atroce destino, ma dall’altra è ridotta a una condizione bestiale e vendicativa, simile a quella di un animale feroce che non trova pace neppure nella morte. La sua fame eterna di vendetta si manifesta nel suo atto di divorare il cranio del traditore, un gesto che simboleggia l’odio inestinguibile.
Testo e parafrasi
Testo
La bocca sollevò dal fiero pasto Poi cominciò: “Tu vuo’ ch’io rinovelli Ma se le mie parole esser dien seme Io non so chi tu se’ né per che modo Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino, Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri, però quel che non puoi avere inteso, Breve pertugio dentro da la Muda, m’avea mostrato per lo suo forame Questi pareva a me maestro e donno, Con cagne magre, studïose e conte In picciol corso mi parieno stanchi Quando fui desto innanzi la dimane, Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli Già eran desti, e l’ora s’appressava e io senti’ chiavar l’uscio di sotto Io non piangëa, sì dentro impetrai: Perciò non lagrimai né rispuos’io Come un poco di raggio si fu messo ambo le man per lo dolor mi morsi; e disser: “Padre, assai ci fia men doglia Queta’ mi allor per non farli più tristi; Poscia che fummo al quarto dì venuti, Quivi morì; e come tu mi vedi, già cieco, a brancolar sovra ciascuno, Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti |
Parafrasi
Il peccatore sollevò la bocca dal crudele pasto e si pulì con i capelli del cranio che stava divorando, ferito sul retro. Poi iniziò a parlare: “Tu vuoi che io rinnovi un dolore disperato che già mi opprime il cuore solo a pensarci, ancor prima di parlarne. Ma se le mie parole possono portare infamia al traditore che sto rosicchiando, vedrai che parlerò e piangerò insieme. Non so chi tu sia né come tu sia giunto quaggiù, ma mi sembri fiorentino dal modo in cui parli. Devi sapere che io fui il conte Ugolino, e colui è l’arcivescovo Ruggieri: ora ti spiegherò perché sono così vicino a lui. Non c’è bisogno di raccontare come fui catturato e poi ucciso a causa dei suoi perfidi piani, fidandomi di lui. Ma ti dirò ciò che non puoi sapere: come la mia morte fu crudele, e così capirai se mi ha davvero offeso. Ero rinchiuso in una piccola prigione all’interno della Torre della Muda, che da allora ha preso il nome di ‘Torre della Fame’, e che, ancora, dovrà chiudersi per altri. Molte lune avevano già passato il foro della torre, quando feci un sogno terribile che mi squarciò il velo del futuro. Mi sembrava di vedere questo traditore come maestro e signore, che cacciava il lupo e i suoi lupicini sul monte dove i Pisani non possono vedere Lucca. Gualandi, Sismondi e Lanfranchi, con magre cagne, ben addestrate e attente, erano messi davanti alla caccia. Dopo un breve inseguimento, il padre e i figli sembravano stanchi, e con i loro denti aguzzi mi pareva di vedere i cani fender loro i fianchi. Quando mi svegliai, prima dell’alba, udii i miei figli piangere nel sonno, e chiedere del pane. Se già non provi pietà nel pensare a ciò che mi veniva preannunciato dal mio cuore, non so cosa possa farti piangere. Erano già svegli e l’ora si avvicinava in cui ci portavano il cibo, e ciascuno di loro era preoccupato per il sogno. Udii chiudere la porta inferiore della torre, e io guardai in silenzio i volti dei miei figli. Non piangevo, ero così impietrito dentro: loro piangevano, e Anselmuccio, il mio figlio più giovane, mi chiese: “Padre, perché ci guardi così?”. Non risposi né piansi per tutto quel giorno, né per la notte successiva, fino a quando il sole non tornò a sorgere. Quando un po’ di luce penetrò nel doloroso carcere, io guardai i volti dei miei figli, vedendo in essi riflesso il mio stesso aspetto. Per il dolore, mi morsi entrambe le mani, e loro, pensando che lo facessi per la fame, si alzarono all’improvviso e dissero: “Padre, ci darà meno dolore se ci mangi: tu ci hai vestiti di queste carni miserabili, ora spogliale tu”. A quel punto mi calmai per non renderli ancora più tristi; rimanemmo in silenzio per tutto il giorno e anche il seguente. Ah, dura terra, perché non ti apristi allora? Quando giungemmo al quarto giorno, Gaddo cadde disteso ai miei piedi, dicendo: “Padre mio, perché non mi aiuti?”. Morì lì, e come tu mi vedi ora, vidi cadere gli altri tre uno dopo l’altro, tra il quinto e il sesto giorno. Allora, già cieco, cominciai a brancolare sopra di loro, e per due giorni li chiamai, anche se erano ormai morti. Poi, più che il dolore, prevalse la fame.” Dopo aver detto questo, con gli occhi spiritati, riprese a mordere con forza il teschio del suo nemico, come un cane che affonda i denti nell’osso. |