TESTO LATINO
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TRADUZIONE
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DE DIDONIS INTERVENTU (4.296-330)
At regina dolos quis fallere possit amantem? 4.296 praesensit, motusque excepit prima futuros omnia tuta timens. eadem impia Fama furenti detulit armari classem cursumque parari. saevit inops animi totamque incensa per urbem bacchatur, qualis commotis excita sacris Thyias, ubi audito stimulant trieterica Baccho orgia nocturnusque vocat clamore Cithaeron. tandem his Aenean compellat vocibus ultro: “dissimulare etiam sperasti, perfide, tantum posse nefas tacitusque mea decedere terra? nec te noster amor nec te data dextera quondam nec moritura tenet crudeli funere Dido? quin etiam hiberno moliri sidere classem et mediis properas Aquilonibus ire per altum, 4.310 crudelis? quid, si non arva aliena domosque ignotas peteres, et Troia antiqua maneret, Troia per undosum peteretur classibus aequor? mene fugis? per ego has lacrimas dextramque tuam te quando aliud mihi iam miserae nihil ipsa reliqui, per conubia nostra, per inceptos hymenaeos, si bene quid de te merui, fuit aut tibi quicquam dulce meum, miserere domus labentis et istam, oro, si quis adhuc precibus locus, exue mentem. te propter Libycae gentes Nomadumque tyranni odere, infensi Tyrii; te propter eundem exstinctus pudor et, qua sola sidera adibam, fama prior. cui me moribundam deseris hospes hoc solum nomen quoniam de coniuge restat? quid moror? an mea Pygmal’ion dum moenia frater destruat aut captam ducat Gaetulus Iarbas? saltem si qua mihi de te suscepta fuisset ante fugam suboles, si quis mihi parvulus aula luderet Aeneas, qui te tamen ore referret, non equidem omnino capta ac deserta viderer.´4.330 DE AENEAE RESPONSO (4.331-461) Dixerat. ille Iovis monitis immota tenebat lumina et obnixus curam sub corde premebat. tandem pauca refert: ´ego te, quae plurima fando enumerare vales, numquam, regina, negabo promeritam, nec me meminisse pigebit Elissae dum memor ipse mei, dum spiritus hos regit artus. pro re pauca loquar. neque ego hanc abscondere furto speravi ne finge fugam, nec coniugis umquam praetendi taedas aut haec in foedera veni. me si fata meis paterentur ducere vitam auspiciis et sponte mea componere curas, urbem Troianam primum dulcisque meorum reliquias colerem, Priami tecta alta manerent, et recidiua manu posuissem Pergama victis. sed nunc Italiam magnam Gryneus Apollo, Italiam Lyciae iussere capessere sortes; hic amor, haec patria est. si te Karthaginis arces Phoenissam Libycaeque aspectus detinet urbis, quae tandem Ausonia Teucros considere terra invidia est? et nos fas extera quaerere regna. 4.350 me patris Anchisae, quotiens umentibus umbris nox operit terras, quotiens astra ignea surgunt, admonet in somnis et turbida terret imago; me puer Ascanius capitisque iniuria cari, quem regno Hesperiae fraudo et fatalibus arvis. nunc etiam interpres diuum Iove missus ab ipso testor utrumque caput celeris mandata per auras detulit: ipse deum manifesto in lumine vidi intrantem muros vocemque his auribus hausi. desine meque tuis incendere teque querelis; Italiam non sponte sequor.´ DE REGINAE DIDONIS DESPERATIONE 362-392 Talia dicentem iamdudum aversa tuetur 4.362
huc illuc volvens oculos totumque pererrat luminibus tacitis et sic accensa profatur: ´nec tibi diua parens generis nec Dardanus auctor, perfide, sed duris genuit te cautibus horrens Caucasus Hyrcanaeque admorunt ubera tigres. nam quid dissimulo aut quae me ad maiora reservo? num fletu ingemuit nostro? num lumina flexit? num lacrimas victus dedit aut miseratus amantem est? quae quibus anteferam? iam iam nec maxima Iuno nec Saturnius haec oculis pater aspicit aequis. nusquam tuta fides. eiectum litore, egentem excepi et regni demens in parte locavi. 4,374 amissam classem, socios a morte reduxi heu furiis incensa feror: nunc augur Apollo, nunc Lyciae sortes, nunc et Iove missus ab ipso interpres divum fert horrida iussa per auras. scilicet is superis labor est, ea cura quietos sollicitat. neque te teneo neque dicta refello: 4.380 i, sequere Italiam ventis, pete regna per undas. spero equidem mediis, si quid pia numina possunt, supplicia hausurum scopulis et nomine Dido saepe vocaturum. sequar atris ignibus absens et, cum frigida mors anima seduxerit artus, omnibus umbra locis adero. dabis, improbe, poenas. audiam et haec Manis veniet mihi fama sub imos.´ his medium dictis sermonem abrumpit et auras aegra fugit seque ex oculis avertit et aufert, linquens multa metu cunctantem et multa parantem dicere. suscipiunt famulae conlapsaque membra marmoreo referunt thalamo stratisque reponunt. |
LAMENTO DI DIDONE
Ma la regina (chi potrebbe ingannare un amante?)
presentì, per prima apprese gli avvenimenti futuri
temendo di tutto quello di cui era certa. La stessa empia Fama riportò a lei che era già invasa dalla furia della follia,che veniva preparata la flotta e ci si apprestava alla partenza. Priva di sé e furente, vaga correndo invasata per la città, come Tira evocata dai riti sacri, quando, ascoltato Bacco, la eccitano le orge triennali e di notte il Citerone la chiama con il frastuono.
infine di sua iniziativa si rivolge ad Enea gridando così:
“Hai sperato, o perfido, di poter dissimulare una tale infamia, e senza dir nulla di allontanarti dalla mia terra?
non ti trattengono il nostro amore, né la mano che un giorno mi hai dato né Didone destinata ad una morte crudele? Anzi, anche in inverno allestisci la flotta e ti affretti ad andare al largo in mezzo agli Aquiloni, o crudele? E che? Se non cercassi terre straniere e dimore ignote e rimanesse in piedi l’antica Troia, torneresti a Troia per il mare tempestoso? Ti allontani da me? Ti prego per queste lacrime, per la tua promessa data, (poiché io stessa non lasciai null’altro a me misera), per il nostro connubio, per i responsali che abbiamo iniziato, se ho avuto qualche merito di te, se qualcosa di me ti è stato dolce, ti prego di abitare questa casa che crolla e abbandona questa decisione se c’è ancora una possibilità per le mie preghiere. Per te mi odiano i popoli libici e i tiranni dei Numidi, gli abitanti di Tiro mi sono ostili; sempre per causa tua è venuto meno il pudore e la stima che avevo prima, solo per la quale venivo elevata alle stelle. A chi mi abbandoni, ospite, solo questo nome da marito mi resta? Perché indugio? Forse finché il fratello Pigmalione distrugga le mie mura o il gaetulo Iarba mi faccia prigioniera? Se avessi avuto prole natami da te prima della partenza, se un piccolo Enea giocasse con me/mi illudesse nella reggia, che nel volto mi richiamasse a te, allora non mi vedrei dl tutto sorpresa e abbandonata.”
LA RISPOSTA DI ENEA
Così aveva parlato. Egli teneva i comandi immobili sui comandi di Giove e sforzandosi premeva il dolore dentro il cuore. Infine dice queste poche cose: “Io non negherò, o regina, che hai meriti, i maggiori che sei in grado di enumerare parlando, e non mi rincrescerà ricordare Elissa, finché penserò a me stesso, finché il soffio vitale reggerà queste membra. Di ciò parlerò poco. Non speravo di nascondere la fuga come un ladro, non credere, e non di portare le fiaccole nuziali né ho mai stretto un simile patto. Se i fati permettessero di condurre un’esistenza secondo i miei desideri e di governare a mio piacimento gli affanni, innanzitutto abiterei la città di Troia e sarei presso le mie dolci reliquie, la reggia alta di Priamo sarebbe ancora in piedi e con le mie mani avrei ricostruito per i vinti la rocca di Pergamo caduta due volte. Ma ora Apollo grigneo e gli oracoli della Licia mi hanno ordinato di raggiungere;
questo è amore, questa è la mia patria. Se la rocca di Cartagine e la vista di una città libica trattiene te che sei fenicia, quale invidia c’è per te che i teucri vadano a stabilirsi in terra d’Ausonia (Italia)? Anche a noi è lecito cercare regni stranieri. Ogni volta che la notte copre la terra con le sue umide ombre e ogni volta che sorgono gli astri infuocati il fantasma del padre Anchise mi terrorizza e ammonisce in sogno; mi ammonisce anche il piccolo Ascanio e l’offesa che reco al suo caro corpo,
che defraudo del regno d’Esperia (Italia) e dei campi fatali. Adesso lo stesso messaggero degli dei mandato dallo stesso Giove, lo giuro sul capo di entrambi, mi porta ordini per l’aria veloce; io stesso vidi il dio in un chiarore lucente penetrare nelle mura e io ne accolsi con questi orecchi la voce. Smetti di inasprire me e te con i tuoi lamenti, cerco l’Italia non di mia volontà.”
DISPERAZIONE DELLA REGINA DIDONE
Lei avversa guarda ostilmente lui che dice queste cose ormai girando gli occhi di qua e di là e il suo sguardo vaga con gli occhi muti e, infuocata, scoppia così a parlare: “Non ti fu madre una dea, né Dardano capostipite, o perfido, ma ti ha generato l’orrido Caucaso dalle irte rocce e le tigri ircane (di Lucania) ti hanno porto le loro mammelle (nutrito). Infatti perché fingere riservarmi ad ulteriori oltraggi? Sei forse intenerito per il nostro pianto? Forse che mi ha guardato negli occhi? Forse che, vinto, ha versato una lacrima o ha avuto pietà della sua amante? Cosa posso aspettarmi di peggio? Ormai né la grande Giunone né il padre Saturno possono guardare qui con occhi equi. La fedeltà non è più garantita: l’ho accolto buttato sulla riva e bisognoso di tutto e da pazza gli ho dato parte del mio regno, gli ho salvato la flotta distrutta, ho sottratto i suoi compagni dalla morte. Ah! Sono infiammata e trascinata dalle furie! Ora Apollo augure, ora i responsi della Licia, ora il messaggero degli dei mandato dallo stesso Giove porta per l’aria i comandi. Certamente questa è l’azione degli dei, la sollecitudine muove chi era fermo. Non ti trattengo e non ti propongo altre parole: vattene, segui coi venti l’Italia, cerca regni attraverso le onde. Spero veramente, se le mie preghiere possono qualcosa, che pagherai fino in fondo la pena attraverso gli scogli e invocherai spesso il nome di Didone. Ti seguirò da lontano con fiamme minacciose e quando la fredda morte scinderà le membra dall’anima ti sarò vicina come uno spettro in qualunque luogo. Pagherai il fio, miserabile; questa notizia mi raggiungerà anche laggiù, fra le ombre dei Mani (Inferi).”
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